Addio a Salvatore Salvemini
Giovedì 28 dicembre, si è spento, all'età di 81 anni, il Maestro Salvatore Salvemini, decano degli artisti molfettesi, tra i più apprezzati pittori pugliesi a livello nazionale. Riportiamo un bel ritratto dell'artista molfettese tracciato, nel libro “Il luogo amato dell'arte” (Schena editore), da Santa Fizzarotti Selvaggi
“Il vero artista è il signore e non lo schiavo delle sue capacità” scrive Arnold Hauser. E nell'artigianalità dell'atto del disegnare che si svela il talento dell'artista. È stato il disegno a sostenere qualsiasi discorso pittorico, anche quando apparentemente sembrava che fossero soltanto il colore o il gesto a dominare la scena dell'arte. Così come già ad Altamira, in Spagna, o a Lascaux, in Francia, oppure anche in Puglia, terra che, a sua volta, testimonia la genesi delle immagini nei graffiti nascosti nelle sue misteriose grotte di Porto Badisco. Disegno o, ancor più originariamente, segno. Dal quale, in realtà, comincia veramente compiutamente la vita della forma e quella della scrittura prima che esse, come diceva Brandi, si separino e diano inizio a differenti percorsi di significazione. Del resto non a caso le più antiche scritture sono definite pittografiche. Ed appunto, al segno o disegno (come lo concepiva Federico Zuccari), nonché alle sue successive e varie rielaborazioni ritorna Salvatore Salvemini - un artista nato a Molfetta, dove vive e lavora, e che ha già attirato l'attenzione della critica più qualificata. Salvemini ha incominciato a dipingere intorno agli anni Cinquanta, in pieno clima “neo-realista”. Egli afferma di aver allora creduto “in un'arte drammaticamente urlata, un'arte come atto di coraggio”. In realtà egli credeva nell'uomo e nelle libertà delle sue capacità critiche. Non ha mai amato la cosiddetta romantica “solitudine dell'artista”: nel 1965 creò, insieme ad altri pittori, il gruppo “Nuova Puglia”, nel tentativo (disperato) di eliminare dall'arte pittorica il provincialismo dei luoghi comuni... Ma già in alcune opere degli anni Settanta incominciava ad affiorare in lui lo scenario malinconico di chi lentamente assisteva alla frantumazione delle speranze e delle illusioni. A tal proposito Salvemini dichiara: “L'assenza del colore nelle mie tele, in quel momento, voleva denunziare un paese buio, tragico; voleva essere l'espressione del mio dissenso”. L'intensa e stringente dialettica tra colore e non colore che sempre ha animato il suo lavoro, cedeva il posto a tonalità monocromatiche: “il colore era ridotto al bianco e nero, forse più nero. Alcune volte l'ocra scura si sporcava di terra”, scrive con dolore Salvemini “chiuso nella cella di un immaginario favo, fino a ridurre la tela ad un osso di seppia”. È forse per questo che l'essenzialità del disegno ha sempre governato le sue opere, all'interno delle quali è emersa ben presto la sua grande maestria nell'uso delle tecniche calcografiche. Ecco, era giunto alle origini del segno allorquando le acqueforti e le acquetinte accompagnano, quali quinte teatrali, tutta la sofferente tensione che si nasconde nel gesto di coloro che affidano i più reconditi pensieri alla “punta secca”. Sulla lastra di rame o di zinco, proprio attraverso l'antica tecnica della “puntasecca”, vengono evocati i primi racconti dell'umanità, mentre al tempo stesso si gioca la capacità di controllo dell'artista su se stesso e sul mondo. Ciò vuol dire anche passaggio dalla “Natura” alla “Cultura”. L'artista non perde la consapevolezza di tale continuità, mentre indaga nel mistero della creatura umana, costruendo la metafora dell'arte. Il rapporto con le proprie origini, con l'essenza stessa del linguaggio, con la percezione e insieme con la figurazione è il tema dominante del lavoro di Salvemini, tema che è possibile ritrovare finanche nei più piccoli frammenti della sua opera. Non si tratta di scegliere, a freddo ed anartisticamente, tra figuratività ed astrazione: le sue incisioni, la cui preziosa produzione ha termine agli inizi degli anni Ottanta, ne sono l'esemplificazione. Ed è proprio in questi stessi anni che l'artista ha ricominciato “a riguardare dentro di sé” con altri occhi, ad osservare la sua immagine allo specchio ed a ritrovarsi in parte dissolto nel passato, mentre incominciava ad avvertire una nuova energia nel presente. Dalla scarnificazione linguistica egli era pervenuto alle “radici” delle idee, pur mantenendo “intatta la memoria delle cose accadute”. L'artista, superava, appunto, l'apparente contraddizione tra astratto e figurativo, in virtù della conoscenza del segreto delle immagini: i suoi “famosi” grovigli, pur nella loro valenza astratta, appaiono estremamente concreti nella loro dilatata iperrealtà. Il proliferare dei segni germina sicuramente dall'acuta capacità di osservazione del paesaggio di Puglia, dei volti della gente, delle strutture architettoniche che rendono tipici ed indimenticabili tutti i paesi di questa terra arsa dal vento e dal sole. Così come ha scritto Italo Mussa in occasione di una mostra personale dell'artista: “Tra il segno emblematico e i colori rarefatti dei fondi c'è una fluidità permanente, mediante la quale si apre (cupa e trasparente) una spazialità psicologicamente profonda”. In ogni caso Salvemini trova ancora le parole per comunicare il disagio della nostra società contemporanea e meridionale. Al tempo stesso egli si accorge che “la realtà è piena di cose che non si vedono” per cui desidera “entrare nell'invisibile, in tutto ciò che è sotto la pelle”.
Autore: Santa Fizzarotti Selvaggi