Il professore ordinario di Storia Antica che ebbi la ventura di ascoltare all’Università di Genova era un fervente ammiratore dell’Impero Romano. Inebriato dai trionfi delle legioni, in piedi sulla cattedra, citava in latino lunghi brani di Orazio, Virgilio e Tacito, con intensa partecipazione emotiva, incurante del fatto che l’uditorio, soprattutto per le note difficoltà dell’ultimo autore, non riusciva a seguirlo e mal sopportava quelle incomprensibili e mediocri declamazioni. Ma il fastidio per questo corso di lezioni, a parte i risvolti comici, era dovuto, almeno per quanto mi riguardava, all’ostinato silenzio che l’emerito docente manteneva sulla sorte delle popolazioni “barbare” vinte e soggiogate dalla potenza romana. Non credo che tale mancanza fosse dovuta ad una sorta di larvato razzismo, quanto piuttosto a mera mediocrità intellettuale, una pianta attualmente in pieno rigoglio. Tra l’altro, a quei tempi, era rischioso non far seguire alla parola imperialismo una litania di feroci condanne e per molto meno alcuni suoi colleghi ebbero a subire pesanti contestazioni. Il nostro Cicerone ne uscì illeso per un motivo, diremmo, cronologico, visto che l’imperialismo romano precede di circa duemila anni quello americano, tuttora trionfante, NATO adiuvante. Comunque sia, da allora, anche in conseguenza del sorgere in me di una sorta di profondo disprezzo per ogni forma di dominio, ho sempre ricercato e raccolto testimonianze di chi, fossero singole persone o interi popoli, abbia subito nel tempo oppressione e soprusi, compresi quelli derivanti da quegli scempi che oggi si definiscono “guerre giuste” o “interventi umanitari”. Naturalmente non sono tanto ingenuo da credere che il bene e il male possano separarsi con la lama ben affilata di un coltello. Le zone grigie incombono sempre nelle valutazioni umane e le confondono. Ma non solo altrettanto sciocco da dedurne che gli uomini furono, sono e saranno sempre delle bestie, e che la storia non sia altro che una inestricabile miscela di brutture senza senso. Gratta gratta, ed il senso finisce sempre per emergere, magari sotto una montagna di menzogne prezzolate. La scoperta della verità non dà vita agli assassinati: eppure, come scrisse Walter Benjamin poco prima di suicidarsi per non cadere in mano ai nazisti, “Fra le generazioni passate e la nostra c’è un’intesa segreta. Noi siamo stati attesi sulla terra; a noi, come ad ogni generazione che ci ha preceduto, è stata data in dote una debole forza messianica, sulla quale il passato ha un diritto”. Forse il riconoscimento e la difesa di questo diritto potrebbe dare un senso al nostro presente. Riporterò di seguito alcuni brani tratti dalla storiografia latina, nei quali i capi degli eserciti cosiddetti “barbari” espongono le ragioni della loro resistenza alla conquista. Sono tra gli esempi più noti, ma ve ne sono degli altri che magari tratterò in seguito. Un’ovvia e fondamentale premessa. Queste testimonianze sono state scritte da storici romani, appartenenti alle classi dominanti, nel caso di Cesare dallo stesso comandante delle legioni, e vanno quindi trattate con prudenza. Esse danno per scontato che il successo sia voluto dagli dei, provvidenziale, frutto della superiorità romana. Noi leggiamo le parole dei comandanti galli, germani, britanni, ma escono dalla penna dei loro nemici e riflettono la visione della vita e del mondo di questi ultimi. Ma va detto anche che questi scrittori riconoscono il valore del nemico, così come non hanno remore nel denunciare, quando occorra, la viltà romana. La loro visione della Storia, un’alternanza di Caso e Destino, priva di pietà e di etica, quali noi le intendiamo, deriva dalla Necessità dell’espansione e del dominio di Roma e si regge sulla violenza delle armi vittoriose. Anche perché, come scrive Tacito all’inizio delle sue Storie, «Gli dei non si preoccupano della nostra sicurezza, quanto della vendetta nei nostri confronti». Solo la propria virtus può vincere la solitudine cosmica dell’uomo. SALLUSTIO, HISTORIAE, FR. IV, 69 (68 A. C. CIRCA) Mitridate IV Eupatore, re del Ponto, invia una lettera ad Arsace, re dei Parti, per incitarlo ad unirsi a lui contro i Romani. Siamo nel corso della terza guerra mitridatica. Si tratta di uno dei documenti più importanti della pubblicistica anti-romana della tarda età repubblicana. «Uno solo, e antichissimo è il motivo per cui i romani fanno guerra a tutti, nazioni, popoli e re: l’insaziabile cupidigia di dominio e di ricchezze. [...] L’Asia fu da loro occupata. Ignori, forse, che i romani arrestati dall’Oceano nella loro marcia verso Occidente, hanno rivolto qua le loro armi, che fin dai primordi nulla possiedono che non sia frutto di rapina, case, mogli, terra e impero? che, fuggiaschi in passato senza patria né parenti, si sono costituiti in Stato per la distruzione del mondo? e che nessuna legge umana o divina li trattiene dal depredare e dall’annientare alleati ed amici, popoli vicini e lontani, deboli e potenti, o dal considerare nemici tutti quelli che non sono loro schiavi? Soltanto pochi, infatti, preferiscono la libertà: i più non cercano che padroni equi. I romani fanno guerra a tutti, ma soprattutto a quelli la cui disfatta promette spoglie opime e si sono ingranditi osando, ingannando, passando da una guerra all’altra». CESARE, DE BELLO GALLICO, VII, 77 (52 A. C.) Durante l’assedio romano di Alesia, Critognato, nobile comandante degli Arverni, esorta gli abitanti alla resistenza. «A che altro mirano i romani, che altro vogliono, se non installarsi per invidia sulle terre di un popolo conosciuto per la sua nobiltà e la sua potenza militare, imponendogli per sempre il giogo della servitù? Mai essi hanno combattuto per altro che per questo. Se ignorate cosa avvenne presso nazioni lontane, guardate la Gallia a noi confinante: ridotta a provincia, perduto il suo diritto e le sue leggi, prostrata sotto le scure dei fasci, geme in perpetua servitù». TACITO, HISTORIAE, IV, 14 (77 D. C) Giulio Civile, nobile batavo, arruolato nell’esercito romano, comandante di una coorte di suoi connazionali, si ribella ai dominatori ed esorta i suoi alla rivolta. «Quando mai viene tra noi il governatore? Siamo nelle mani di prefetti e centurioni e quando questi si sono saziati di bottino e di sangue, li cambiano e poi cercano nuove borse da riempire e inventano nuovi nomi per giustificare la loro preda. Ora abbiamo sul collo la leva che divide, come in un supremo distacco, i figli dai genitori, i fratelli dai fratelli. Mai come oggi Roma è in difficoltà e gli accampamenti invernali non contengono che bottino e vecchi; alzate gli occhi da terra e svanirà la paura delle legioni, parola oggi senza peso. Noi invece abbiamo la forza dei nostri fanti e dei nostri cavalieri, abbiamo i Germani a noi legati per sangue, e i Galli che condividono i nostri desideri». TACITO, AGRICOLA, 30- 32 (84 D. C.) Calgaco, comandante calegone, prima della battaglia del monte Graupio, nell’attuale Scozia, arringa i suoi soldati. Probabilmente la più straordinaria denuncia dell’imperialismo romano. «Quando ripenso alle cause della guerra e alla terribile situazione in cui siamo, nutro la grande speranza che questo giorno, che vi vede concordi, segni per la Britannia l’inizio della libertà. [...] Ora si aprono i confini ultimi e l’ignoto ci affascina: ma dopo di noi non ci sono più popoli, ma solo scogli ed onde, ed il flagello peggiore, i romani, alla cui prepotenza non fa difesa la sottomissione e l’umiltà. Predatori del mondo intero, adesso che mancano terre alla loro sete di devastazione, vanno a frugare anche il mare. Rubano, massacrano, rapinano e, bugiardi, lo chiamano impero; infine, dove fanno il deserto, dicono che è la pace. E come nel gruppo degli schiavi, l’ultimo arrivato subisce lo scherno anche dei compagni, così in questo covo di schiavi che è il mondo noi, ultimi disprezzati, ci cercano per mandarci a morire». © Riproduzione riservata