U carrate
Dalle prime civiltà ai giorni nostri l’igiene personale e il modo di fare i bisogni corporali sono cambiati in modo sostanziale. Stiamo parlando di atti fisiologici per i quali, dal Rinascimento in poi, il riserbo diventa tale che solo a livello “volgare” nascono termini per indicarli (cacare, pisciare, etc.) mentre generalmente ci si mantiene sul vago, definendoli “atti corporali” e solo per pignoleria talvolta, qualcuno fa il distinguo tra quello “piccolo” e quello “grande”. Per iscritto, ufficialmente o dal medico, invece, si utilizzano i termini scientifici come urinare e defecare. Lo stesso dicasi per il luogo adibito allo smaltimento dei rifiuti corporei, comunemente chiamato “gabinetto” o “bagno” quasi a voler nascondere la loro funzione primaria, mentre diventano molto diffusi i termini stranieri come il francese “toilette” o l’inglese “W.C.” (water closed, ad indicare il sistema sifonato da cui poi, il termine italianizzato di “vater”). Andando indietro nel tempo, come non ricordare le pratiche e le modalità con cui ci liberavamo dei nostri “bisogni”? Fino agli anni ’50 del secolo scorso, le famiglie molfettesi meno abbienti, che poi erano la maggioranza, per la mancanza di rete fognaria espletavano i loro bisogni in un vaso di terracotta (u pràiese), il famoso càntaro o càntero (dal greco kántharos/vaso ma anche kanthós/angolo = quindi … vaso posto in un angolo della casa ), da non confondere con cantàro (che è dall’arabo quintâr) diverso per accento tonico e significato: quest’ultima, infatti, è voce usata per indicare una unità di misura: circa un quintale. Questo vaso di terracotta, con due piccole anse laterali sotto l’orlo rovesciato a formare una base d’appoggio, coperto da uno straccio o da una tavoletta, era confinato in un ripostiglio o in un angolo seminascosto, al riparo dalla vista, per garantire una parvenza di intimità e di pudore durante le funzioni corporali dei diversi membri della famiglia; l’imbarazzo di ciascuno, celato e vinto sul momento da una necessità ineluttabile, perdurava tutto il giorno con l’afrore che ristagnava nell’aria permeando di sé ogni cosa; poi ci si puliva alla men peggio con tutto ciò che la necessità e la fantasia suggeriva … in attesa che qualcuno inventasse la carta igienica. Lo svuotamento del vaso avveniva la mattina mediante un servizio pubblico. All’alba, il suono acuto di una trombetta annunciava il passaggio du carrate: era questo un carrobotte (o caratizza) costituito da una cisterna cilindrica di metallo posta su un carretto trainato da un asino o cavallo e guidato da un conducente che faceva parte della categoria dei netturbini. Le donne, avvertite dal suono della trombetta, uscivano sulla strada con il vaso tra le mani e lo sollevavano all’altezza del conducente il quale, afferratolo, lo svuotava indo carrate e lo riconsegnava alle donne. Si dice che quando in inverno cadeva la neve e i carri non passavano per diversi giorni, la gente era costretta a svuotare sulla strada i loro càntari. Per cui c’era un detto: Alla squagghiàte de lé nèieve chembàrene re strònzele (Allo scioglimento della neve compaiono le feci). Inoltre, si racconta che a Terlizzi, il conducente du carràte gridava così: “Iàmme ci av’à caché! (avanti chi deve cacare!). Al che una ragazza un giorno rispose: “Aspìette, Giacchìne, ca av’à caché màmme! (Aspetta, Gioacchino, che deve cacare mamma!). A questo vaso “comodo” spesso si fa riferimento con alcuni motti in vernacolo: Facce de pràise (faccia di càntaro); pràise vécchie (persona che mal si trascina); Mérì de re prèsere chièiene (donna che si vanta di possedere tutto); dàiesce sémbre nu pràise (dice sempre la stessa cosa); va lav’u pràise che lé méne (riferito alle donne che, non chiamate, entrano nei discorsi); tèiene u pràise è u litte (riferito a una persona poverissima); mégghie nu pràise chiàiene ca nu prengepeiénde de vegnelàiene. Ad litteram: meglio un vaso di comodo pieno (e dunque maleodorante) che un principiante di violino. È risaputo, infatti, che il violino è forse lo strumento più difficile da suonarsi e l’apprendimento della tecnica necessaria per suonarlo è gravoso, lungo e fastidioso per i terzi costretti spesso a sopportare lo stridìo straziante degli accordi prodotti dai neofiti dello studio del violino. Dove finivano questi escrementi umani? Il Comune ne faceva il commercio: venivano venduti agli ortolani per concimare i loro campi. Oggi ciò non sarebbe possibile in quanto non sono scarti zootecnici ma deiezioni civili e in quanto tali devono confluire a fognatura. Che tempi! Il fetore ti seguiva dappertutto, per le vie del paese e per i viottoli della campagna e con esso una moltitudine di batteri. Una pratica imbarazzante, maleodorante e antigienica oltre ogni dire, durata per tanti anni e che solo a parlarne se ne riprovano tutte le sgradevoli sensazioni vissute da innumerevoli generazioni. Tale rievocazione, un po’ rude e cruda, servirà forse meglio ad apprezzare il nostro caro water-closed, discreto, accogliente, insaziabile e soprattutto inodore (se ben igienizzato) e l’altrettanto caro e insostituibile bidet, igienista scrupoloso e premuroso delle nostre lunghe o brevi solitarie “sedute”.