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“Tracce” collettiva d’arte contemporanea alla galleria Arte54 Un gruppo di allievi dell’Accademia di Belle Arti di Bari
15 luglio 2023

Si è conclusa l’interessante collettiva dal titolo Tracce. Mostra d’arte contemporanea che, presso la Galleria 54 Arte Contemporanea, ha veduto un gruppo di allievi dell’Accademia di Belle Arti di Bari cimentarsi con riletture di miti, privilegiando la pittura digitale su carta da plotter e generalmente il formato 100x200 cm. A esporre le loro opere gli artisti Gaia Aloisio, Claudia Amatulli, Emanuela Maria Giulia Carbonara, Annalisa Ciliberti, Deborah Di Bari, Alessia Di Sisto, Debora Gregorio, Marco Loconsole, Gabriele Mastropasqua, Santina Moccia, Francesca Ribatti, Carla Senerchia, Denise Sulis. Curatori sono stati Rosa Anna Pucciarelli, Roberto Sibilano e Michele Giangrande. L’esposizione “è il seguito della mostra d’arte contemporanea SEGNI, allestita presso il Museo di S. Scolastica, dal 9 aprile al 18 maggio”. Carla Senerchia (Il Narciso ai tempi dei social) ha puntato sulla perennità del declinarsi del mito di Narciso, attraverso le connessioni con la mania degli autoscatti e della loro compulsiva condivisione. Il cellulare diviene specchio di un distruttivo autoinnamoramento, in cui il rischio della perdita di contatto con la realtà e dell’annegamento in un’acqua virtuale non meno mefitica è altissimo. Alessia Di Sisto (Μ?δουσα) indaga sul mito meduseo insistendo non tanto sul potere distruttivo della visione della Gorgone, quanto sulla rappresentazione di questo femminino dalla tradizione sinistra in una posa decisa: l’attitudine di colei che, avendo subito violenze e sopraffazioni, vuole riassumere il controllo della propria esistenza. Debora Gregorio (Solo) si approccia a un’altra icona dall’aura funesta, il Ciclope Polifemo, di cui l’artista enfatizza la solitudine. Si tratta di una piaga che la contemporaneità ha incancrenito, soprattutto nel periodo pandemico, che nel silenzio di vite abbandonate a sé, nel frastuono dei social e dei media, ha visto germinare fantasmi. Debora Di Bari (Emerge vel mergi) rappresenta il mito di Persefone, ritratta in una posa che – se evoca botticelliane Veneri sorgenti – è, per contrasto, connotata dal capo chino. Giganteggia sul fondo una melagrana, simbolo della condanna alla relegazione perpetua nell’Ade per effetto di un ratto e di nozze non volute che all’artista hanno fatto rammentare la piaga delle spose bambine. Claudia Amatulli (Edward Jenner come Prometeo) medita sull’empito prometeico della scienza, con richiami, partendo dal vaccino contro il vaiolo e dall’immunizzazione jenneriana, al recentissimo passato. Un momento storico in cui la pandemia ha posto sotto i riflettori l’azione fondamentale della classe medica e il ruolo dell’uomo di scienza, sebbene sia stata viva, da parte di molti, anche la sfiducia verso le proposte della comunità scientifica. Denise Sulis (Gerascofobia), forse ispirandosi, seppur parzialmente, all’Allegoria della Prudenza di Tiziano, rinnovella il mito di Ecate, nell’affiancamento di tre figure femminili che, pur quasi sfiorandosi, appaiono isolate come monadi. Si tratta delle tre età della vita di una donna (e, teoricamente, di ogni essere umano), con la giovinezza che si innalza dal suolo nel suo ergersi a mito cui sacrificare ogni cosa. Emanuela Maria Giulia Carbonara (L’Amazzone sconfigge il cancro) stabilisce una relazione tra il mondo delle Amazzoni, in particolar modo la bellissima e fiera regina Ippolita, e il difficilissimo percorso che devono affrontare le donne che si ammalano di cancro al seno. A fare da trait d’union l’etimologia di Αμαζ?νες (comunque dubbia), dalla tradizione riconnessa alla mutilazione di una mammella (μαζ?ς). Francesca Ribatti (Libertà negata) recupera una figura temutissima nella triade delle Moire, Atropo, l’inflessibile. In una contaminazione che ci ha fatto pensare anche alla fiaba e all’immaginario raperonzolesco, Atropo non recide il filo di una vita ma una propria ciocca di capelli, emblema, in ricordo dell’iraniana Mahsa Amini, della libertà negata a donne costrette a indossare il velo. Gabriele Mastropasqua (Ecopelle) rievoca con ironia il mito dell’argonauta Giasone, rappresentato seduto in posa statuaria, mentre sfoggia il famoso vello in una variante in ecopelle, probabilmente convinto (ma Giasone non si sarebbe posto un problema del genere, vista la disinvoltura sotto il profilo etico manifestata anche verso Medea) di aver contribuito in questo modo alla salvaguardia dell’ambiente. Gaia Cosima Aloisio (La cieca ricchezza) effigia Pluto, che – cieco come lo rappresentò anche Aristofane – effettua un’iniqua distribuzione delle ricchezze tra gli umani. Nell’icona del dio, Aloisio sembra ammiccare all’immaginario fumettistico, in particolare, a nostro avviso, a Goscinny e Uderzo. Marco Loconsole (Attese) offre del mito orfico una rappresentazione ricca di suggestioni, con dominante bicroma di rosso-toni azzurrati. È un Orfeo sconfitto, che da cantore dell’amore coniugale si è reso vessillifero degli amori efebici, quello che attende lo strazio delle Menadi. Euridice ha lineamenti rossettiani e assume, nel regno dei morti, una posa analoga a quella della sposo. Risalta, quasi in primo piano, l’elemento macabro del teschio e dell’occhio penzolante, ma anche della serpe mortifera che si avvolge al braccio di Euridice. Quella che Loconsole recupera appare una visione dell’Ade spenta e scorante, che un po’ richiama la rappresentazione odissiaca. Santina Moccia, in Survivor, luminosa scultura in pietra di Carovigno, mostra l’impatto delle sciagure e degli ostacoli posti dalla natura alla sopravvivenza dell’uomo. In questo contrasto tra durezza e ‘malleabilità’ l’osservatore resta in attesa del secondo tempo, quello della resistenza e della risalita. Annalisa Ciliberti, in Gianna, elabora un’installazione a “tecnica mista su materiali di recupero”. Si tratta di una surreale incursione nell’anima umana, nelle “esplosioni di passione” come nei nascondimenti. Non è un caso che l’interiorità femminile sia racchiusa all’interno di una struttura ad ante e che l’elemento della valigia alluda a un ulteriore processo di scoperta di ciò ch’è celato. Gli allievi dell’Accademia di Belle Arti di Bari hanno offerto una bella occasione per cogliere le Tracce che il mito (ma anche, in relazione alla malattia, le metafore invalse nella nostra società) ha fatto sedimentare in queste giovani personalità di artisti. È un elemento a nostro avviso da valorizzare ancor più nell’era in cui i tanti cantori dell’ipertecnologia si illudono non di rado di far apparire obsoleto quanto sarà sempre capace di sfidare i secoli per dialogare con l’anima di chi saprà guardare o porsi in ascolto. © Riproduzione riservata

Autore: Gianni Antonio Palumbo
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