Il 25 giugno del 1916 Carlo Verano, contadino ligure nato nel 1894 a Sarola in provincia di Imperia, è rintanato nella sua trincea, posta ai piedi del Monte Fiore. Ma quella notte, e per i tre giorni successivi, non potrà dormire: “Al giorno 25 Giugnio alle ore 2 di notte ecco che sentiamo aprire il suo fuoco da tutto il fronte ed i nostri cannoni ci rispondono. Battono retrovie trincee e tutto, non si sapeva più dove passare e dove stare i feriti andavano giù come le mosche e come tanti morti ed io solo raccomandarmi alla Madonna Santissima che mi protegga e che mi salvi da questo infernale bombardamento che da nessuna parte non si sa dove ripararci. Ecco che escono fuori dalla trincea a plotoni affiancati tutti ubriachi e la distanza da loro eravamo a 25 metri ed arrivano ai nostri reticolati che sono nuovamente respinti. Era un continuo bombardamento e strage non si sapeva più niente nessuno non comandava più e soli noi a guardare ed a resistere per salvarci. I nostri cannoni erano un fuoco continuo che assolutamente loro non potevano venire dalla grande squarciata di terra che si faceva. Giorno 28 alla mattina all’ alba sotto ancora a un bombardamento terribile vogliono venire un’ altra volta ma per i primi vengono avanti gli arditi suoi e gridano Urrà e noi pronti a loro con bombe a mano e mitraglia tutti quasi rimasero al suolo ma ecco che esce gli altri dalla trincea a gruppi come le pecore che non possono arrivare a metà trincea che vanno indietro dalla trincea ci pareva un suolo anzi mucchi di cadaveri e feriti che non si poteva iscrivere perché erano dei centinaia e centinaia ed il passaggio era quasi chiuso che sempre si racchiudevano uno sopra l’ altro che continuò due giorni e una notte. Non pare di notte ma di giorno perché il chiaro fatto dai cannoni è ividente e la terra arde come il fuoco. Poveri noi è proprio un finimondo. Ed il Capitano grida di stare attenti. Una confusione i[ni]mmaginabile. Tutti pronti come belve. Le nostre mitragliatrici cominciano il suono a cantare. Il capitano grida ragazzi pronti fatevi coraggio e piange. Il Maggiore dice povero mio Battaglione non lo vedo più e piange anche lui. Ma nella confusione nessuna sa più nulla. Ore sette e un quarto ecco gli vediamo venire su e gridando Urrà Urrà. Escono fuori con un terribile slancio ma col nostro fuoco ardente gli buttiamo quasi tutti a terra ma incomincia un’ altra sua ondata con tanta confusione nel far fuoco che niente più si sapeva era un miscuglio di tutti i soldati tutti eravamo come le belve nessuno non sapeva più nulla”. Vincenzo Rabito, contadino siciliano, classe 1896, la mattina del 28 ottobre del 1916 ha il suo battesimo di fuoco, ancora sulle balze del Monte Fiore.“Così, venne l’ordene di avanzare anche noi, e antare in quello Monte Fiore pieno di catavore. Povere descraziate, quanto ni morivino! che prima di arrivare al monte, caminanto caminanto, di quanto morte e ferite che c’erino, non avemmo dove mettere li piede e così, a mme tutta la paura che aveva mi ha passato, che antava cercando li morte magare di notte che devantaie un carnifece. Inpochi ciorne sparava e ammazava come uno brecante non io solo ma erimo tutte li ragazze del 99 che avemmo revate piancendo, perché avemmo il cuore di picole ma, con questa carnifecina che ci ha stato, deventammo tutte macellaie di carne umana. Tutte erimo ridotte senza penziero erimo tutte inrecanoscibile, erimo tutte abbandonate dal monto. Perché noi, quelle che per fortuna erimo vive, arrevammo nella sua posizione conla scuma nella bocca come cane arrabbiate. E tutte quelle che trovammo l’ abbiamo scannate come li agnelle nella festa di Pascua e come li maiala. Perché in quello momento descraziato non erimo cristiane ma erimo deventate tante macillaie, tante boia, e io stesso diceva: Ma come maie Vincenzo Rabito può essere diventato così carnifece in quella matenata del 28 ottobre? E così partiemmo, che paremmo uscite dal manicomio, perché erimo deventate tutte pazze”. Giovanni Bussi, sarto, nato nel 1898 a Cossano Belbo, in provincia di Cuneo, il 28 luglio 1917 combatte sul Carso, a Quota 144: “Signori Generalissimi, capi di Stati, fornitori disonesti, imboscati che avete gridato viva la guerra! armiamoci e partite. Che mentre questa discraziata e schiava gioventù viene mandata a trucidarsi voi ve ne state nelle grandi città. Vigliacchi! Qui io vi vorrei in questo inferno che si chiama Carso, non importa la quota, al mio fianco, per che possiate vedere e sapere l’ orrendo delitto che state compiendo sui vostri fratelli. Quando tutto ad un tratto subentra un breve e pauroso silenzio, e ti senti dire: “Fuori!”. Bisogna scattare, attraversare questa pietraie che ti sfuggono da sotto i piedi perché la mitraglia o le bombe a mano te li portano via, ma non vorrei che restate per la strada morti, come ai più succede, ma che arrivate sul punto dove dovete farla a baionettate col nemico, come lo chiamate voi, e in queste paurose e infernali lotte sentire il grido del ferito che invoca o bestemmia Dio, che invoca o maledice la madre che lo ha messo al mondo, il grido di aiuto, quell’ aiuto materiale o spirituale che nessuno di noi potrà mai dare perché la signora della falce non lo permette. Venite o signori a prendere visione di come questa gioventù, consapevole che facilmente non torna indietro ma per far fede al giuramento dato, sale a morire in queste doline infernali per colpa vostra”. Giuseppe Manetti, mezzadro toscano, nato nel 1884 a Bagno a Ripoli, in provincia di Firenze, nel giugno del 1917 è in trincea a Doberdò, a circa 10 chilometri da Gorizia. “Il posto dove siamo si chiama il vallone di Doberdò, qua si è creato un nuovo mondo trasformato tutto, dalla natura di un terreno civile in una natura artificiale bellica poveri omini tutti i vostri studi come male li ai adoprati! si trova dei paesetti che fanno piangere anche i sassi per che non ci e rimasto un muro, povere famiglie che ci abitano e si combatte per la civiltà? io non so quale siano le barbarie. Sono andato sopra ha una collina ghiamato monte cappuccio non posso ne so descrivere l’ effetto che m a fatto. più qua e più in la si trova croci di legno fatte così provvisorie e quelle segnano un morto e sopra a tante di queste tombe ci sono delle ossa di gambe di braccio di denti il teschio o rimaste insepolte, o scavate di qualche granata e a queste croci ci è scritto sconosciuto chi potrà riconoscerlo se una granata lo ha preso in pieno? povere madri quanto vi pentireste di aver dato la vita a un figlio se voi vedeste ciò che vuol dire guerra”. Questi brani di straordinario impatto emotivo, sono tratti da quattro libri di memorie, scritti da altrettanti diretti protagonisti, subito dopo l’ esperienza bellica, o negli anni successivi. Alcuni sono stati pubblicati, altri giacciono manoscritti presso pubblici archivi che conservano testimonianze della tradizione cosiddetta popolare. Naturalmente sono giunti fino a noi grazie ai tempi ed ai modi della loro compilazione; in forma di corrispondenza dal fronte sarebbero stati inesorabilmente bloccati dalla censura militare, ed i loro autori processati. Lo studio delle memorie relative alla Grande Guerra conta ormai molti decenni, ma quelle che, come queste, potremmo definire di “denuncia” e che rimandano in larghissima percentuale ad autori delle classi proletarie, soprattutto contadine, hanno una storia molto più recente e contrastata. Almeno fino ai primi anni Settanta del ‘900, la memorialistica italiana del primo conflitto mondiale ignorava scientemente le testimonianze “dal basso”, considerate grossolane dal punto di vista formale, ma soprattutto “sgradevoli” per la crudezza dei particolari, quando non inopportune per l’evidente denuncia politico-sociale in esse contenuta. Il mutare della temperie politica e la tenacia di storici indipendenti hanno consentito finalmente la valorizzazione e pubblicazione di memoriali di altissimo valore. Ma occorre vigilare, perché la retorica, il fastidio per la verità, le bambinesche delusioni per la demolizione di falsi miti, sono sempre in agguato. Aldilà dei diversi temperamenti degli autori e delle motivazione che li indussero a tramandare una memoria tanto sofferta, e per certi versi devastante, sono molti i tratti comuni a tutte queste pagine. Esse costituiscono, in realtà, una sorta di tragica Iliade novecentesca. L’eccidio seriale, ripetuto all’infinito, le nuove tecniche belliche asservite all’ annientamento, la luce del giorno ed il buio della notte confusi in una uniforme oscurità di polvere, fuoco e bagliori, un fragore indistinto di scoppi, urla, gemiti, maledizioni, vivi, morti ed agonizzanti uniti in uno spettacolo di caos indicibile e di orrenda follia. E su tutto questo una sola tragica domanda accomuna i nostri diaristi, e sicuramente anche i cosiddetti nemici: “Perché?”. La risposta a questa domanda è stata datada generazioni di storici che hanno definitivamente, seppur non concordemente, individuato le cause di ordine economico, legate agli opposti imperialismi, ed agli antagonismi industriali e commerciali. Questo a livello, diciamo così, strutturale. Ma la manovalanza, gli addetti agli imbonimenti delle piazze e della stampa, i ciarlatani delle radiose giornate, gli strilloni del grande macello? Vediamone due di casa nostra, mirabili esemplari di quella banda. Il primo, Giovanni Papini, insuperabile saltimbanco dell’ itala letteratura, pseudo ribelle, finito poi baciapile, reazionario e fascista, scriveva su “Lacerba” il primo Ottobre 1914: “Finalmente è arrivato il giorno dell’ ira dopo i lunghi crepuscoli della paura. Finalmente stanno pagando la decima dell’ anima per la ripulitura della terra. Ci voleva, alla fine, un caldo bagno di sangue nero dopo tanti umidicci e tiepidume di latte materno e di lacrime fraterne. Ci voleva una bella innaffiatura di sangue per l’arsura dell’ Agosto. Fra le tante migliaia di carogne abbracciate nella morte e non più diverse che nel colore dei panni, quanti saranno, non dico da piangere, ma da rammentare? La guerra infine giova all’ agricoltura e alla modernità. I campi di battaglia rendono, per molti anni, assai più di prima. Che bei cavoli mangeranno i francesi dove s’ ammucchiano i fanti tedeschi e che grasse patate si caveranno in Galizia quest’ altr’ anno!”. Lasciamo questi giovani un po’ discoli e confusi, costretti dalle tasche vuote a vendere la loro penna all’ editore o al giornale che meglio li paga. Eleviamoci sino all’ Empireo della Poesia, dove Gabriele, l’ Inimitabile Vate della Nuova Italia, risplende di mistica luce. Il 5 Maggio del 1915, a Quarto, nei pressi di Genova, Egli inaugura il monumento a Giuseppe Garibaldi ed ai Mille. Quale migliore occasione per declamare un impareggiabile sproloquio?: “Beati quelli che disdegnarono gli amori sterili per essere vergini a questo primo ed ultimo amore. Beati i giovani che sono affamati e assetati di gloria, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché avranno da tergere un sangue splendente, da bendare un raggiante dolore”. Questo cialtrone bestemmia il Discorso della Montagna per santificare la più grande strage della storia d’ Europa. L’ umanità, la fratellanza, la tenace difesa della dignità umana si trovano altrove, in coloro, e furono la stragrande maggioranza, che compirono senza odio e in silenzio quello che altri definivano il loro sacro dovere, soprattutto per non apparire dei vili nei confronti dei loro compagni e per non danneggiare ulteriormente le loro famiglie. Oppure in coloro che si opposero consapevolmente alla follia, pagando di persona prezzi altissimi. M.E., della provincia di Arezzo, operaio fonditore, incensurato, caporale del 129° Fanteria, fu condannato dal tribunale militare ad un anno e mezzo di reclusione. Questa la motivazione della sentenza: “La notte dal 24 al 25 dicembre scorso, fra i soldati italiani ed austriaci appostati nelle trincee fronteggiantisi sul Monte Zebio ebbe luogo, qua e là, qualche scambio di auguri e di saluti. A un certo punto gli austriaci esposero un cartellone con suvvi scritto a grandi caratteri “Buon Natale” in lingua tedesca. Il caporale M. E. rispose, nella stessa lingua, un ringraziamento e un contraccambio”.