Riportiamo un'intervista al deputato dei Verdi Mauro Bulgarelli da poco tornato in Italia dopo un periodo di alcuni giorni in Palestina in compagnia di un gruppo di pacifisti. Abbiamo deciso di contattarlo per farci descrivere il suo incontro con Arafat e Mauro ha risposto a ruota libera alle nostre domande. Ci scusiamo per la lunghezza, ma essendo stato un testimone in prima linea, abbiamo deciso di non apportare dei tagli al testo.
L'intervista è stata diffusa dalle “Voci dell'Italietta” - a cui anche “Quindici” aderisce – che ci ha proposto di diffonderla. Ve la proponiamo come testimonianza diretta di quello che sta accadendo in Palestina.
Non è la prima volta che ti rechi nei territori occupati. Che atmosfera si vive in questi giorni, cosa è cambiato rispetto alla volta precedente?
“Fin dal mio primo viaggio in Palestina ho avuto conferma di un'idea che ho sempre avuto del conflitto e cioè che esso rimanga una guerra di occupazione coloniale vera e propria, che differisca quindi anche dalle guerre asimmetriche di oggi, che sia caratterizzata da una sua terribile coerenza. Nel penultimo viaggio trovammo una situazione già drammatica. Basti dire che la residenza di Arafat, a Ramallah, era già allora circondata da un cordone di carri armati, autoblindo e militari israeliani situato a circa 70 metri dall'edificio. Questo inasprimento delle misure militari si rifletteva anche nell'organizzazione dei vari check point, moltiplicatisi, dove si respirava un'aria a dir poco pesante. Nonostante tutto ciò a Ramallah, anche se il clima era già teso, ricordo che c'era gente ovunque, soprattutto giovanissimi: come da tradizione la vita nelle città medio orientali si svolge soprattutto tra le strade. La scorsa settimana dopo aver superato numerose barriere posteci dalle autorità israeliane, guidato da una pacifista israeliana attraverso un improbabile sentiero tra i monti, sono invece giunto in una Ramallah irriconoscibile, nessuna traccia delle voci della gente, dei bambini, solo l'assordante silenzio di morte rotto di tanto in tanto dagli spari; ci siamo aggirati in questo paesaggio spettrale, quasi increduli perché questo vuoto creato del non senso delle politiche di morte può apparire in un primo momento surreale, un brutto sogno”.
Immagino tu sia stato un po' disorientato, come ti sei mosso in questo 'non senso'?
“Per quanto ci si prepari psicologicamente la realtà spesso supera l'immaginazione, tuttavia è proprio nelle situazioni estreme che emergono risorse latenti, inoltre, le cose da fare a volte si impongono da sole, sono molto concrete, così a Ramallah abbiamo deciso innanzitutto di andare verso l'ospedale per donare il sangue. Camminavamo nel silenzio innaturale quando delle sparatorie vicine a noi ci hanno riportato rapidamente alla realtà. Per fortuna un ragazzo palestinese è corso fuori da una palazzina apparentemente deserta 'entrate qui' ci ha detto, così siamo rimasti chiusi alcune ore a casa del giovane, poi appena è stato possibile siamo andati all'ospedale. La situazione è a dir poco disperata, niente farmaci, niente luce, niente acqua… abbondano solo i morti ed i feriti. 'Sparano anche contro le ambulanze' ci hanno raccontato. Dopo aver lasciato quell'inferno abbiamo raggiunto José Bovè e assieme abbiamo deciso di andare verso la residenza di Arafat. Eravamo circa trentacinque, tra noi due medici. Ci siamo spostati in corteo, mani alzate, bandiere bianche con due ambulanze che chiudevano la pacifica formazione. Portavamo farmaci, acqua, pane, cellulari e sigarette. Avanzavamo tra i soldati, alcuni sembravano solidarizzare con noi, ho visto un soldato fare 'ok' con il pollice, anche loro forse vivono con disagio questa situazione, vittime anch'essi della follia della politica internazionale. A pochi metri dalla residenza di Arafat però circa 150 soldati ci hanno rincorso, accerchiati e puntato i fucili contro lo stomaco”.
Però alla fine siete riusciti a rompere l'assedio.
“Sì. fortunatamente nessuno ha perso la calma e dopo un'interminabile trattativa hanno fatto passare quattro di noi”.
Quando hai incontrato Arafat cosa vi siete detti?
“Non appena mi ha visto nella penombra del suo isolamento mi ha abbracciato. 'Cosa possiamo fare per te?'- gli ho chiesto. Lui ha riso - 'tu non ti rendi conto di quanto avete già fatto. Finora non ho visto un ministro, un capo di stato, un diplomatico. Nessuno. Voi per primi siete riusciti a forzare questo assedio a cui sono sottoposto. Vi chiedo solo, quando tornerete a casa, di raccontare ciò che avete visto con i vostri occhi. Di raccontare la verità.'
In quest'epoca dominata dalla disinformazione credo serva soprattutto questo. Con la scusa del terrorismo si fa di tutto, non solo in Israele e in Afganistan, ma anche nel Turkmenistan orientale, in Cecenia, in Somalia, nelle Filippine ecc… e a pagare è sempre la popolazione civile, mentre i signori della violenza, regnano sulle macerie. In preparazione del business della ricostruzione”.
Qual è l'idea generale che ti sei fatto?
“Visitando i territori è impossibile non rendersi conto che ci sia un piano che muove l'occupazione israeliana teso ad instaurare definitivamente un vero e proprio apartheid, da realizzarsi attraverso il confino dei palestinesi in alcune aree dalle quali è impedito loro di uscire e agli altri di entrare. A Betlemme, che ha la struttura di una qualsiasi cittadina turistica come mille altre, piena di alberghi, si percepisce chiaramente che l'obiettivo dei militari, come accaduto durante l'occupazione dell'agosto scorso, sia quello di distruggere l'economia locale, nelle mani dei palestinesi, attraverso la distruzione degli alberghi e delle altre strutture turistiche preposte ad accogliere le migliaia di pellegrini che vi si recano ogni anno. Oggi che quelle strutture sono state distrutte o sono inagibili, Betlemme è una città vuota. Il tentativo di distruggere l'economia palestinese comporta anche un indiretto controllo dello sviluppo demografico dei palestinesi, almeno secondo il teorema di Sharon, il quale ha affidato ad esperti israeliani un progetto di monitoraggio costante degli indici di natalità della popolazione palestinese, progetto finanziato dal ministero degli interni (il che la dice lunga su i suoi reali obiettivi…) e presentato in luglio alla knesset, il parlamento israeliano. Secondo i dati raccolti, la popolazione palestinese raddoppierebbe ogni vent'anni e nel 2020 essa sarebbe più numerosa di quella israeliana. Ciò sarebbe un risultato devastante per Israele che ha un tasso di natalità 1:1 e si capisce bene come questa preoccupazione incida sulle politiche di occupazione. Ma la cosa importante è che l'aumento demografico dei palestinesi è coinciso con il periodo in cui la loro economia era più florida (dato in controtendenza rispetto a quello presente in altri paesi poveri dove si fanno figli anche se la situazione economica è particolarmente precaria). Dunque gli israeliani colpendo l'economia dei palestinesi sperano di limitarne il tasso di natalità.
Sempre a proposito di Gerusalemme bisogna ricordare che la città fu già riperimetrata durante l'occupazione del 1967, in seguito alla quale fu espulsa una parte cospicua della popolazione araba e palestinese, interi quartieri, e furono inglobati una serie di insediamenti israeliani sorti ai margini della città. L'obiettivo era quello di porre i presupposti per poter affermare un giorno che Gerusalemme, sia sotto il profilo etnico, che sotto quello religioso, era una città ebrea e che in quanto tale andava difesa. L'idea di fondo è dunque quella del muro, con il quale isolare fisicamente i palestinesi, così che, raggiunto tale obiettivo, gli israeliani possano anche ritirarsi ma solo dopo aver accresciuto a dismisura il loro territorio.
Ora siamo di fronte ad una vera e propria accelerazione, e si ha l'impressione che Sharon stia cercando di raccogliere ora il massimo dei risultati possibili distruggendo i germi dell'autonomia Palestinese, quadri dirigenti, infrastrutture, ecc… utilizzando qualsiasi mezzo, temendo di essere costretto prima o poi a rimettersi al tavolo delle trattative”.
Il quadro che dipingi è inquietante, hai intravisto anche dei segnali positivi?
“Il fatto che Israele sia uno Stato completamente militarizzato non ha impedito che si verificasse un fatto a mio avviso straordinario e cioè, l'appello, diffuso, dei riservisti israeliani, inizialmente circa una cinquantina tra ufficiali e soldati, e ora più di 400. Tra questi, per la prima volta, uno di loro a viso scoperto ha rilasciato dichiarazioni alla stampa internazionale. Questa persona rischia la pena di morte. Probabilmente gli sarà evitata, anche grazie al movimento d'opinione che finalmente rinasce in Israele sui temi della pace, ma ciò non toglie che il codice militare preveda per questo tipo di "disobbedienza" la pena di morte. Noi abbiamo anche incontrato l'associazione più vicina a questi militari che si chiama new profile, composta esclusivamente da israeliani e avente come obiettivo programmatico la "ricivilizzazione del popolo israeliano". La loro analisi, secondo me corretta, è che oggi Israele non è una democrazia bensì una società militare e dunque vada ricostruita una dimensione da società civile indipendentemente dagli schieramenti politici di maggioranza e minoranza, anche se, occorre ricordarlo, non esiste attualmente in Israele una vera opposizione, se si fa eccezione per il partito comunista e Merentz (sinistra sionista), visto che i laburisti non hanno la forza o la volontà di contrastare effettivamente Sharon, il quale gode, nonostante tutto, di una grandissima popolarità all'interno del paese. Ebbene questi militari, mentre rivendicano con orgoglio l'appartenenza alle forze armate e dunque l'obiettivo di difendere Israele, rifiutano di compiere operazioni che hanno tutte le caratteristiche dei crimini di guerra, come lo sparare su donne e bambini, principali soggetti della nuova intifada. L'esercito israeliano nasce su questa idea di difesa del territorio e il fatto che alcuni suoi membri non identifichino più l'occupazione illegale della terra palestinese con questo obiettivo è un fatto importantissimo. Una società militare ha come suo perno i soldati e se questi entrano in crisi in merito allo svolgimento delle loro funzioni si può sperare che essi svolgano in futuro un ruolo propositivo e "progressista" così come accadde in Portogallo per la "rivoluzione dei garofani".
Siete riusciti ad avere percezione dello stato dei rapporti tra Arafat e l'Anp e la componente islamica radicale? E in merito a ciò si può parlare di crisi di legittimità politica dell'Anp parallela alla crescita di consenso di Hamas nei territori?
“Credo che questa cosa vada letta su due piani. Sicuramente c'è un momento di impasse per l'Anp dovuto al fatto che l'accerchiamento internazionale e l'integralismo israeliano non fanno altro che favorire l'integralismo islamico. C'è da dire però che Hamas, pur rifiutando formalmente di partecipare alle elezioni palestinesi, ha comunque presentato propri candidati indipendenti che sono stati eletti all'interno dell'Autorità Palestinese e che questa forma di partecipazione indiretta alle sorti dell'Anp ha comportato per un lungo periodo la sospensione delle attività militari da parte di Hamas, la quale ha ripreso l'iniziativa armata solo dopo l'uccisione di uno dei suoi leader storici. Inoltre i bombardamenti quotidiani, soprattutto nella striscia di Gaza, non fanno che accrescere, ovviamente, le adesioni ad Hamas. Se nelle grandi città come Gerusalemme o la stessa Betlemme, dunque, resiste l'autorità di Arafat, nei territori più colpiti dai bombardamenti israeliani cresce la popolarità di Hamas. Altra cosa ancora sono gli attentati suicidi, sintomo di disperazione totale. Nel penultimo viaggio abbiamo girato nelle piccole moschee, anche di Gerusalemme, e siamo rimasti impressionati nel vederle completamente tappezzate con i manifesti a colori, anche un po' kitch, della ragazza, una giovane intellettuale che frequentava l'università palestinese, che è stata la prima donna a compiere un attentato suicida. Ma, torno a dire, questa crescita dell'integralismo islamico è speculare alla messa in campo dell'integralismo israeliano. L'altro dato da capire è quanto Arafat pesi all'interno dell'Anp. A me sembra che egli rimanga il punto di riferimento principale e l'unico punto di mediazione possibile, nonostante che per la prima volta nella storia delle organizzazioni di lotta palestinesi egli abbia fatto crescere dietro di sé un elìte culturale e politica, una schiera di possibili successori, mentre fino all'altro ieri la filosofia della leadership araba prevedeva al massimo la presenza di un delfino e a condizione che esso fosse un consanguineo. Oggi ci sono invece almeno una decina di persone che affiancano Arafat nel ruolo dirigente. In più c'è da dire che Arafat è riuscito in qualche modo a mobilitare l'opinione pubblica europea, che proprio in questi giorni ha preso posizione in maniera significativa a favore della causa palestinese e la stessa Onu si è formalmente schierata contro i bombardamenti, i quali, occorre ricordarlo, hanno colpito dei civili. Non c'è dubbio, in ogni caso, che oggi la Palestina rappresenti l'epicentro di questa guerra globale permanente e per gli Usa Sharon costituisca una testa di ponte necessaria per l'attuazione delle politiche imperiali, soprattutto oggi che sembra sempre più probabile un'estensione del conflitto all'Irak e ai paesi arabi limitrofi. In questa prospettiva distruggere il ruolo di mediazione svolto da Arafat diventa una priorità di carattere strategico”.
Come pensi si debba agire? Non pensi si corra il rischio di schierarsi a favore di una parte che in fondo ha anche dei torti gravissimi?
“BISOGNA ROMPERE L'ASSEDIO. Sono un pacifista verde, disobbidiente e laico, l'idea di martirio mi è completamente estranea. Non amo correre inutili rischi: ho solo questa vita e ci tengo. Non mi è stato però possibile assistere passivamente allo spettacolo della fine della Palestina, una tragedia che potrebbe avere ripercussioni gravissime in tutto il mondo, anche da noi. La settimana scorsa, rompendo l'assedio in cui era costretto il capo dell'Anp, ho superato la frustrazione del pacifista, quel senso di impotenza che spesso deprime chi, per paura di prendere posizione, non trova alcun mezzo per andare contro le follie dei potenti. Bisogna invece, ora più che mai, entrare in campo, praticare l'area del conflitto, con le proprie ragioni, con il proprio corpo e, nell'indifferenza dei potenti, attivare i meccanismi della diplomazia dal basso. Nell'era dell'informazione globale l'interposizione pacifica può dare risultati inaspettati. Anche per questo Sharon non vuole più né pacifisti, né giornalisti internazionali tra le palle.
Il terrorismo in Israele è un tragico problema, frutto di mezzo secolo di errori, il più grave dei quali è stato far crescere intere generazioni palestinesi nell'incubo dell'apartheid, ridurre un intero popolo a mera 'vita nuda', cittadini di serie B, in un territorio che, fino a poco tempo fa era il loro. La feroce politica 'contro il terrorismo' ora in atto sta già ora motivando e creando le nuove generazioni di 'terroristi' votate alla vendetta. A meno che il capo del governo Israeliano non pensi ad una sorta di 'soluzione finale', nessuna violenza, nessun chek point potrà fermare il terrore. I posti di blocco servono solo ad umiliare i lavoratori costretti ad attendere ore, prima di poter andare a lavorare per i padroni israeliani. Anche questa è violenza.
Nonostante ciò non mancano segnali importanti ed estremamente incoraggianti anche dal popolo di Israele, disubbidienza tra civili e come si è ricordato persino tra i militari, qualcosa inizia a muoversi nella società civile. Bisogna dar forza a queste realtà.
a cura di Gian Luca Baldrati