Sciopero della pesca. Vitantonio Tedesco: accanimento contro di noi In sciopero dal 22 gennaio
Contro i vari adempimenti introdotti dal Regolamento Comunitario sui Controlli (Reg. CE n.1224/2009), come la licenza a punti e la tracciabilità del prodotto, cui si somma il caro gasolio. Misure elaborate sulle caratteristiche della pesca atlantica e non mediterranea, perciò poco applicabili in Italia. Quindici ha intervistato Vitantonio Tedesco, armatore e pescatore di Molfetta, riconvertito dalla piccola pesca alla pesca a strascico per «evitare gli intermediari dell’ingrosso» e «vendere direttamente il pescato al dettaglio». Nell’intervista spiega le misure fissate dal regolamento CE, approfondendo alcuni temi dello sciopero e della crisi della pesca a Molfetta e in Italia. Quando è iniziato lo sciopero della pesca a Molfetta? «Lo sciopero sarebbe dovuto iniziare sabato 28 gennaio con le marinerie di Bisceglie, Molfetta e Trani, ma domenica scorsa (22 gennaio, ndr) le marinerie di Monopoli e Mola di Bari hanno obbligato anche Molfetta al fermo». Quali le motivazioni dello sciopero? «Caro gasolio, Iva al 21% da applicare sul gasolio, anche se la misura sembra possa essere abolita, e alcune misure imposte dalla Comunità Europea con il regolamento del 2009. Tra queste la licenza a punti. I pescherecci dovranno stare attenti a non commettere nessuna infrazione. Raggiunta la quota di 36 punti, la licenza di pesca sarà sospesa per 2 mesi. È, però, importante non raggiungere la quota di 80 punti perché a quel punto la patente sarà ritirata e il peschereccio cancellato dall’archivio delle licenze. E poi la necessità, anzi l’imposizione da parte della Comunità europea, di avere a bordo una bilancia elettronica per la misurazione del quantitativo del pescato, che costa quasi 6mila euro, e il lookbook, strumento elettronico che ha un costo di circa 4mila euro». Come funziona questo lookbook? «Permette la tracciabilità del pesce e la regolamentazione delle taglie minime. Ogni 4 ore il motopesca dovrà comunicare la quantità del pescato a bordo e le specie pescate e, approdato, dovrà intervenire l’ufficiale sanitario e il personale della capitaneria per controllare la veridicità di quanto trasmesso con il lookbook e se il pesce è stato conservato in condizioni ottimali. In questo modo, metà del pescato non potrebbe essere venduto perché le taglie sono sempre ridotte. Converrebbe perciò restare in banchina per non rimetterci economicamente». Con l’applicazione di queste misure come quantificare la perdita? «Già i costi di gestione assorbono oltre il 70% del guadagno, con l’applicazione delle normative si arriverebbe all’80/85%. Insomma, la morte della pesca. Se dobbiamo scomparire, è meglio dirlo subito così demoliamo tutto il settore e poi provvederà la provvidenza per le nostre famiglie». Sig. Tedesco, lei ha partecipato all’incontro con l’assessore regionale alle Risorse Agroalimentari, Dario Stefano, lo scorso 24 gennaio. Quali sono stati i punti discussi e quali accordi sono stati raggiunti? «Affrontati tutti i punti della protesta, l’assessore si è impegnato in prima persona a dar voce alle nostre richieste e a convocare un tavolo di confronto, anche se la decisione spetta al governo europeo ». Secondo le istituzioni, la crisi della pesca e il depauperamento delle risorse ittiche dipende dall’eccessivo sforzo di pesca. È proprio così? «Innanzitutto, in un periodo molto critico come questo, credo che i pescatori tutti debbano autoregolarsi, riducendo lo sforzo di pesca e tutelando maggiormente la risorsa ittica, con l’aiuto finanziario dello Stato italiano o della Comunità Europea». In che senso? «Abolendo le normative succitate e, magari, invece di lavorare 5 giorni alla settimana, secondo me si potrebbero ridurre i giorni lavorativi a 3 con 2 giorni di cassa integrazione. Potrebbe essere una soluzione per tutelare la risorsa ittica e umana. Dobbiamo capire che è necessario tutelare risorsa ittica e settore. Ad esempio, perché in Libia un pieno di gasolio costa 12 euro e in Italia 110 euro? In appena 3 anni il costo del gasolio è passato da circa 40cent/litro a quasi 80cent/litro». In pratica, si sono raddoppiati i costi di gestione, mentre il prezzo di vendita del pescato all’ingrosso e al dettaglio è diminuito. «Un paradosso. Il consumatore prima della crisi internazionale poteva permettersi, ad esempio, di comprare un chilo di merluzzi a 10 euro, oggi purtroppo non è più possibile e il prezzo di vendita cala. Senza dimenticare che il pescato stesso è diminuito. Di questo passo più di un armatore preferirà mettere in cassa integrazione i dipendenti e disarmare le barche. Ma per quanto tempo potrà durare questa cassa integrazione per oltre 100mila addetti? Da un lato il settore richiede una gestione tecnico-specialista, che istituzioni e associazioni, sempre lontane dai reali bisogni della categoria, non riescono a garantire, barricate da motivi politici. Dall’altro, dobbiamo evitare anche di demonizzare i pescatori, che non possono essere considerati i distruttori del mare. Lo sforzo di pesca influisce sulla quantità della risorsa ittica, ma non dobbiamo dimenticare che i nostri mari sono inquinati da ogni tipo di veleno industriale e bellico. Numerose sono le specie che si sono estinte e si rischia anche di uccidere uno dei mestieri più antichi del mondo. Anzi, potremmo dire che oggi non si riconosce più la genuinità del pesce e il consumatore preferisce acquistare pesce surgelato o di dubbia provenienza da supermercati e ipermercati». Additare solo i pescatori potrebbe essere anche un modo per nascondere la realtà ambientale del Mediterraneo. «Ad esempio, vorrei che le associazioni ambientaliste, invece di accusare i pescatori, che hanno pur sempre le loro responsabilità, riconoscessero con onestà intellettuale e combattessero proprio l’inquinamento del mare. Se la flotta italiana si è ridotta del 50% e, allo stesso tempo, si riduce il pescato, vuol dire che altre sono le cause scatenanti. Non è giusto accanirsi in questo modo contro il settore, senza alcuna obiettività».
Autore: Marcello la Forgia