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Virgilio Guzzi molfettese per caso Frammenti di storia
15 febbraio 2015

I geni e gli uomini di talento non appartengono a questa o quella città o nazione, ma sono patrimonio dell’umanità. Tuttavia è lecito che la città natìa conservi qualche motivo di orgoglio per la nascita di personaggi famosi. È quanto si può dire, ad esempio, anche per Virgilio Guzzi, molfettese per caso. Infatti il futuro critico-artista nacque a Molfetta solo perché suo padre vi si trasferì per motivi di lavoro. Domenico Guzzi nel 1902 lavorava come impiegato della Dogana a Molfetta, dove sua moglie Evelina Pedullà il 23 dicembre di quello stesso anno diede alla luce un bel bambino, Virgilio. Il soggiorno della famigliola in Molfetta durò pochissimi anni, perché verso il 1905 ci fu un nuovo trasferimento a Napoli, dove i Guzzi andarono incontro alla terribile eruzione del Vesuvio, che dal 4 al 22 aprile 1906 devastò l’area circostante con oltre duecento morti e decine di migliaia di senzatetto. Ecco il ricordo del piccolo Virgilio in Scartafaccio (1978), un intenso brogliaccio autobiografico oscillante fra arte e memorialistica: «Il Vesuvio, paura e cenere. Reggeranno i balconi? Tutto grigio, la casa trema, a ogni boato s’agita e squilla il campanello alla porta. Il signore accanto: Si dirà, un giorno, qui fu Napoli. Mia madre gialla d’itterizia. Fuga a Roma. Manlio che all’ultimo non gli entra una scarpetta». Passato il pericolo, la famiglia tornò a Napoli, dove soggiornò fino al 1910, anno del trasferimento definitivo a Roma. Qui, osservando delle fotografie del Vittoriano, Virgilio abbandonò i modellini di cera e si allenò a plasmare nella creta alcuni gruppi allegorici dell’Altare della Patria. Gli fece poi da guida nelle prove plastiche lo scultore carrarese Arturo Dazzi, che nel 1922 vedrà eretta in Roma la sua statua a Enrico Toti e nel 1928 realizzerà la Vittoria del monumento della Grande Guerra in Bolzano. Dazzi lo esortò a disegnare metodicamente e a studiare gli antichi maestri, spingendolo a frequentare i musei e la Galleria Borghese. Mentre studiava al liceo- ginnasio “Torquato Tasso” di Roma, Virgilio Guzzi prese a visitare anche la Galleria d’Arte Moderna, dove familiarizzò con i quadri di Antonio Mancini, Giovanni Fattori e Armando Spadini. Forte delle sue doti di disegnatore, cominciò pure a dipingere da autodidatta, cercando una propria sintesi tra realtà museale e osservazione del vero. Ispirandosi al famoso ritratto d’uomo di Antonello da Messina, a vent’anni pennellò il suo primo Autoritratto (1922), con la veduta di tre quarti e l’intenso sguardo degli occhi cerulei fisso sugli osservatori, ma con un sorriso più ambiguo e un gusto più luministico. Iscrittosi frattanto alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma, verso la fine del 1924 l’artista cominciò a frequentare le “Grotte” di Via degli Avignonesi, cioè la Casa d’arte dei fratelli Bragaglia, dove s’imbatté nel “realismo magico” di Antonio Donghi, incontrò Filippo de Pisis ed ebbe dimestichezza con i giovani dell’espressionismo romano, come Scipione (Gino Bonichi), Marino Mazzacurati, Mario Mafai e la di lui moglie Antonietta Raphaël. Così Guzzi poté confrontarsi con i pittori della “Scuola romana”, che continuerà a seguire con attenzione negli anni seguenti, in autonomia pittorica e come critico d’arte. Nel 1926 si laureò in storia dell’arte con una tesi su L’insegnamento di Michelangelo, discussa con Adolfo Venturi e Giovanni Gentile. Fu proprio l’attualismo gentiliano a esercitare un grande ascendente su Guzzi, veramente ho amato d’amor filiale (e ciò non ostante dovetti dargli da ultimo un dispiacere); del cui pensiero filosofico mi sento seguace, fu Giovanni Gentile. Da lui ho appreso che la realtà è una e attuale: e si chiama pensiero pensante». Dopo la laurea e un breve periodo di servizio militare, Guzzi nel 1927, su invito del pittore Orazio Amato, prese per un anno l’atelier che Oskar Kokosckha aveva tenuto ad Anticoli. Qui dipinse diversi quadri dal vero, tra i quali una realistica Natura morta (1928), con cui esordì alla I Mostra del Sindacato Laziale fascista di Belle Arti del 1929. L’anno dopo, alla II Mostra del Sindacato Laziale, espose tre quadri, tra cui un bel Nudo femminile (1929) influenzato dal “realismo magico” di Donghi. A Donghi si aggiunse Guidi nella mirabile Natura (1930), presentata alla I Quadriennale d’Arte nazionale di Roma del 1931. Come critico d’arte, nel 1930 collaborò per breve tempo al quindicinale romano “Civiltà fascista” di Luigi Volpicelli, facendosi notare per le pregnanti Note su Mafai e Scipione, in cui insisteva sulla necessità di una visione immediata e lirica della realtà. L’anno seguente il suo primo libro, Pittura italiana contemporanea, gli aprì le porte della “Nuova Antologia”. Il volume era piaciuto ad Ardengo Soffici, il quale segnalò l’autore ad Antonio Baldini, che nel 1932 invitò Guzzi a collaborare alla prestigiosa rivista. Quando Gentile seppe che l’artista molfettese aveva necessità di lavorare, lo chiamò all’Enciclopedia Italiana, prima come disegnatore e poi, dal 1934, come revisore artistico e infine redattore di arte contemporanea italiana. Tra le voci più significative si segnalano quelle su Virgilio Guidi, Giorgio Morandi e Scipione. Sempre nel 1934 Guzzi partecipò per la prima volta alla Biennale di Venezia con due quadri e iniziò una quarantennale amicizia con Fausto Pirandello, su cui pubblicherà due monografie critiche, nel 1950 e nel 1976. Nel 1935 Guzzi aprì lo studio in Via Margutta 51/A, mantenendolo fino alla morte. Invitato dal pittore Cipriano Efisio Oppo, segretario della II Quadriennale d’Arte di Roma, il 10 maggio 1935 tenne una conferenza sulle Tendenze della giovane pittura italiana, per cui gli fu attribuito il primo premio per la critica. In quell’anno e in quello seguente fece diversi viaggi all’estero per osservare di persona le opere di Rubens, Rembrandt, Vermeer, Goya, Delacroix, Courbet e Manet. L’impatto con i maestri del realismo europeo dal Seicento all’Ottocento, l’esempio dell’arte neobarocca di Mafai e Scipione, la frequentazione della Galleria della Cometa diretta da Libero De Libero e l’influenza del tonalismo di Corrado Cagli, Giuseppe Capogrossi ed Emanuele Cavalli determinarono il superamento della visione novecentista con un cambiamento stilistico nella pittura di Guzzi, particolarmente evidente nelle soluzioni tonali di Nudo (1937) e Ragazza allo specchio, esposti nel 1937 alla VII Mostra sindacale del Lazio, in Ragazza che si spoglia (1933), portata nel 1939 alla III Quadriennale romana, e nei più fluidi impasti cromatici di Figura (1938), Grande Bagnante (1938) e Susanna (1939). L’esperienza della “Scuola romana” era ormai conclusa. Nel 1940, alla XXXI Mostra della Galleria di Roma, diretta da Orazio Amato, Guzzi, vero organizzatore della rassegna, espose con Renato Guttuso, Luigi Montanarini, Orfeo Tamburi, Alberto Ziveri e Pericle Fazzini, firmando la presentazione in catalogo: «Niente più realtà del sogno, ma sogno della realtà», aspirazione a «un romanticismo classico», andando verso «un nuovo realismo» impregnato di eticità. L’anno dopo il ministro Giuseppe Bottai lo chiamò a collaborare al quindicinale “Primato”, dove Guzzi tenne, fino al luglio del ’43, la rubrica “Corriere delle arti” firmandosi anche con lo pseudonimo Mazzafionda. Nel frattempo il critico-pittore nel 1941 era stato nominato professore di storia dell’arte nel Liceo artistico romano e nel ’42 titolare della stessa materia all’Istituto d’arte di Roma. Nel 1943 la monografia su Antonio Mancini, chiestagli da Emilio Cecchi, confermò la sua preparazione neo-idealistica e la sua acribia di critico. Nello stesso anno espose ben quattordici opere alla IV Quadriennale romana. Davanti ai suoi quadri si fermò anche De Pisis, indicandone uno in particolare all’autore: «sempre con quella voce [nasale]: “Pare un Goya”, disse compiaciuto. Si trattava d’una figura terzina di Vagabondo [1942], fumatore di pipa». Era, con le altre tele, il suo ulteriore contributo al rinnovamento del gusto in direzione antinovecentesca a Roma. Nella seconda metà del ’43 Guzzi fu invitato a collaborare come critico d’arte al giornale romano “L’Italia” e nel ’44 a “Il Tempo”. In questo quotidiano scrisse, seguitissimo, per più di trent’anni, fino alla morte. Nell’ottobre del 1945, nella sede del settimanale “L’Internazionale” di Milano, l’artista partecipò alla Mostra di opere d’arte raccolte durante il periodo clandestino per il Comando Superiore Partigiano. Nello stesso mese, con il polacco Joseph Jarema, Enrico Prampolini e Pericle Fazzini, Guzzi fu tra i fondatori dell’Art Club di Roma, il cui fine era quello di favorire, dopo le ferite della guerra, un rinnovamento dell’arte italiana attraverso scambi internazionali, mostre, conferenze e pubblicazioni. Il critico- pittore partecipò con impegno alla redazione del bollettino e alle mostre in Italia e all’estero, ma nel ’49 si allontanò dal gruppo, ormai troppo sbilanciato verso l’astrattismo. Dal secondo dopoguerra era in atto una serrata contrapposizione, che durerà fino al termine degli anni Cinquanta, tra i fautori del realismo e gli astrattisti. Guzzi non poté esimersi dal polemizzare con Lionello Venturi, difensore dell’astrattismo, che tuttavia lo invitò a iscriversi all’Associazione Internazionale dei Critici d’Arte, di cui era presidente. Il vivace dibattito indusse Guzzi a riformulare il suo stile in senso geometrico, tenendosi lontano dalle esperienze informali, ma distillando la lezione del cubismo, senza rinunciare al pilastro della realtà. Ancora una volta il suo Scartafaccio svela dettagli preziosi: «Conoscere meglio Picasso e il Cubismo, ma non mettersi a triangoleggiare, a tagliare le forme con l’ascia. Prendere atto di Mondrian (Kandiski è un professore orientale che non ho mai capito) ma per intendere che di là si usciva verso il nulla, e tuttavia con squadra e riga in mano. […] Estrarre la quintessenza. Non dare, come si dice, il pugno nell’occhio. C’era di che, per rimanere soli. […] Sulla traccia di Van Gogh anch’io ho pensato, scatenatasi la polemica in pro’ dell’astratto, che avrei piuttosto smesso di dipingere che chiuso gli occhi davanti allo spettacolo del mondo». In tale prospettiva la pittura guzziana tentò un morbido equilibrio tra figurazione e astrazione, orientandosi verso la semplificazione della forma in composizioni dal fraseggio geometrico, in cui il colore s’inscrive in nette campiture, da Vat 69 (1945) e Ritratto di Rolando Monti (1946), non esenti dall’influenza dei fauves, fino a Figura (1951-52 circa), effigie della futura moglie elaborata in una personalissima sintesi tra la suggestione di Matisse e la lezione di Picasso, presentata alla XXVI Biennale di Venezia, cui era stato invitato da Giò Ponti. Nell’aprile del ’51 Guzzi pubblicò nella rivista “Illustrazione italiana” il breve saggio Caravaggio anticipa la pittura moderna, per il quale gli fu conferito da Roberto Longhi il Premio Brera per la critica artistica. Fiorì anche la stagione del grande amore e il primo giugno 1952 Virgilio sposò la leggiadra artista romanobolognese Giuliana Bergami, di ventisei anni più giovane di lui. Per lei Scartafaccio offre una nota di affettuoso compiacimento: «a Venezia, giunti in viaggio di nozze, fummo presto travolti dai festeggiamenti della Biennale. I marinai, schierati lungo il profumato viale dei tigli ai Giardini, in attesa del Presidente, indirizzarono alla sposa intimorita qualche sibilo di ammirato stupore». Dallo loro unione il 31 gennaio 1954 nacque Domenico, futuro critico e storico dell’arte, scomparso prematuramente il 12 febbraio 2009. Nel 1954 Guzzi tornò alla Biennale di Venezia con cinque opere e iniziò l’insegnamento di storia dell’arte presso il Centro sperimentale di Cinematografia. Nel 1956 partecipò con due quadri alla mostra organizzata dall’Art Club nelle Gallerie nazionali di Melbourne, Sidney, Adelaide, Perth, Hobart e Brisbane. Contemporaneamente pubblicò Primo e ultimo De Pisis e nel 1960 Amore degli Antichi. Dal 1957 al 1961 fu direttore dell’Accademia di Belle Arti di Roma. Intanto aveva dipinto Natura morta (1955) e Natura morta con conchiglia (1959 circa), esposte con altri sette stilllife geometrizzanti nel ’59 alla VIII Quadriennale di Roma, cui partecipò anche la moglie. Nel 1960 quattro sue opere apparvero a Ferrara alla Mostra del rinnovamento dell’arte in Italia 1930-1945. Nonostante il successo, Guzzi aveva attraversato anni difficili, come annota in Scartafaccio: «Anni duri, dal cinquanta al sessanta. Sono stato insultato da coloro che avevano una gran fretta di passare […] dall’idealismo al marxismo, e parlavano di Stalin come del padre dei popoli, come d’un santo protettore». Dal 1961 Guzzi fu docente nella Libera Università di Studi Sociali Pro Deo (l’odierna LUISS). Nel 1963 tenne un’ampia personale alla “Gallery 63” di New York, con presentazione di Fausto Pirandello, e diede alle stampe Arte d’oggi. Storia di otto Biennali. Nel 1964 progettò i bozzetti per le sei vetrate absidali della basilica minore di San Giovanni Bosco in Roma e pubblicò per l’editore romano Canesi un commento alle tavole della Divina Commedia illustrata da Sandro Botticelli, uscita in tiratura limitata di duemila esemplari numerati. Nel 1965 venne nominato accademico di San Luca, istituzione nazionale di cui sarà presidente dal ’74 al ’76. Nel 1967 con gli editori Fabbri presentò agli amatori Il ritratto nella pittura italiana dell’Ottocento e partecipò alla grande rassegna “L’Arte moderna in Italia 1915- 1935” al Palazzo Strozzi di Firenze, dove ricevette il Fiorino d’oro. Nel 1969 dedicò alla moglie la testa di bronzo a tutto tondo Ritratto di Giuliana. e nel 1976 pubblicò Ritratti dal vero di Artisti moderni. Negli anni Sessanta e Settanta l’arte pittorica guzziana incontrò una nuova evoluzione. Diventò più strutturata, ordita con nette campiture in un’ardua sintesi di forma e colore. Paul Cézanne aveva detto: «Peindre d’après nature, ce n’est pas copier l’objectif, c’est réaliser ses sensations (Dipingere dal vero non significa copiare l’obiettivo, significa realizzare le sue sensazioni)». Parafrasando e oltrepassando Cézanne, Guzzi, come rivela in Scartafaccio, sintetizzò il suo programma nell’imperativo: «Rifare il cubismo “d’après nature”». Citerei, per questo periodo, l’armonia quasi metafisica di Interno (1964), il replicato verticalismo di Alberi in Versilia (1964), l’eleganza cromatica e compositiva di Giuliana (1968) e Paesaggio (1971), l’invenzione di forme anoggettuali di Controdadà (1972), la spinta stilizzazione di Omaggio a Braque (1977), le ombre lunghe di Cabine (1977), la mise en abîme delle tele Il quadro nel quadro n. 1 e n. 2, che risalgono al 1977. Frattanto, il 30 novembre 1973, era morto suo fratello Manlio. Cinque anni dopo, il 9 novembre 1978, a neanche due mesi dalla pubblicazione di Scartafaccio, Virgilio Guzzi si spense a Roma. Sua moglie gli sopravvivrà fino al 3 luglio 1995. Polemista per indole, il critico Guzzi indagò sull’arte moderna e contemporanea senza eluderne i problemi e sostenendone sempre i valori, contro le mode e le posizioni ufficiali. Come pittore, attuò la sua rivoluzione rifacendosi alla classicità, ma innovandola con la filigrana delle avanguardie. Ignorato dalla sua Molfetta, Guzzi talvolta la visitò segretamente. Un anno potrebbe essere stato il 1971, quando espose alla Galleria “Michelangelo” di Bari, e anche il 1973, quando nella stessa location fu allestita una sua personale, in cui figuravano una goyesca Fucilazione (1950), i luminosi Tetti rossi in Versilia (1964), i piani intersecati di Natura morta (1970) e La bottiglia di gin (1971) dalle materiche pennellate. Quando l’ex sindaco Vincenzo Zagami, che lo conosceva come acuto critico d’arte del “Tempo”, lo invitò a far parte del Comitato romano per l’accoglienza della Deposizione in bronzo di Giulio Cozzoli, per la verità non ancora ultimata dal nipote Maurangelo Cozzoli in una fonderia veronese, Guzzi, in una lettera di quel periodo, rivelò: «sono stato diverse volte nella bella città natia, in incognito, non avendo né parenti, né amici, per deliziare i miei occhi con la contemplazione delle opere di Cifariello e del Cozzoli, sostando dinanzi all’antica Dogana, ove lavorò il mio caro papà negli anni più belli». Molfetta, sia pure in ritardo, mentre sarà sindaco Beniamino Finocchiaro, ricorderà il suo illustre figlio con una retrospettiva postuma nella Sala dei Templari dal 9 maggio al 9 giugno 1982.

Autore: Marco I. de Santis
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