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Sfide generazionali e scenari incerti per gli inglesi e gli italiani a Londra REPORTAGE - La Brexit attraverso le impressioni di viaggio
15 settembre 2017

Nel mese di luglio abbiamo trascorso tre settimane in Inghilterra. Dopo una breve parentesi nel Comune costiero di Brighton, ci siamo spostate nella città universitaria di Cambridge per un corso di formazione linguistica e abbiamo trascorso gli ultimi quattro giorni a Londra. Nelle nostre giornate britanniche abbiamo avuto modo di confrontarci con alcuni cittadini inglesi sul tema che tormenta il Paese: la Br-Exit. La nostra permanenza in Inghilterra per altro si è svolta a pochissima distanza dalle ultime elezioni politiche, quelle in cui il Primo Ministro Teresa May si è giocata il tutto per tutto, perdendo la sua scommessa con il consenso e ritrovandosi più fragile di prima alla prova dei conti con Bruxelles. Sta al governo inglese, infatti, nei prossimi mesi, dare seguito al risultato referendario. Ma tra la cittadinanza nessuno osa neanche immaginare cosa concretamente significhi per la vita quotidiana degli inglesi mettersi alle spalle l’esperienza comunitaria. Sara, una donna londinese sulla cinquantina che lavora come segretaria amministrativa della scuola di inglese che abbiamo frequentato, ci dice con chiarezza che nel Paese c’è un vero e proprio “Brexit panic”. Evidenzia: “i dati referendari parlano chiaro: i Leave hanno prevalso tra gli anziani dei piccoli centri, i Remain tra i giovani delle grandi città. Gli anziani si sono fatti influenzare dalla cattiva stampa che ha agitato l’emergenza immigrazione e ha convinto i più vecchi che lasciare l’Europa fosse una soluzione al problema”. Aggiunge Sara: “In una città come Cambridge ci sono già professori universitari provenienti dagli altri Paesi del mondo che avevano trasferito qui le famiglie e che avevano investito il loro futuro su Cambridge, che stanno facendo i bagagli perché sono convinti che l’Inghilterra sarà tagliata fuori dai finanziamenti europei alla ricerca”. Anche la nostra Professoressa di lingue Viveca teme ripercussioni negative già nel breve e medio termine: “La cosa che colpisce è che un risultato referendario così poco netto possa determinare le sorti anche economiche del nostro Paese. Il rischio è quello di un isolamento e nessuno di noi sa esattamente in questi mesi come il governo riuscirà a compiere la Brexit senza danneggiarci. Le ultime elezioni hanno reso il quadro ancora più incerto perché l’uscita dall’Europa sarà guidata da un governo più debole di prima. Dopo le dimissioni di Cameron, la May ha vissuto un momento di consenso che alla prova elettorale si è ristretto e l’opposizione di Corbyn è in crescita. Uscire dall’Europa con questo clima genera in noi cittadini un certo disorientamento”. In un’intervista al settimanale Left (giugno 2017) Zadie Smith, scrittrice e saggista inglese, descrive la condizione sociale londinese degli ultimi decenni, facendo riferimento in particolar modo ai meccanismi di mobilità sociale che riguardano gli artisti. “Attori di qualsiasi estrazione sociale potevano tranquillamente emergere. Oggi non esistono più i corsi statali, non viene più data la possibilità a chiunque di entrare, tutto ormai è stratificato. L’unica cosa che è rimasta viva è la musica. C’è un forte hip pop nero (…) in cui non hai bisogno di nulla, nemmeno di uno studio”. Zadie Smith racconta di una Londra in cui non ci sono più scrittori che provengono dalla classe operaia. Oltre lei, Irvine Welsh e Hanif Kureishi, la scrittura inglese proveniente dalle minoranze della working class è decisamente meno forte di un tempo. Sono stati ridotti gli spazi e i luoghi di accesso, pertanto, diventa difficile farsi sentire. L’Inghilterra, e Londra in particolar modo, sembrano vivere di nostalgia e di remake del passato e la Brexit ne è una testimonianza. Anche Hanif Kureishi, scrittore anglo-pakistano e autore di romanzi come il Budda delle periferie e Uno zero, in un’altra intervista dello stesso settimanale dichiara che i media inglesi sono tutti di destra, o quanto meno pro Brexit e pro Trump o le Pen. Questo ha chiaramente favorito e orientato il voto degli elettori più anziani sia al referendum sia alle elezioni politiche. I giovani, al contrario, hanno generalmente votato “Remain” al referendum e Corbyn alle elezioni politiche, in quanto egli è riuscito meglio a rappresentare i bisogni dei più giovani: la libertà, il multiculturalismo, il dialogo, l’impegno dello Stato nella difesa dei più deboli e l’education. I risultati del referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea sembrano provocare un certo disagio, soprattutto tra i ceti medi e progressisti. Il 51,9% di coloro che hanno espresso un voto favorevole all’uscita dalla Ue, superano appena di 3 punti percentuali il 48,1% di coloro che hanno votato per restare. Questa differenza percentuale sembra poca roba ma, in effetti, è il terreno sul quale si gioca la partita del nuovo modello di sviluppo inglese che, volente o nolente, con l’uscita dall’Europa dovrà fare i conti. Lo scenario di un nuovo referendum correttivo, infatti, sembra non trovare alcun varco di fattibilità e l’Inghilterra è sostanzialmente inchiodata all’obbligo di rispettare il risultato delle urne nonostante lo scarto esiguo tra le due posizioni e i generali ravvedimenti politici che hanno trovato spazio sia tra i laburisti che tra i conservatori. contribuito in modo determinante un fattore legato all’identità culturale collettiva del Paese presente soprattutto tra i più anziani: la fascinazione collettiva prodotta dal mito del “ritorno della grande Inghilterra. A tale riguardo Sara spiega con chiarezza: “gli ottantenni di oggi ricordano ancora gli anni dell’Inghilterra di Churchill. Il nostro Paese era potenza mondiale capace di sconfiggere il nazifascismo ma anche di espandere la sua potenza economica in tutto il mondo attraverso le colonie”. In sostanza tra i nonni inglesi è diffusa la nostalgia dell’Inghilterra del secondo dopoguerra capace di esprimere il suo cosmopolitismo economico e geo-politico da protagonista, senza la subalternità alla Germania e alla Francia emersa nel sentimento collettivo degli ultimi anni. Il sogno di tornare a quell’Inghilterra forte e autosufficiente si è tradotto in un “british pride” che ha trainato la scelta elettorale in direzione antieuropeista. In sostanza il voto referendario ha espresso un sentimento di paura verso i crescenti flussi migratori e un orgoglio neo-nazionalista. Le elezioni però dimostrano che il Paese è diviso tra le posizioni di intellettuali progressisti che rappresentano il sentimento giovanile diffuso e un conservatorismo ancora prevalente tra i ceti medi e popolari delle generazioni più anziane. Theresa May non è riuscita ad assicurarsi una maggioranza parlamentare netta, tanto da essere costretta ad allearsi con il partito protestante nord irlandese (Dup), molto distante dalle tendenze modernizzatrici dei Tories sui temi etici come il riscaldamento globale, l’aborto e i matrimoni gay, e altrettanto lontano sui temi economici e sociali, essendo contrario alle politiche di austerità. Corbyn, dal canto suo, ha ottenuto un lusinghiero 40% dei voti e, pur prendendo una posizione a favore del Remain, non ha rinunciato a criticare il progetto europeo basato su austerità e politiche sociali assenti. Le elezioni dell’8 giugno sembrano mostrare che possa esistere un’alternativa al dogma del TINA (There is No Alternative) puntando su un modello europeo più attento ai bisogni dei cittadini e alla evoluzione dei processi democratici. Il partito laburista è lontano dal disporre di un numero sufficiente di eletti per formare un proprio governo e alla vigilia di scelte difficilissime, come la gestione della Brexit, il Paese non dispone di una solida guida politica. L’esito elettorale è stato positivo ma non costituisce una garanzia per un’inversione di rotta. L’incertezza pervade l’Inghilterra e il ruolo delle giovani generazioni si fa sempre più centrale per aprire nuovi scenari di cambiamento. In Italia non c’è stato un vero e proprio referendum sull’uscita dall’Europa, ma restiamo il Paese con il più basso tasso di investimento su politiche giovanili e familiari. Solo il 3% della spesa totale è dedicato a politiche per la famiglia e i minori, contro l’8,3% della Danimarca o il 6,6% dell’Irlanda o il 4,4% della Francia. Circa il 77,2% della spesa sociale italiana è destinata a chi ha più di 65 anni, tra pensioni di reversibilità e anzianità, il restante tra famiglia e minori, disoccupazione, disabilità ed esclusione sociale (Eurostat). Quasi nessun investimento in politiche per la casa. Questo racconta di una situazione nella quale i giovani non sono per nulla supportati nel loro percorso di emancipazione sociale, intrappolati tra un welfare familista e percorsi di impoverimento/povertà, segnati da gravi situazioni di diseguaglianza sociale e bassa mobilità. In Italia, dunque, le giovani generazioni sembrano non avere alternative a questo scenario di marginalizzazione sociale, sia perché la sinistra tradizionale non riesce ancora raccogliere e rappresentare le nuove istanze di progettualità sociale provenienti dai giovani, sia perché una parte del potenziale generazionale sembra essere stato disperso con violenza durante la stagione dei “movimenti antiglobalizzazione”. I motivi sono complessi e non è compito di questo contributo indagarli, ma ci si auspica quanto meno l’inizio di una fase di maturazione e consapevolezza istituzionale sulle tematiche inerenti i giovani e il loro protagonismo sociale e politico. La Br-Exit potrebbe in ogni caso aprire nuovi scenari nel panorama europeo di determinazione di un nuovo patto sociale sul quale sembra importante rivolgere un po’ di attenzione. Recenti elaborazioni Istat per L’Espresso fanno emergere un’emorragia di giovani dai 18 ai 30 dal 2008 a oggi prevalentemente dalle città del Sud Italia. Su 50 città nelle quali vi è stata una maggiore riduzione del numero di giovani, Molfetta si trova al 12° della classifica per quanto riguarda i valori percentuali e al 18° per quanto riguarda quelli assoluti. Questo vuol dire che dal 2008 a oggi circa 1450 giovani hanno lasciato Molfetta, vale a dire -14,36% di giovani dai 18 ai 30 anni rispetto al 2008. Molti dei giovani che hanno lasciato Molfetta si sono diretti verso Londra in cerca di lavoro o di nuove prospettive di vita. Sarà nostro compito e nostra premura intervistare qualcuno di loro per raccogliere impressioni, voci e racconti circa le trasformazioni in atto prima, durante e dopo la Brexit. Marina Mastropierro Paola Natalicchio

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