di Ignazio Pansini
Il recupero delle testimonianze superstiti della marineria tradizionale adriatica è un'esigenza avvertita da più parti, anche nel tratto meridionale della costiera, ed anche nella nostra città. Come è noto, la storia marittima pugliese, in tutte le sue varie articolazioni, compresa la tipologia delle antiche imbarcazioni da pesca e da traffico, ha prodotto nel corso dei secoli una mole documentaria cospicua, ed in parte inesplorata, che non ha niente da invidiare a quella delle altre regioni adriatiche.
Le relazioni commerciali, gli scambi, la cantieristica, le migrazioni pacifiche e quelle forzate, (pensiamo alla secolare compravendita degli schiavi, alla guerra di corsa, alla pirateria), la conquista e le occupazioni militari più o meno durature, hanno inoltre favorito uno scambio continuo di uomini, saperi ed esperienze, che hanno arricchito lo spessore storico e culturale delle città costiere. Le testimonianze archivistiche, architettoniche, artistiche, ed anche linguistiche e letterarie di questi secolari contatti sono numerose e complesse, e richiedono un approccio interdisciplinare, oltre che una padronanza dei metodi e degli strumenti di ricerca.
Ritengo che, da noi, sia però necessario anche un punto d'incontro ed una mediazione fra due situazioni che a mio parere non favoriscono un avanzamento soddisfacente degli studi. Da una parte, diciamo nel settore “alto” degli addetti ai lavori, penso alla maggior parte degli istituti storici universitari, si è privilegiato negli ultimi anni lo studio e la ricerca sulla articolazione e dislocazione interna delle classi dirigenti in età moderna, e sulle lotte e le alleanze per il raggiungimento e mantenimento del potere, soprattutto in ambito feudale. Questa tendenza penalizzava gli strati sociali ed economici medio-bassi, che si davano per “dati”, ed ininfluenti rispetto a quelli dominanti.
Un trend storiografico di questo tipo, ancor più di quello agricolo e contadino, troppo legato alle vicende delle classi dirigenti nobiliari, sacrificava l'universo economico e sociale legato al mare, differenziandosi da gruppi di ricerca diversi, gravitanti su altre zone costiere, a cominciare, per limitarsi all'Adriatico, a quella romagnolo-marchigiana, e veneto-istriana. Dall'altra parte, a livello locale, assistiamo da qualche tempo ad un risveglio di interesse per le tematiche di cui sopra. Nascono associazioni, si impostano programmi di recupero iconografico ed oggettuale, si coinvolgono le scuole, si sollecitano le autorità comunali ed i privati a sostenere e favorire queste iniziative.
Tutto questo va bene, ed è già tanto che dal nulla qualcosa si muova. Penso tuttavia che si dovrebbe evitare la dispersione delle forze, il prevalere di molti eventi di poco peso, e favorire invece la cooperazione e coordinazione delle risorse e dei saperi, in vista di programmi ed iniziative definite, scientificamente accettabili, con risultati che restano e che sono buona base per ulteriori avanzamenti.
Non intendo criticare, o dare lezioni ad alcuno, e conosco benissimo le grandi difficoltà che si oppongono a progetti di questo genere: credo però che un autentico spirito di collaborazione, ed una realistica consapevolezza di quanto si può già fare, possano dare comunque buoni frutti. Ho pensato di corredare queste brevi annotazioni con le immagini di quattro tra le più diffuse barche adriatiche, praticamente scomparse dopo la seconda guerra mondiale: il trabaccolo, il bragozzo, la brazzera, e la bilancella.
Per ognuna ho compilato brevi dati descrittivi. Ho privilegiato le fotografie più belle,e più nitide, convinto come sono che anche in questo campo l'estetica, se non decade in oleografia o luogo comune, ha grandi potenzialità euristiche.
Concludo con un aneddoto. Qualche anno fa, una associazione legata alla locale attività marinara, mi chiese di verificare la possibilità di scriverne la storia. Riservandomi di accettare, domandai se avessero da qualche parte delle carte d'archivio. Mi fu candidamente risposto che si ricordavano diverse casse di “carte vecchie”, ma che qualche anno prima, in occasione di un trasloco, era stato tutto caricato su di un “tre ruote”, e trasportato alla discarica.
Andiamo comunque avanti con fiducia, e con un po' di ottimismo che non guasta mai, ma anche con l'amara certezza che quel viaggio non è stato il solo.
BRAZZERA ISTRIANA
La brazzera (nella foto) era tra le imbarcazioni più diffuse dell'alto Adriatico, soprattutto sul versante istriano: le sue origini si possono ritenere dalmate. Era impiegata per il piccolo cabotaggio, più raramente per la pesca. La varietà istriana si distingueva da quella veneta e da quella dalmata per l'attrezzatura velica, per le linee filanti ed eleganti dello scafo, e per lo slancio in avanti della prua, pure a forme piene.
Poteva essere armata con due o tre alberi, a seconda delle dimensioni dello scafo: il primo era subito dietro l'asta di prua, mentre il secondo era a circa un terzo dello scafo, verso prua, ed entrambi erano attrezzati con vela latina. A prua vi era un piccolo bompresso, che serviva per la mura della vela di prua, che in pratica fungeva da polaccone.
La brazzera istriana raggiungeva misure variabili tra i dieci ed i quindici metri di lunghezza, con un rapporto lunghezza/larghezza pari a circa tre. L'equipaggio variava dai quattro ai sei uomini, la stazza dalle otto alle venti tonnellate.
BRAGOZZO
Il bragozzo fu la classica barca di origine chioggiotta, usata prevalentemente per la pesca in tutto l'alto Adriatico. Le dimensioni medie erano di dodici metri e mezzo di lunghezza, e tre di larghezza. Aveva fondo piatto, senza chiglia, che gli consentiva di superare le secche e di riparare sulle spiagge sabbiose in caso di fortunali. Pontata, e munita di due ampi boccaporti, armava in genere due alberi con vele al terzo: il trinchetto era appruato, e spesso inclinato in avanti di 15 gradi, per favorire le manovre delle vele.
Il bragozzo d'altura stazzava circa venti tonnellate, l'equipaggio variava dai quattro ai sei uomini. L'asta di prora era rivestita da una lama di ferro, tenuta sempre lucida e pulita. Il timone, molto lungo come in tutte le barche adriatiche, scendeva oltre un metro al di sotto del fondo, stabilizzava l'imbarcazione sostituendo in certo modo la chiglia, ed era elevabile con un paranco.
Ma la caratteristica inconfondibile di questa barca erano le variopinte pitturazioni con cui veniva adornato lo scafo, a sfondo nero, con risultati altamente decorativi. I due lati della prua erano ornati con due tondi raffiguranti il sole,o soggetti mistico-religiosi, affiancati da figure più grandi, quasi sempre richiamanti l'iconografia dell'”angelo musicante”.
Non mancavano soggetti di altro genere, profani, inneggianti alla pace, mistici, mitologici, astrologici. Disegni con figurazioni geometriche correvano lungo i bordi superiori delle fiancate, e decoravano anche la poppa ed il timone.
TRABACCOLO
Imbarcazione da pesca e da carico diffusa per secoli in Adriatico, dal golfo di Trieste al Canale d'Otranto. Vero e proprio veliero, da non confondere con le altre barche qui descritte, a parte le varianti barchetto e pielego, ha subito nel tempo numerose modifiche, onde si possono qui fornire solo dei dati generici e sommari: lunghezza, dai quindici ai venticinque metri; larghezza, dai quattro ai sette; stazza, dalle settanta alle centoventi tonnellate; equipaggio, dagli otto ai dodici uomini. Armava due alberi con vele al terzo, ma la velatura poteva presentare numerose varianti.
Sulla prua, rientrante e panciuta, erano presenti, come in altre barche adriatiche, i caratteristici “occhi”, sculture lignee di significato non ben definito, probabilmente propiziatorio. Al di sotto, vi erano gli occhi di cubìa, o di prora, due fori per il passaggio delle catene delle ancore.
Su di un piccolo bompresso mobile o “cacciafora”,assicurato a dritta dell'asta di prua con un semicollare di ferro, e sul ponte con un anello fisso, era distesa una vela di polaccone, detta “trinchetto” dai marinai pugliesi.
BILANCELLA
Bilancella è la denominazione ufficialmente assunta nel 1872 dalla Paranza, imbarcazione da pesca che subentra al bragozzo a sud di Ancona, e che ha navigato fino alla metà degli anni venti del '900, quando subì radicali modifiche per l'installazione dei motori. Lunga mediamente 10 metri, larga 3, con stazza intorno alle 8 tonnellate, con circa 6 uomini di equipaggio, armava un solo albero a vela latina, inferita in un'antenna lunghissima, di circa 18 metri.
A parte le minori dimensioni, condivideva con il trabaccolo la forma panciuta della prua, i caratteristici “occhi” di legno, un piccolo bompresso mobile su cui si stendeva il “trinchetto”, e l'enorme timone, lungo intorno ai 3 metri. Quest'ultimo, quando l'imbarcazione era tirata a secco, veniva sollevato con un piccolo paranco, e abbattuto in coperta. Il timone era incardinato a poppa con un sistema reciproco e solidissimo di aguglie e femminelle.
Le vele delle bilancelle, come quelle dei bragozzi e, in minor misura, dei trabaccoli, erano dipinte a colori vivaci, che il salino sfumava col tempo. I disegni, che potevano essere di soggetto religioso, profano, o semplicemente geometrico, servivano spesso ad indicare il padrone dell'imbarcazione. L'iconografia velica costituisce uno dei capitoli più affascinanti della marineria tradizionale adriatica.