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Una città senza qualità è senza futuro
15 settembre 2023

Una città va vissuta non solo come il luogo in cui si è, ma anche come quello nel quale ci piacerebbe abitare. A tutti noi è capitato che passeggiando o attraversando la nostra città, di essere presi dai ricordi di come Molfetta era un tempo, ma abbiamo anche provato ad immaginare come la vorremmo in futuro. E già perché la realtà che ci circonda è cambiata. In peggio. Su questo non dovrebbero esserci molti dubbi, tranne chi su questa città ha speculato, su chi immagina un futuro di interesse, piuttosto che di amore. La politica in questi anni è stata incapace di progettare e soprattutto di avere un’idea di futuro che non fosse quello della continuità con il peggiore passato che a Molfetta ha un solo nome: l’edilizia. Con l’alibi della realizzazione del piano regolatore (ma con il pensiero rivolto al consenso elettorale e al sostegno economico) si è andati avanti per inerzia, con l’ottica degli anni Sessanta. I nostri amministratori a parole immaginano città a rete e città smart, ma in pratica costruiscono una città che ha come priorità le grandi opere pubbliche, ma non i bisogni della gente. Si sono mai chiesti i nostri amministratori quali siano i reali bisogni dei cittadini? Di una popolazione che più si riduce e più aumenta l’edilizia abitativa? Nessuno lo sa o lo vuole spiegare. Cosa si nasconde dietro questo boom edilizio da anni 50- 60 che non risponde ad una domanda di una popolazione sempre più anziana, perché i giovani emigrano al Nord e all’estero? A chi servono queste case? A chi deve riciclare del denaro sporco? A chi pensa di speculare? O a chi ha scelto per la nostra Molfetta un futuro di città dormitorio senza o con pochi servizi, soprattutto di qualità. Il cancro di Molfetta, lo abbiamo scritto più volte è l’edilizia, quella dei palazzinari senza scrupoli, quella della malavita che si fa imprenditore edile e impone le sue regole. L’economia non cammina sull’edilizia parassitaria che non crea futuro, ma produce solo lavoro temporaneo. C’è chi si illude quando parla di città vetrina, ma dai vetri sporchi, sia per l’incuria e la sporcizia, ormai marchi di fabbrica della nostra città, ma anche perché non si vuol fare vedere cosa c’è dentro. Come è lontano don Tonino, al quale si dedicano monumenti e celebrazioni, dimenticando quelli che lui ha messo al primo posto: i poveri. Che oggi non sono solo gli indigenti, ma anche la classe media e i giovani senza lavoro o con lavori precari. “Io sono povero”, ci ha detto qualche giorno fa un giovane, mettendoci addosso tanta tristezza. Eppure è laureato col massimo dei voti, è dotato di grande intelligenza, ma passa da un lavoro a tempo determinato ad un altro, da operatore di call center a raider per le consegne a domicilio. Che se ne fa questo giovane delle grandi opere pubbliche? Che se ne fanno i migranti dei progetti infiniti o impossibili, che servono solo a succhiare soldi pubblici in incarichi e progetti a cui non seguono realizzazioni concrete? Che dire delle opere pubbliche come i giardini senza manutenzione che finiscono per degradarsi al fine di permettere, sulla stessa struttura, un nuovo affidamento senza gara, con un nuovo finanziamento, magari per accontentare qualche cliente. E così all’infinito. Molfetta è diventata la città dello sport, con tanti impianti, ma non è la città del lavoro, che resta precario e a rischio. E’ diventata una città brutta e puzzolente e non basta dare la colpa a cittadini zozzoni, quando non si è in grado di garantire la manutenzione per mantenere il vecchio, prima di pensare al nuovo? Si crea, si distrugge e si ricomincia. Quante volte è stato rifatto il Parco Baden Powell? Quanto è durato, prima di essere vandalizzato? La città del cemento non crea amore e senza amore non si può creare una coscienza civica. Le spiagge sono pulite solo dai volontari, ma non ci si può affidare sempre a loro, dirottando le risorse altrove, tanto ci sono questi bravi giovani che coprono le deficienze pubbliche. Non si può lasciare il lavoro sporco ai volontari, occorre programmare una manutenzione che non esiste. Stesso discorso per le strade piene di buche e fossi o dei semafori lasciati spenti per settimane, per incapacità di risolvere il problema, oppure perché impegnati in altro. L’habitat urbano non si si può esaurire nella somma dei suoi spazi; l’ambiente della città è inappropriabile dal momento che non coincide mai con la realtà abitata o percepita. Esso sfugge a ogni tentativo di contenimento poiché la città non si accontenta di essere rappresentata, ma chiede insistentemente di essere immaginata e cambiata. Un saggio di Richard Sennett, “Costruire e abitare. Etica per la città” (Feltrinelli 2020), può aiutare a comprendere le trasformazioni dell’urbano contemporaneo: «La logica dell’urbanizzazione contemporanea ignora la preminenza dell’abitare sul costruire. La pianificazione dei luoghi sminuisce e sovente calpesta le pratiche feriali e fedeli del quotidiano, quelle in cui è ancora possibile “sentirsi a casa” senza rimuovere la fatica di costruire ogni giorno, daccapo, un luogo ospitale. La socialità sobria e coerente dell’urbanesimo di prossimità non si nutre di omogeneità culturale e sociale. La vita urbana è densa prima ancora di essere densamente abitata. Occorre riconoscere nella città il luogo mentale oltreché fisico della complessità e della corposità. Il quotidiano urbano è densamente ricco di simboli e frizioni, si compone di slanci e contraccolpi, non si lascia facilmente striare come vorrebbe l’ossessione globale per i flussi e i facili raccordi. Bisogna imparare a riconoscere l’attrito urbano senza temerlo o demonizzarlo. La vita quotidiana di chi abita e non solo attraversa una città è fatta di incontri mancati o spezzati, di visite inattese e spiazzanti. È questa la materia involontaria e allo stesso tempo vitale dell’attrito urbano. Sono questi i segni di un avamposto di alterità e di una riserva di trascendenza che ancora freme nelle pieghe dei tessuti urbani. Le smart cities, supportate dalla tecnologia user friendly, realizzano paesaggi urbani in cui l’attrito è assente, dove non si pretende nulla dal cittadino o dall’utente. L’abitante della città contemporanea deve essere prima di tutto sgravato, facilitato, alleggerito. In questo modo il clamore della complessità è messo a tacere dalla comodità». Il personale politico e la cosiddetta “classe dirigente” a Molfetta è sempre la stessa da decenni, dai Minervini ai Tammacco, dai Piergiovanni agli Amato, senza dimenticare i De Nicolo. Gente buona per tutte le stagioni con la logica familistica del potere. Puntano alla rassegnazione della gente nel vedere le stesse facce (magari su poltrone diverse), nel subire gli stessi metodi politici. E se qualcuno prova a cambiare, viene subito eliminato politicamente (Paola Natalicchio docet). Se ci guardiamo attorno, vediamo nella gente solo stanchezza e rassegnazione, che poi si traducono nell’astensione dal voto. Dall’opposizione di destra e di sinistra non viene fuori un’alternativa, troppe divisioni e troppe illusioni. Manca la capacità di pensare e di elaborare, al di là delle parole. Siamo pieni di parole, siamo stanchi di parole. Va denunciata l’assenza di una visione dello sviluppo della città governata dall’ente pubblico per il bene dell’intera collettività cittadina e per il raggiungimento di un maggiore equilibrio ambientale. Una città senza qualità, è una città senza futuro. La città muore e la politica non se ne accorge o non riesce a trovare la capacità di fare sintesi insieme. Lo diceva già don Tonino, profeta dimenticato, quanto più si santifica, quanto più gli si dedicano opere esteriori, monumenti e quant’altro, per mettersi l’anima in pace. Ma le sue parole restano sempre scolpite nel libro del tempo e nelle coscienze dei giusti: «La città benestante, consapevole dei suoi mezzi ma cieca nei suoi fini, corre verso un degrado di felicità mai conosciuto finora; mentre la città diseredata vive in simbiosi con la disperazione più nera e langue per asfissia da futuro». © Riproduzione riservata

Autore: Felice de Sanctis
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