Successo della personale di Cosmo Allegretta
Nella Sala dei Templari con la partecipazione dell’assessore alla Cultura Elisabetta Mongelli, intervenuto con entusiasmo alla manifestazione, si è tenuta la personale del pittore Cosmo Allegretta, un’antologica che raccoglie opere datate dagli esordi dell’artista sino alle sue più recenti creazioni. In occasione dell’allestimento, è stato realizzato un catalogo, Cosmo Damiano Allegretta. Contributi e testimonianze. Opere 1965-2015, pubblicato per i tipi delle edizioni Ed Insieme, dirette dal dott. Renato Brucoli, e curato dall’editore stesso e dal docente dell’Università degli Studi di Bari e illustre storico dell’arte, prof. Gaetano Mongelli. Il catalogo è stato presentato con successo presso il Museo Diocesano di Molfetta con l’intervento, accanto ai curatori dell’opera e al sottoscritto, anche della famiglia di Allegretta. Quella narrata nel catalogo è una “Storia a due voci”, che ha per protagonisti il critico e l’artista e annovera come narratori lo stesso Mongelli e il prof. Luigi Dello Russo, che ha lavorato alla curatela dell’opera sino al marzo 2014, quando è improvvisamente deceduto. Il prof. Mongelli ha raccolto la sua testimonianza scritta e l’ha pubblicata con estremo rigore filologico. Questa “storia a due voci” finisce col configurarsi come una straordinaria epopea della storia dell’arte internazionale, in amebeo tra la dimensione molfettese, quella che Mongelli ritiene riduttivo etichettare come “scuola molfettese”, perché tale espressione non renderebbe giustizia, soffocandolo in una “crisalide comunale”, a un crogiuolo di esperienze in convergenza, ognuna dotata di propria individualità. L’esperienza di Allegretta si rinsalda all’arte italiana ed europea, con consapevolezza delle congressiones della “Nuova figurazione” teorizzata nel 1965 da Enrico Crispolti, caratterizzata da una revisione del linguaggio informale alla luce delle nuove esigenze espressive. La “Nuova figurazione” finì col raccogliere anche l’eredità della “Nuova Puglia”, tenuta a battesimo da Arcangelo Leone De Castris e connotata dal passaggio dal polo di un “realismo monocorde” a quello complementare “dell’espressionismo”. Dal gruppo presentato da Mongelli stesso al “G.A.C.” di Bitonto alle edizioni delle “Convergenze d’artista”, lo storico ricostruisce un tessuto d’estremo interesse, in cui si innervano le sodalitates di via Amente e le scelte artistiche della pur breve stagione della Boulevard Gallery, in cui le vicende di Allegretta si intersecarono con quelle di Dr’gu’escu che, “infallibile pittore di anime”, lo ritrasse. L’enciclopedica conoscenza storico-artistica di Mongelli gli consente di stabilire curiosi parallelismi, come quello tra uno Scorfano “turgido e spinoso”, inchiostro realizzato sul supporto cartaceo di un biglietto vergato dallo stesso Mongelli, nel 1974, che in un gioco di rifrazioni passato-presente ci riconduce a un esperimento analogo, di analogo soggetto, compiuto da Vincenzo Gemito nel 1909, sulle pagine di un manoscritto del XVII seco-lo, oggi conservato a Napoli presso il Museo Diego Aragona. L’Allegretta che Mongelli magistralmente delinea è “un Matisse sui generis che, alla maniera dei Fauves, sollecita una riflessione sulla funzione costruttiva del colore, chiamato a rinverdire immagini di tipo gauguiniano, magari tramite Kees Van Dongen”. Dietro le sue figurazioni si cela un profondo senso etico, che lo porta a contemplare, senza la stolida volontà di ergersi a giudice, l’amara “commedia dello stato umano”, con un esistenzialismo che ha mellificato Antonioni e un senso di nostalgia, ch’è saudade di una pienezza perduta. Quel senso di totalità che talora sembra potersi ripristinare sulle soglie di una Ianua coeli che forse non si aprirà mai più. Luigi Dello Russo ci offre una rappresentazione attenta dell’esperienza di Cosimo Allegretta, negli anni posteriori al trionfo della retorica fascista, quando esperienze come quella del “Fronte nuovo delle arti” vedevano affermarsi due tendenze, un “realismo figurativo”, connotato da sintassi postcubista e cromatismi espressionistici, e un lirismo tendente all’informale, che cercava di cancellare il ricordo del violento vulnus subito dall’umanità attraverso l’abbandono del dato naturalistico. Allegretta si avvicinava maggiormente all’esperienza dei realisti, più influenzato da un Migneco che da un Pizzinato, avvertendo anche un notevole fascino dalla cosiddetta cage aux fauves. Negli anni Sessanta era messa a punto la scelta di un colore luminoso a “struttura formale portante”, che si sarebbe coniugata nel decennio Settanta con la “coerenza di una scelta” per un’arte che fosse “analisi e critica della realtà circostante”. Il “Latifondista” del 1974 ammiccava a Soutine, il “Vecchio prelato” del 1976 aveva un’aura felliniana. Il “Latifondista” del 1974 ammiccava a Soutine, il “Vecchio prelato” del 1976 aveva un’aura felliniana. Questa tensione analitico-critica si affermerà non senza avvertire, piegandole a esigenze espressive ed etiche proprie dell’artista, certe sirene transavanguardiste, che pure si affacciano nella rappresentazione mitologica degli anni Ottanta. Poi Allegretta si muoverà verso lo still life e la rappresentazione di un’umanità solitaria, che conosce i suoi correlativi nei Cristi disputanti e derisi del 1998 e del 2013, figure dell’incomunicabilità e dell’impossibilità di nuove epifanie, in una società intubata e incartapecorita, morta ancor prima di librarsi in volo. L’arte di Allegretta si snoda lungo molteplici direttrici, ma senz’altro possiamo ravvisare un elemento comune nella centralità della rappresentazione della figura femminile. Questa conosce due declinazioni: la Megale Meter o Magna Mater, che sussume suggestioni della Venere di Willendorff, ma anche della scultura di Aristide Maillol (come ben evidenzia Mongelli), delle Pomone di Marino Marini e di certe sinuose donne tondeggianti di Henry Moore. È la aeterna genetrix, quella dai fianchi e deretani esorbitanti, non di rado “fotografata” in pose ammiccanti alla matissiana Joie de vivre o a figure come la Diana del Boucher. Poi c’è la donna angolosa, emancipata, che ha conosciuto la maniera di Kirchner, e che siede nei caffé, non luoghi in cui si perpetra la “non storia”, eterni palcoscenici di beckettiane attese, destinate ad approdare al nulla. Eppure sembra talora che il sacro possa irrompere tra le pieghe di questo mondo, forse nel cerchio mistico – ma in qualche modo fraudolento – di Odisseo o in un’armonica composizione di oggetti che, nella loro vita silente, sembrano alludere a nuove promesse di vita lontano dal caos. Caos incancellabile e che forse non è che uno dei volti dell’armonia. E così la “grevità della materia” e il puzzo del sudore irrompono tra le pieghe del mito ed Ettore che abbraccia la sua sposa potrebbe essere, nell’esibizione di una muscolatura possente e vitalisticamente imbarazzante, un pescatore o un contadino dai piedi enormi. E il David che ha sconfitto Golia richiama ancora, nella posa, il bell’adolescenziale David del Verrocchio, presente all’Allegretta anche nello scultoreo ritratto di Luigi (1977), ma ha fatto sua, con postmodernistica perdita dell’innocenza, il Pierre musico suo malgrado di Matisse, l’uomo chagalliano, quello fantasmatico di Palladino... Conscio che la bruttezza non è che uno dei mille volti della bellezza stessa e che anche i demoni, un giorno, hanno conosciuto l’Eden.
Autore: Gianni Antonio Palumbo