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Un pellegrino alla Madonna dei Martiri
15 marzo 2017

Il 9 aprile 1431 ser Mariano di Nanni, rettore della chiesa di San Pietro a Ovile, in Siena, parte dalla sua città per intraprendere il suo terzo pellegrinaggio in Terra Santa. All’alba del 16 salpa dal porto di Ravenna ed a notte inoltrata sbarca a Venezia. Il giorno dopo contatta Aluigi Vallaresi, gentiluomo veneziano, padrone delle galea grossa, nuova di zecca, sulla quale, insieme a molti altri confratelli, dovrà compiere il viaggio di andata e ritorno per Giaffa, per un prezzo di 30 ducati d’ oro. Com’è noto, per secoli Venezia organizzò un vero e proprio servizio di linea per la Terra Santa. I vettori erano, in genere, galee e più raramente navi tonde. Oltre agli italiani dalla Serenissima si imbarcavano soprattutto fedeli provenienti dalla Germania e dai paesi dell’ Europa orientale. In genere l’appalto era gestito da privati, ma la Repubblica controllava i movimenti di uomini e merci, soprattutto in periodi bellici e riscuoteva una percentuale sulle tariffe. I pellegrini sono 125, il resto marinai, per un totale di 300 uomini. Il 25 aprile, giorno di San Marco, la nave salpa: tutti cantano il “Te Deum laudamus”, e il “Veni Creator Spiritus”. Il 4 maggio si giunge a Ragusa, ma nessuno sbarca per paura di contagio; il 6 a Corfù, grande base navale veneziana; il 10 a Modone, il 13 a Candia, il 17 a Rodi, roccaforte degli Ospedalieri di San Giovanni; il 20 a Cipro. Finalmente il 24 maggio la galea si ancora nel porto di Giaffa, in Palestina. Lo scrivano della galea sbarca per primo, per andare a Rama a procurarsi salvacondotti, asini e interpreti (turcimanni). Il comandante conteggia tutte le spese per pedaggi e mance varie che assommano a 13 ducati d’oro a testa. Per i pellegrini è di vitale importanza disporre di denaro per evitare arresti e di peggio. Comincia la parte religiosamente ed emotivamente più importante del pellegrinaggio che comprendeva tappe fisse e degli Itinerari, una sorta di guide, che si potevano addirittura comprare a Venezia. Quanto alla durata, tutto dipendeva ovviamente dalla disponibilità finanziaria dei pellegrini. Noi tratteremo brevemente questo percorso, sia per ovvi motivi di spazio, sia perché non costituisce l’argomento principale di queste note che riguarda la nostra città. Il 29 maggio Mariano visita a Gerusalemme il Santo Sepolcro. Come in tutte le soste, il senese riporta le orazioni recitate e cantate: questo testo, infatti, è importante anche perché ci fornisce un repertorio, se non proprio completo, perlomeno molto ampio, delle preghiere che i pellegrini erano soliti recitare durante le “cerche” e delle consuetudini liturgiche latine in Terra Santa. Il 30 è a Betlemme, il primo Giugno sulle rive del Giordano, il 2 a Gerico, il 3 a Betamia. Il 4 giugno tornano a Gerusalemme, dove visitano di nuovo il Santo Sepolcro e i dintorni della Città Santa. Il 6 Mariano, stanchissimo, si riposa a Rama, il 7 giunge finalmente a Giaffa e si imbarca sulla galea per il ritorno. Il 5 luglio la nave attracca a Corfù, dove il Nostro, insieme ad altri 14 pellegrini, affitta una barca per andare in Puglia. Respinti da Otranto per il solito sospet-to di contagio e nel bel mezzo di una tempesta, riescono fortunosamente a prendere terra qualche miglio più a nord. Dopo aver toccato Lecce, Mesagne, Ostuni, Polignano e Mola, rimasti in 4, arrivano il 18 a Bari dove visitano la chiesa e il corpo di San Nicola. Il luogo è stracolmo di argento ed è molto sorvegliato. Ma è tempo di riportare le successive parole di Mariano: «A dì 19 fummo a Giovenazo e venimo a rinfrescarci a Morfetta. Truovamo uno senese de’ Talomey: era alberghatore, fecieci chareze assay; pe’ nostri denari decci di buoni poponi et assay. Et visitammo Sancta Maria de’ Martiri; et mentre che noy eravamo in chiesa, fu tolta la tascha con molte choselline che valeano parechi fiorini a uno de’ nostri compagni; questa chiesa è chosa di grande devotione. Et la sera fummo a Trani. Sono da Bari a qui vintiquatro miglia». Abbiamo quindi una testimonianza diretta di un pellegrino in visita alla Madonna dei Martiri, risalente al luglio del 1431. In città incontrano un Tolomei di Siena, albergatore, che è molto gentile e vende loro meloni buoni e abbondanti. Visitano poi la chiesa della Madonna, «chosa di grande devotione ». Purtroppo, mentre i pellegrini sono all’ interno, un ignoto ladruncolo ruba la borsa di uno di loro, legata probabilmente alla sella di una delle cavalcature che avevano comprato a Lecce. Il prete senese non commenta l’episodio. Quello che non era successo in Palestina, fra mille pericoli, accade invece in Italia sul sagrato di una chiesa: a dimostrazione, ma questo egli lo sa bene, dell’universalità della natura umana. Nel breve racconto Mariano non fa alcun cenno alla presenza di ospedali o di ospizi riconducibili all’ epoca delle Crociate o a Ordini Cavallereschi. Un’ulteriore conferma dell’ origine vescovile del complesso dimostrata, diversi anni fa, dagli studi del Professor Marco Ignazio de Santis. Partiti da Molfetta la sera dello stesso giorno, i pellegrini sono a Trani, quindi il giorno dopo a Barletta e Manfredonia. Il 21 giungono a San Michele Arcangelo. La strada per giungere al Santuario è ripidissima, scavata a scaloni nella roccia. Dopo Vasto il percorso di ritorno continua all’interno. All’ Aquila, i tre toscani, salutano il loro compagno che torna a Rieti. Il 31 luglio sono ad Assisi, il primo agosto a Perugia, il 4, finalmente, dopo 115 giorni, «fummo alla bella et desiderata città di Siena». Mariano vive intensamente il suo pellegrinaggio: momenti di muto e raccolto misticismo si alternano ad altri di esaltante ed incontenibili gioia e commozione. Più volte esclama piangendo che amerebbe concludere la propria vita nei luoghi della Passione di Cristo, dal momento che considera quel viaggio quasi un prologo al suo sperato ingresso in Paradiso. Quest’ardente speranza, questo obiettivo finale, insieme al desiderio di patire, almeno in piccola parte e nei medesimi luoghi, le stesse sofferenze del Salvatore, gli consentono di superare e sopportare i pericoli sia in mare, che in terra, l’inclemenza del clima, disagi, fatiche, le indescrivibili lordure degli ambienti, l’ostilità e l’indifferenza dei nativi. Non mancano, tuttavia, considerazioni che esulano dalla personale esperienza religiosa e si riferiscono a quanto accade intorno a lui. A Rama «stavvi uno consolo genovese et uno venetiano per tenere ragione a’ merchatanti che vi chapitano et agli altri cristiani et chostoro ci fanno molto peggio che non fanno e’ sarraini». Le differenze di classe non scompaiono, anzi «non vi vada chi non à modo di pagare, che guai alla pelle sua!». Appena approdato in Palestina si lancia in un’ invettiva che evidenzia le sue opinioni rispetto alla situazione dei Luoghi Santi: «O papa,o imperadore, o reali, o signori, o richi, o povari, spirituali et temporali, o città, chastella et comunitadi, che fate o che pensate et che dormite, che piuttosto volete disfare l’ uno l’ altro, tradire et ingannare con ogni miseria, lascivia o voluptà, et tanto tesoro volete perdere et lassare stare nelle mani di quei sozi, porci, chani, asasini,sarraini». A parte le violente iperboli verbali, che in larga misura sono comuni a molti pellegrini, ma non a tutti e che costituiscono una sorta di liberatoria psicologica, comprensibile reazione alle tremende difficoltà del viaggio, bisogna pur dire che l’astio di Mariano sembra essere più di natura politica che religiosa. I «sarraini» sono vituperati non in quanto musulmani, ma perché occupano i Luoghi Santi ed impediscono una visitazione più tranquilla e scevra di pericoli. Sono assenti attacchi o derisioni alla religione islamica ed, anzi, è apprezzata la grande devozione degli arabi alla figura di Maria ed al luogo della Natività, a fronte della vituperata accidia cristiana. Il che non è poco e fa pensare in tempi di dilagante e becero trumpismo.

Autore: Ignazio Pansini
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