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Tornano in piazza mercoledì gli studenti di Molfetta. Student* In Festa: riprendiamoci il futuro
11 dicembre 2011

MOLFETTA – Il Collettivo “Studenti molfettesi in lotta”, scende in piazza contro la riforma della scuola: i giovani vogliono riprendersi il loro futuro.

Ecco il comunicato del Collettivo:
«Invitiamo tutti, studenti e studentesse e non, a partecipare in massa a "Studenti* In Festa" al presidio informativo organizzato a Corso Umberto, altezza Liceo Classico, per mercoledì pomeriggio, a partire dalle 18 sino alle 21:30. Sarà una festa di musica, arte e controinformazione!
Da Luigi Berlinguer a Letizia Moratti, da Giuseppe Fioroni a MariaStella "MaryStar" Gelmini fino a Francesco Profumo, la scuola e l'istruzione pubblica italiana, dall'essere fiore all'occhiello del "bel paese", garanzia di qualità assoluta, sono passate ad essere considerate capitoli di spesa da tagliare, tagliare, tagliare e ancora tagliare.
In soli vent'anni i governi, politici o "tecnici" che fossero, di qualsiasi colore e ministri dell'istruzione loro rappresentanti che, anziché programmare un programma di crescita culturale e di innovazione professionale per gli studenti, hanno preferito sottrarre ingenti fondi (nell'ordine della decina di miliardi di euro) a ricerca universitaria, progetti extracurriculari e discipline pratiche, tagliare drasticamente stipendi e posti di lavoro per docenti e personale Ata (nell'ordine questi del centinaio di migliaia di lavoratori licenziati dallo Stato).
Hanno preferito finanziare guerre inutili, investire in grandi opere poco funzionali, strapagare i manager aziendali e far crescere i loro privilegi.
Hanno preferito salvare le banche e gettare nel cestino i sogni di noi giovani e le conquiste sociali di intere generazioni passate.
Di scuole e università pubbliche non è rimasto che un cumulo di macerie gestite in maniera para-aziendale, non più capaci di produrre le "canne pensanti" di pascaliana memoria, ma ragazzi e ragazze, cittadini e cittadine del futuro, standardizzati e omologati culturalmente verso il basso.
Noi non ci stiamo! Vogliamo gridare al mondo intero, e alla nostra città in particolare, che siamo stanchi di assistere impotenti alla distruzione del nostro futuro e del futuro stesso dell'Italia, oggigiorno sull'orlo di una crisi irreversibile e governata da tecnocrati volti a fare gli interessi delle banche e della grande finanza, e a trascinare nel baratro pensionati, lavoratori precari e non e noi studenti.
Vogliamo dimostrare di essere parte attiva e vitale della società, che nulla ci è precluso, che alla vita presente da incubo sappiamo ancora rispondere con i nostri sogni, la nostra voglia di fare e di non arrenderci!
Crediamo nella cultura, nella scuola pubblica, laica e solidale, non nella ricapitalizzazione delle banche con denaro pubblico!
Il futuro é nostro, riprendiamocelo!».
 
 
 
 
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Verso la fine degli anni '50, in pieno boom economico, spuntò improvvisamente in Italia la tesi della “mancanza di personale qualificato”. Elaborata da una equipe di esperti prestigiosi, sostenuta da gruppi economici e politici dominanti, pubblicazioni, convegni e dibattiti, questa tesi ebbe successo e campo per quasi un decennio. Previsioni poi risultate errate è apparso chiaro negli ultimi trent'anni, e divise in tre fasi. La prima che va dal 1945 al 1950 caratterizzata dalla ricostruzione; la seconda dal 1951 al 1963 caratterizzata dal rapido sviluppo economico mai conosciuto dal nostro Paese; la terza dal 1964 al 1973 caratterizzata da due gravi crisi. – Al termine della seconda guerra mondiale, si riproduceva quel fenomeno di accentuazione della forbice domanda-offerta di forza lavoro qualificata che si era avuto dopo la prima. Da un alto la guerra aveva lasciato l'economia nazionale in una situazione disastrosa, con un apparato produttivo piuttosto provato e con un tasso di disoccupazione che, nonostante il blocco dei licenziamenti, raggiungeva punte elevatissime. Dall'altro le scuole secondarie e le università, dopo la forte espansione registrata nel decennio della depressione economica, si erano ulteriormente gonfiate negli anni della guerra, analogamente a quanto era avvenuto nel 1915-18. L'Italia era passata dal terzo al primo posto in Europa, per il numero di studenti universitari. Al termine della guerra dunque, le scuole secondarie e le università italiane gettavano sul mercato decine di migliaia di diplomati e laureati. In questa situazione la disoccupazione intellettuale, riassorbita soltanto negli anni di guerra, riesplodeva con più forza che mai. La gravità della situazione veniva denunciata già nel 1945 da Adolfo Omodeo, Ministro della Pubblica Istruzione nel governo Badoglio, il quale osservava che solo nei due atenei di Roma e napoli vi erano più iscritti in tutta l'Inghilterra. “La piaga sociale – scriveva –è preoccupante. La guerra ha moltiplicato iperbolicamente la massa degli “spostati” che si orientano alle professioni liberali”. In un altro articolo prevedeva che “ la crisi di sovrapproduzione di laureati che era già manifesta nel ventennio del fascismo si inasprirà per la rovina economica dell'Italia”. La rivista teorica del PCI, “Rinascita” scriveva che “la scuola assorbe elementi “poveri” strappandoli al loro abituale ambiente di lavoro – il campo, la bottega, la piccola produzione, qualche volta la fabbrica – non per farli rientrare con più alta qualifica o capacità direttiva, ma per trasformarli in elementi improduttivi che cercano il “posto”, il grado sociale più elevato – eventualmente, per disperazione o ambizione, anche nelle milizie nere degli avventurieri e dei predoni”. L'Italia – diceva Concetto Marchesi il dirigente comunista più autorevole in quegli anni nel campo della politica scolastica – ha un bubbone che è necessario estirpare al più presto: il bubbone dottorale”. E anche con toni meno drammatici, deputati e senatori socialisti e comunisti continuarono per tutto il periodo della ricostruzione a mettere sotto accusa il governo per la sua incapacità di far fronte a una situazione in cui – come disse il comunista Silipo – venivano continuamente immersi nella società italiana “falsi ragionieri, falsi medici, falsi avvocati, falsi ingegneri, falsi professori, un numero, cioè, stragrande di spostati, declassati”. Buona Notte.
Era il 1930. - Il Congresso nazionale degli avvocati approvò il Ministro delle Corporazioni on. Lentini che aveva sostenuto la necessità di “far sì che sia inteso dalla nostra buona gente come il compiere un mestiere non diminuisce affatto il cittadino, anzi lo innalza di fronte al vagabondaggio intellettualoide di parecchi che non concludono nulla per sé, né producono nulla di utilità per la Patria”. “Elevarsi alla vita – osservava la rivista “Rassegna del sindacalismo forense” – non significa infatti diventare avvocato piuttosto che artigiano. Elevarsi significa bensì diventare un Luca della Robbia o uno Stradivari fra gli artigiani o un Irnerio fra gli avvocati”. Ma per convincere la “nostra buona gente” del nuovo significato che doveva attribuire all'espressione “elevarsi alla vita” non bastava certo la propaganda. Era necessario rivedere profondamente il funzionamento delle scuole secondarie: “Si è osservato giustamente che in Italia sussiste una grande sproporzione fra il numero dei ginnasi e dei licei, che preparano i giovani alle professioni intellettuali, e quello delle scuole di avviamento che dovrebbero formare gli artigiani, nonché i tecnici specializzati dell'agricoltura, dell'edilizia, dell'industria ecc. ecc.. E ciò, mentre il nostro paese è saturo di medici, avvocati e ragionieri, laddove sentiamo invece la grande mancanza di artigiani, di tecnici e di operai specializzati, i quali saranno necessari specialmente ora che per la colonizzazione dell'Impero avremo bisogno di specialisti in tecnica agraria, forestale, idraulica, edile, mineraria, stradale, e via dicendo. Anche a questa disarmonia bisognerebbe dunque ovviare chiudendo dei ginnasi e licei e aprendo delle scuole professionali”. Premuto dalle organizzazioni degli intellettuali, preoccupato delle conseguenze che la disoccupazione dei diplomati e dei laureati poteva avere in termini di perdita di consenso fra questi importanti stati sociali, il gruppo dirigente fascista prese alcuni provvedimenti per far fronte alla situazione. Nell'impossibilità di rimettere in discussione i capisaldi del regime (l'ordinamento corporativo, i rapporti con gli industriali), esso cercò di produrre per altra via un aumento della domanda di forza lavoro intellettuale. Ridusse così di cinque anni l'età massima di mantenimento in servizio per alcune categorie di funzionari, introdusse – a partire dal 1932 – la settimana di 40 ore negli uffici, vietò il cumulo della pensione con un impiego pubblico, espulse una parte delle donne dagli impieghi pubblici. Ma soprattutto il gruppo dirigente fascista cercò di far fronte alla situazione espandendo rapidamente l'apparato burocratico. Se nel periodo di vita del regime il numero dei dipendenti era rimasto costante o aveva addirittura subito un lieve decremento, a partire dal 1930 esso riprese rapidamente a salire con un ritmo molto sostenuto tanto da raddoppiare nel giro di dieci anni”. Ne paghiamo ancora oggi le conseguenze “culturali”.
1923 – Con la riforma del filosofo Gentile, la scuola cerca di adeguarsi alla nuova situazione politica, ma nella pratica si rivela reazionaria e selettiva, e il regime fascista ne approfitta per asservirla alla dittatura. Dall'inizio del secolo almeno, i politici, gli addetti ai lavori della pedagogia, gli uomini di cultura dibattevano il problema di riformare l'ordinamento scolastico italiano che, al di là di qualche limitato riammodernamento, risaliva alla legge Casati del 1859. Per questo motivo, quando, il 6 maggio 1923, il Parlamento, non ancora monopolizzato dal fascismo, approvò la riforma Gentile, Mussolini e il suo governo sbandierarono la capacità di affrontare e risolvere sollecitamente questioni rimaste a bagnomaria per decenni. In effetti, erano passati solo sette mesi dalla marcia su Roma e dalla presa di potere. Quella riforma girava di novanta gradi il timone della scuola italiana, e Mussolini la definì un ”atto rivoluzionario”. Meno di dieci anni dopo, però, si dovette rimangiare quell'entusiasmo. Non si può capire la natura della riforma, se non ci si richiama alla filosofia idealista di Giovanni Gentile e la sua militanza intellettuale nella politica, che egli considerava come una “pedagogia su vasta scala”. Rifiutando l'individualismo di stampo liberale, Gentile interpretava la libertà come un attuarsi di ciascun individuo nella legge, nello Stato. L'uomo di Gentile doveva lasciarsi alle spalle l'individualità, per aprirsi alla vita collettiva, sociale, storica, identificandosi nella Stato che è “l'uomo stesso”, il frutto della volontà, della spinta morale di ciascuno nel proprio senso sociale, nel sentimento di nazione, nel realizzarsi non negli interessi particolari ma nell'interesse generale: uno Stato etico, in un certo senso, uno Stato visto come una sorta di religione, non più lo “Stato agnostico del vecchio liberalismo”. In politica, ancora prima di “scoprire” il fascismo, Gentile aveva chiaramente proclamato per l'Italia “la necessità urgente di conquistarsi ad ogni costo un posto nel mondo”: posto che non avevamo per secolare mancanza di unità morale, di fede. Poco più tardi, aveva aderito al fascismo perché lo considerava “una forza spirituale, un atteggiamento morale” capace di “rifare la tempra”, la coscienza, il carattere della popolazione italiana. Non a caso , il suo varo fu salutato dal consenso del liberali, con a capo Benedetto Croce, dai cattolici e dagli intellettuali idealisti. Alla scuola, Ernesto Codignola si augurava ricacciasse “ la “clientela plebea alla zappa e alle opere servili per cui era nata”. Anche democratici di sicura fede, come Gaetano Salvemini, avevano invocato una più rigorosa selettività. Il fascismo, poi, intendeva riequilibrare il mercato del lavoro, pesantemente minacciato dalla disoccupazione intellettuale. Anche la riforma Gentile viene a poco a poco piegata alle esigenze del fascismo: la religione diventa obbligatoria, si studia “Storia e cultura fascista”. – Al di là del giudizio che si può esprimere sulla sua adesione al fascismo, Giovanni Gentile resta un grande protagonista della cultura e del pensiero filosofico del secolo, e non solo nell'ambito italiano. Nasce a Castelvetrano, in Sicilia, nel 1875. Si laurea alla Normale di Pisa. Nei primi vent'anni del Novecento è, insieme a Benedetto Croce, il portabandiera dell'idealismo e di quella strenua battaglia contro il positivismo che influenzò radicalmente la cultura italiana e che Gentile riversò nella sua riforma scolastica, quando Mussolini lo chiamò a partecipare al suo primo governo come ministro dell' Istruzione. Il regime ben presto lo accantonò ed egli stesso, preferì alla politica attiva l'impegno di promotore culturale. A lui, infatti, si deve l'Enciclopedia Treccani. Alla fine del 1943, nello sfacelo del risorto fascismo, accettò di presiedere l'Accademia d'Italia. Venne ucciso a Firenze, nel 1944, con sette colpi di pistola da un gruppo di partigiani comunisti.

Era l'anno 1890. L'esistenza di un surplus di forza lavoro intellettuale e la previsione che nel futuro lo squilibrio fra scuola e mercato del lavoro qualificato si sarebbe aggravato preoccuparono fortemente la classe dirigente italiana. In primo luogo perché le difficoltà di occupazione portavano diplomati e laureati ad esercitare una costante pressione per essere in qualche modo assorbiti dallo Stato. “Noi vediamo le amministrazioni pubbliche e le professioni liberali – diceva alla Camera l'on. Lucchini – prese d'assalto e infestate da una turba, lasciatemeli chiamare così, di parassiti morali, nei quali nonb sisa se sia più la deficienza e l'incapacità, oppure l'intrigo per arrivare alla mèta”. Ma il timore più grande della classe dirigente italiana era che le difficoltà di occupazione producessero una radicalizzazione politica dei ceti intellettuali, che dalle scuole secondarie e superiori, invece dei funzionari fedeli di cui essa aveva bisogno per rafforzare la propria egemonia, uscissero dei pericolosi sovversivi. Fu questo un motivo ricorrente in molti scritti e discorsi dei più autorevoli esponenti della classe dirigente italiana. “Le posizioni più meschine e più miseramente retribuite – diceva nel 1894 alla camera il Ministro della Pubblica Istruzione Baccelli – vengono disputate con uno straordinario accanimento da un numero ingente di laureati. L'esercizio delle professioni diviene oltremodo difficile, per una concorrenza spietata, per una lotta animosa per l'esistenza, esiziali al decoro dell'intera classe di professionisti. Si genera una numerosa schiera di “spostati” e di malcontenti, che costituiscono un ambiente pericoloso e facile all'attecchimento di germi malsani, ambiente tanto più temibile, quanto più elevato nella sua cultura e baldo per la sua giovinezza” Cinque anni dopo, in una relazione che ebbe una vastissima eco., l'on. Fusinato denunciava la situazione in questi termini: “Tutta questa annua sovra-produzione, addossandosi a tutta quella degli anni precedenti, ha creato un vero esercito di spostati, che fanno ressa alle carriere per le quali non si richiede il titolo universitario, o rimangono disoccupati. Sono i delusi dell'Università; sono coloro che, “nutriti di greco e latino muoiono di fame”; sono tutti quelli che vanno costituendo quella nuova forma di “proletario intellettuale”, ancora più infelice e minacciosa del proletariato economico, e nel quale i partiti estremi reclutano molti fra i loro elementi più attivi, più sagaci e malfidi”. Non vi è dunque da meravigliarsi che già in questo periodo la classe dirigente italiana cercasse di correre ai ripari. Partendo dalla convinzione che una delle cause più importanti “del soverchio numero degli studenti universitari e dei professionisti nel nostro paese sta nella troppo facile accessibilità dell'istruzione superiore”, perché le contribuzioni universitarie non giungono in Italia al di là del terzo o al più della metà di quelle delle altre nazioni”, il Ministero della Pubblica Istruzione Baccelli presentava il 6 dicembre 1894 un disegno di legge per l'aumento delle tasse. Disegno di legge mai approvato, nonostante ripresentato nell'arco degli anni dall'on. Gianturco e dall' on. Gallo. Questi disegni di legge prevedevano un inasprimento veramente molto forte delle tasse. Per alcune facoltà si proponevano aumenti del 50%, per altre si arrivava addirittura a quintuplicarle. Inasprire le tasse – diceva alla Camera Vincenzo Riccio – significava una cosa sola: aumentare “i sacrifizi alle povere famiglie , quelle dei “piccoli proprietari” e della “piccola borghesia”. Vi era tuttavia un motivo forse ancora più importante di opposizione: la sfiducia che molti nutrivano sull'efficacia di provvedimenti siffatti per rallentare lo sviluppo dell'istruzione superiore. Erano in parecchi a pensare che – come diceva Chimienti – “gli spostati li fabbrichiamo nelle scuole secondarie, non nelle università”. “Ma come? – chiedeva polemicamente Vincenzo Riccio – voi aumentate le tasse universitarie e non fate provvedimenti correlativi in tutti i nostri ordinamenti scolastici e non fate riforme? Se credete che l'aumento di tasse impedirà l'entrata degli studenti all'Università, voi avrete certamente un numero maggiore di studenti con la sola licenza liceale, che costituiranno un pericolo maggiore perché costituiranno un maggior numero di spostati”. ??????????????????????????????
Un'eloquente testimonianza non solo dell'importanza attribuita dai suoi estensori alla scuola come agente di socializzazione politica (la cui funzione di formazione ideologica viene addirittura ritenuta più rilevante della trasmissione della “conoscenza delle lettere dell'alfabeto) è forse la “Premessa ai programmi delle scuole elementari del 1888. – PREMESSA AI PROGRAMMI DELLA SCUOLA ELEMENTARE DEL 1888. – Il potere educativo della scuola è proporzionato alle disposizioni d'animo e al contegno dei maestri. Egli (il maestro) farà ottimamente scegliendo un libro di lettura, in cui non manchino i racconti morali, commentando e facendoli ripetere agli alunni. Ma quest'esercizio non produrrà molti effetti, s'egli non avrà dentro di sé i sentimenti che vuole ispirare agli altri. se loderà la bontà e si mostrerà maligno, se raccomanderà la mansuetudine e sarà stizzoso, o la gentilezza diportandosi sgarbatamente, e la puntualità mancando o giungendo tardi a scuola, è certissimo che nessun effetto produrranno i suoi discorsi, per le ragioni appunto del metodo obiettivo perché i fatti penetrano nella memoria molto più a fondo delle parole.Non trattasi tanto di conoscere i doveri, quanto di assuefarsi ad adempierli. Quali siano i doveri, si impara da tutta la vita che ci attornia; quello che la vita non ci dà è la forza di soddisfarli. Ora è appunto questa forza che bisogna far acquistare al fanciullo, esigendo senza mollezze e senza transazioni l'adempimento esatto dei doveri relativi alla sua età e alla sua condizione. Quando egli abbia acquistato questa preziosa abitudine nella cerchia ristretta dei doveri della sua età e della sua condizione, la porterà molto probabilmente con sé nelle età e nelle condizioni successive, estendendola quasi senza avvedersene ai doveri più importanti propri di queste. Non gioverà quindi insegnarli, suppongasi, che non dovrà mancare all'appello in caserma,, se non lo si avvezza per intanto a non mancare alla scuola, né parlargli del rispetto dovuto al Re, se innanzitutto non saluta il maestro. Importa moltissimo che i fanciulli non si credano uomini e si avvezzino alla sottomissione e alla deferenza verso i parenti, verso i maestri, verso i maggiori di età. L'adempimento esatto dei doveri ch'essi hanno come figli, come scolari e come fanciulli, è la guarentigia meno incerta che si possa avere del rispetto con cui considereranno a suo tempo quelli di uomo, di padre e di cittadino. Tutto ciò viene a dire che la disciplina scolastica è lo strumento più poderoso che stia in mano al maestro, per formare nell'alunno l'abitudine di adempiere i suoi doveri. Sopra tutto a una disciplina tradizionale, forte e costante, che va dalla reggia al tugurio, si devono gl'invidiati miracoli di altre nazioni e antichi e recenti fatti, che poi valsero a rendere un dì gloriosa ed ora rispettata la nostra. Bisogna però che il maestro faccia attenzione a non lasciarsi illudere da certe apparenze, potendo accadere che un cert'ordine materiale, una certa tranquillità, certi segni di subordinazione e di deferenza non risponda del tutto alle disposizioni dell'animo, come spesso accadeva alla vecchia scuola. Quando questa semplicissima verità si potesse far penetrare a fondo nelle nostre popolazioni, basterebbe essa sola, tanto è feconda,a irrigare di sangue giovanile tutta la vita del paese, ad accrescere la fiducia vicendevole, lo spirito di associazione, il credito, il lavoro; e la scuola renderebbe un servigio assai più prezioso, che col propagare la conoscenza delle lettere dell'alfabeto.
Per riuscire a capire il progetto di politica scolastica della Destra e della Sinistra storica bisogna prima di tutto liberarsi dall'idea, tanto falsa quanto ancora diffusa, che la classe dirigente italiana, temendo che la diffusione dell'istruzione fosse un pericoloso elemento di sovversione, puntò a mantenere quanto più a lungo le masse nel loro stato di analfabetismo. Come è noto, negli altri paesi dell'Europa continentale, come in Danimarca e in Prussia, l'istruzione popolare era nata e si era diffusa nel secolo XVIII per iniziativa dei sovrani illuminati, che in essa avevano scorto uno strumento di straordinaria efficacia per rafforzare la propria autorità. Ma anche nell'Italia pre-unitaria della prima metà del secolo XIX, accanto al vecchio modello del controllo sociale attraverso l' ignoranza del popolo, era a poco a poco emerso quello del controllo sociale attraverso l'istruzione. Il carattere antitetico di queste due filosofie dell'educazione può essere ben illustrato dal confronto fra i due seguenti documenti, il primo tratto da un periodico dello Stato Pontificio, il secondo da una memoria diretta al Granduca di Toscana: IL CONTROLLO SOCIALE ATTRAVERSO L'IGNORANZA. - Se anche si diffondesse la cultura a minute proporzioni, avverrebbe sempre che il popolo perderebbe la primitiva i9genuità e semplicità, si allontanerebbe dalle tradizioni, non amerebbe più come prima la pressione dell'autorità; l'insegnare a leggere e a scrivere al popolo è cosa di poca utilità, e che può portare funesti effetti…… (Il brano è tratto dal periodico “Il vero amico del popolo”, n.49del 1853 citato da E. Formiggini Santamaria, “L'istruzione popolare nello Stato Pontificio (1842-1870), Bologna, Formiggini Editore, 1909, pag.115) - IL CONTROLLO SOCIALE ATTRAVERSOL'ISTRUZIONE. – Dove vi è più Istruzione nella massa, il Popolo è più costumato, e tranquillo: rispetta i Magistrati, eseguisce le Leggi, apprezzandone i vantaggi e riconoscendo la necessità del vincolo, che la società civile costituisce e conserva. Esempio di illuminata Sommessione, e di costumatezza relativa, ne sia la Scozia, i Dipartimenti Settentrionali della Francia, dove l'Istruzione primaria elementare è al maggior possibile estesa al Popolo: e se la Magnanima Maria Teresa, ed i suoi Augusti Successori sapientemente operarono, per diffondere l'istruzione elementare negli Stati Ereditari, copiosi frutti di tranquillità e di affettuosa Sudditanza ne colsero. - (Si tratta di una memoria sull'istruzione elementare diretta nel 1838 al granduca di Toscana, conservata all'Archivio Storico di Firenze e riprodotta per intero in appendice al volume di A. Angeli, “Storia delle Scuole elementari e popolari d'Italia”, Firenze, Tip. Lastrucci, 1908, p.378). – Tratto da: Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico in Italia (1859-1973), Marzio Barbagli, ed. Il Mulino.

Ripetizione - Avocado Manson|martedì 6 dic 2011 16:03:52 La politica è stata sostanzialmente inventata da Platone ed è quindi una cosa tutto sommato recente. Prima della politica c'era la tirannide. Oggi, come scrive Giacomo Marramao, “la politica appare come un sovrano spodestato che si aggira tra le antiche mappe dello Stato e della società, rese inservibili perché più non rimandano alla legittimazione della sovranità”. Utile per le rappresentazioni, per la raccolta e l'organizzazione delle identità, delle appartenenze, delle passioni, oggi la politica non sembra essere più il luogo della “DECISIONE”, perché, per decidere, deve guardare all'economia, e l'economia, a sua volta, per decidere i suoi investimenti guarda alle disponibilità e alle risorse tecnologiche. Quando si sostiene che potremo difenderci dall'invasione dei prodotti cinesi solo migliorando la nostra tecnologia, e dunque investendo nella ricerca, è come se si riconoscesse il primato della tecnica sull'economia, a sua volta fondato sul primato dell'economia sulla politica. In questo senso, la politica diventa la “rappresentazione” della decisione, non più il “luogo” della decisione. Tutto ciò che non è esente da rischi perché, come ci ricorda Platone, le tecniche sanno come si devono fare le cose ma non sanno se quelle devono essere fatte e perché devono essere fatte. Di qui la necessità, sempre secondo Platone, di quella “tecnica regia”, che è la politica capace di assegnare alle tecniche le finalità delle loro procedure. Oggi il rapporto tra tecnica e politica, che per Platone doveva sovraintendere le tecniche, si è completamente capovolto. La tecnica conferisce potere a tutti coloro che operano in un apparato. Per cui, ad esempio, bastano dieci controllori di volo per fermare tutto il complesso della navigazione aerea, quando un tempo, uno sciopero tradizionale, per avere successo, doveva coinvolgere l'ottanta per cento dei lavoratori di un certo settore. Siamo quindi di fronte a un potere nuovo. A questo punto, invocare politici decisionisti nell'età della tecnica è quanto di meno efficace possa esistere, perché se basta una piccola astensione per bloccare tutto l'apparato, il lavoro del politico dovrà essere di “mediazione”, più che di “decisione”. La decisione non è compatibile con la funzionalità della tecnica. Inoltre la tecnica potrebbe determinare la “fine della democrazia” (il condizionale è motivato dal fatto che siamo tutti affezionati alla democrazia, ma in realtà si potrebbe anche dire che essa è già venuta meno). La tecnica ci mette di fronte a problemi sui quali siamo chiamati a pronunciarci senza alcuna competenza. Basti pensare, a titolo esemplificativo, al referendum sulla fecondazione assistita, o al dibattito sulle centrali nucleari, o a quello sugli organismi geneticamente modificati. In tutti questi casi si possono giudicare con competenza i termini dei problemi solo se si è rispettivamente un biologo, un fisico nucleare o un genetista. Le persone prive di queste specifiche qualifiche prenderanno posizione su basi “irrazionali”, quali sono l'appartenenza a un partito, la fascinazione per chi è maggiormente persuasivo in televisione, la simpatia per un politico. Platone avrebbe definito questo sistema, che oggi potremmo chiamare “telecrazia”, in termini di “retorica” o “sofistica”. Che cos'era la retorica all'epoca di Platone? Dei trentacinque dialoghi che il filosofo ateniese ci ha lasciato, una decina sono indirizzati contro i retori e i sofisti, cioè contro coloro che ottengono il consenso non con argomenti razionali, non insegnando come vanno le cose, non distribuendo competenza, non argomentando le loro tesi, ma sulla base della mozione degli effetti, della sofisticazione dei paralogismi, dell'appello all'autorità, della persuasione emotiva. Secondo Platone costoro devono essere espulsi dalla città perché non può nascere un sistema democratico finchè ci sono tali mistificatori del linguaggio e del consenso. La “telecrazia” rischia di cancellare la democrazia, riproponendo il problema sollevato da Platone a proposito della “retorica” e della democrazia. Noi oggi ci troviamo nella stessa situazione, perché la tecnica mette sul tavolo problemi che richiedono una competenza di gran lunga maggiore rispetto a quella di cui disponiamo. (Tratto da: I miti del nostro tempo – Umberto Galimberti)

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