Dopo la pace e le frivolezze della Belle époque, il 1914 inaugurò quella che Eric Hobsbawm ha definito «età della catastrofe » e David Singer «età dei massacri», non solo perché la Grande Guerra fu una inaudita carneficina, ma anche perché, sulla base dei trattati di Versailles del 1919 imperniati sulla tesi dell’esclusiva “colpa” tedesca, la pace punitiva imposta dai vincitori ai vinti generò la seconda guerra mondiale e i maggiori mali del Novecento. In questo il pacifista Giustino Fortunato, che previde inorridito una nuova guerra mondiale, fu più lungimirante di Gaetano Salvemini, interventista convinto. Tuttavia l’interventismo democratico salveminiano non va preso come episodio soggettivo e isolato, ma va inquadrato nel contesto ideale e pragmatico dei compagni di strada che condivisero l’esperienza dello storico pugliese, personalità appartenenti sia alla precedente generazione, come Leonida Bissolati, sia alla sua età, da Cesare Battisti a Giuseppe Prezzolini, sia alla generazione successiva, da Umberto Zanotti-Bianco a Piero Calamandrei. D’altra parte tutto lo svolgimento della cultura italiana postunitaria legittimava e spiegava l’adesione quasi unanime degli intellettuali alla guerra per ragioni politiche. L’interventismo di Salvemini, comunque, non ponendo in primo piano il conflitto primario tra opposti imperialismi, ma ripiegando sullo scontro secondario tra il regime autoritario austro-germanico e il sistema liberal- democratico anglo-francese, era viziato da un’analisi ideologicamente astratta della realtà, che non teneva nel giusto conto né i programmi di espansione imperialistica italiana verso l’Est, né l’autocrazia zarista, né il fatto che la Grande Guerra, più che l’ultima campagna del Risorgimento o la «quarta guerra d’indipendenza», era un conflitto in cui gli ideali liberali e nazionalitari occupavano uno spazio ben più ristretto di quello auspicato dagli interventisti democratici. Inoltre, pur sapendo che la gran massa dei contadini non capiva e non voleva la guerra, non meno astrattamente Salvemini, in odio anche al neutralismo armato di Giolitti, si sentiva votato a svolgere tra di essi una missione educativa riguardo alla presunta palingenesi che il conflitto avrebbe favorito. Dopo l’aggressione della Serbia da parte dell’Austria, Salvemini, che pure era stato inizialmente contrario alla guerra italo- turca per la conquista della Libia, superando i passati scritti contro il riarmo e le precedenti posizioni pacifiste, ma in linea con la campagna contro la Triplice Alleanza condotta nel 1912 da L’Unità, dopo aver dichiarato teoricamente e praticamente insostenibile la neutralità «assoluta» propugnata dal Partito socialista italiano, dopo aver invitato a scegliere tra la grande Serbia o Jugoslavia e una più grande Austria, nel numero del 28 agosto 1914 dell’Unità si pronunciò per l’intervento: «Bisogna che questa guerra uccida la guerra. E affinché ciò sia possibile, è necessario che la vittoria appartenga al gruppo internazionale più numeroso ». Per conto suo, Salvemini aveva dato la sua adesione all’interventismo già da diversi giorni prima. Infatti, scrivendo a Prezzolini da Molfetta il 5 agosto 1914, aveva assunto come ovvio l’intervento immediato dell’Ita- lia a fianco della Triplice Intesa e manifestava la sua intenzione di sospendere l’uscita dell’Unità e, alle soglie dei 41 anni, di partire subito volontario: «Se vince l’Inghilterra, avremo anche il liberismo. Ora come ora, la sola cosa che possiamo fare è di andare alla guerra, se siamo buoni a qualcosa. Se usciamo dalla neutralità contro l’Austria, sospendo “L’Unità” e vado alla guerra anch’io». E l’11 agosto, ancora da Molfetta, a Ugo Ojetti, all’amico giornalista che aveva denunciato sul Corriere della Sera le violenze subite durante le votazioni del 1913 dai salveminiani, lo storico rivelava: «Se facciamo la guerra all’Austria, e il Governo accetta volontari, ci vado anch’io. Ho un po’ di pancia; ma credo di poter fare ancora qualche cosa di buono anche in fatto di marce e di fucilate». Il 18 ottobre 1914 Mussolini pubblicava sull’Avanti! un editoriale, in cui, avvicinandosi agli interventisti democratici, bollava l’inadeguatezza della posizione neutralista, richiamando l’attenzione sulla questione delle terre irredente e sulla possibilità che l’ingresso dell’Italia in guerra avrebbe potuto affrettare la fine del conflitto. Nello stesso giorno da Faenza Salvemini, che nove giorni prima era in preda allo scoramento e al disgusto per la comoda neutralità italiana, si precipitò a congratularsi epistolarmente con Mussolini: «non è piccolo atto di coraggio il tuo, questo di rompere la lettera per salvare lo spirito dell’internazionalismo, in questo nostro paese di sagrestani formalisti e chiacchieroni ». A sua volta Mussolini si affrettò a pubblicare sulla prima pagina dell’Avanti! del 21 ottobre le congratulazioni dello storico molfettese, spiegando di sentirsi incoraggiato dal beneplacito di un «maestro» come Salvemini. Ma gl’interventisti potevano garantire all’Italia la vittoria? A tale domanda Salvemini, sollecitato da Ojetti a dare il suo contributo a una collana di opuscoli propagandistici sui “Problemi italiani”, rispose prima di tutto nel gennaio del 1915 con il libriccino divulgativo Guerra o neutralità?, in cui discuteva realisticamente l’interesse dell’Italia a schierarsi con l’Intesa e con la Serbia. Poi sull’Unità del 26 febbraio 1915 aggiunse: «nessun uomo di coscienza potrebbe opporre una certezza assoluta di vittoria». Anzi bisognava «essere preparati anche a qualche rovescio, e in tutti i casi a sacrifici lunghi e grandi». Un articolo dell’Unità del marzo 1915, Finis Austriae?, mentre sottolineava l’importanza dell’Adriatico, per la soluzione del quale problema era indispensabile che l’Italia occupasse Trieste e l’Istria, testimoniava col punto interrogativo la perplessità di Salvemini sulla probabile disgregazione dell’Austria, benché egli fosse consapevole che il solo modo per indebolire la Germania fosse quello di «stroncarle l’alleata», l’Austria, e benché fosse ispirato dalla politica mazziniana dello smembramento dell’impero austro-ungarico in un gruppo di stati nazionali non più oppressi dagli Absburgo, ma indipendenti e sovrani dopo una comune lotta di liberazione. Tuttavia alla fine del 1916 il titolo di una conferenza tenuta in diverse Unità Popolari settentrionali, Delenda Austria, sulla necessità di smembrare l’Austria, sarà il suo martellante grido di guerra di sapore catoniano e mazziniano, ripreso anche nella propaganda che farà nel 1918 agli ufficiali italiani e ai soldati nelle trincee. Frattanto, il 3 maggio 1915, l’ambasciatore a Vienna, Giuseppe Avarna di Gualtieri, denunciò come decaduto il trattato della Triplice Alleanza. In molte città italiane, con l’infiltrazione di agenti provocatori prezzolati dall’ambasciatore francese Camille Barrère, si svolsero violente dimostrazioni interventiste e retorici comizi, culminati nelle cosiddette «radiose giornate» di maggio. In uno di questi comizi, interventisti democratici come Salvemini, Bissolati e De Viti De Marco si trovarono sulla stessa tribuna accanto a nazionalisti come Gabriele d’Annunzio, Luigi Federzoni ed Enrico Corradini. Presenze decisamente imbarazzanti, in quanto già dallo stesso maggio Salvemini su L’Unità si era espresso sulla campagna per la Dalmazia contro il nazionalismo e l’imperialismo italiano e a favore dell’amicizia italo-jugoslava, cioè per il rispetto delle etnie, da un lato gettando le basi del volume scritto col geografo Carlo Maranelli La questione dell’Adriatico, che sarà bloccato due volte dalla censura, e dall’altro andando incontro agli insulti più beceri e feroci dei nazionalisti. Contemporaneamente Salvemini su L’Unità del 14 maggio attaccava l’odiato Giolitti e i socialisti neutralisti: «Atteggiandosi a sostenitore della neutralità, il Ministro della mala vita sa benissimo di tendere un tranello all’opinione pubblica italiana. E i deputati socialisti ufficiali, che possono finalmente darsi la soddisfazione di proclamarsi apertamente giolittiani sulla piattaforma della neutralità, sanno benissimo di rappresentare la più indegna delle farse». In questo clima di febbrile esaltazione, dopo che il segretario socialista Costantino Lazzari sintetizzò le conclusioni del congresso bolognese del Psi e della Confederazione Generale del Lavoro del 16 maggio nella formula «Né aderire né sabotare », il 23 maggio 1915 il Psi pubblicò un manifesto antibellicista. Ma era or- mai troppo tardi: la crisi della società liberale italiana stava raggiungendo l’acme. Nello stesso giorno l’ambasciatore a Vienna Avarna di Gualtieri presentò al ministro degli Esteri István Burián la dichiarazione di guerra all’Austria-Ungheria a partire dal 24 maggio. L’intimazione alla Germania sarà rimandata addirittura al 27 agosto 1916. A questo punto, il 28 maggio 1915 Salvemini sospese la pubblicazione dell’Unità. In attesa di essere chiamato alle armi, lavorò presso l’Ufficio notizie di Bologna, occupandosi del controllo e della comunicazione dei decessi in guerra. Tutte quelle morti, però, lo turbarono emotivamente e gli instillarono un dubbio sull’interventismo e una gran pena: «Vi sono momenti», scriveva il 30 luglio da Firenze al discepolo Pietro Silva, «in cui mi sento preso dal dubbio, dinanzi a tanto dolore umano, se non era preferibile accettare il dolore della tirannìa tedesca a quello che nasce da tanta strage. E se non ci fosse in me qualcosa che si ribella alla servitù invincibilmente, e pone la giustizia e la libertà al di sopra della vita, ti confesso che mi pentirei di aver voluta la guerra. Stando a Bologna, si vede passare sotto gli occhi tanto dolore che il cuore non regge alla prova». Nominato ufficiale inferiore il 31 luglio, finalmente Salvemini il 9 agosto si presentò ad Arezzo al comando del 70° reggimento di fanteria, per svolgere il servizio di prima nomina come sottotenente di complemento. Finiti i due mesi d’istruzione in caserma, la sera del 25 ottobre Salvemini partì da Firenze per Cremona dopo aver scritto a Cesare Battisti: «Speriamo di incontrarci a Trento. Sai bene che del nostro programma irredentista, il solo che abbia le mie simpatie incondizionate è quello che riguarda il Trentino». A Cremona lo studioso s’incontrò con Ernestina Bittanti Battisti, moglie di Cesare, e con Ugo Guido Mondolfo, in gioventù amici di studi a Firenze, e i tre, con una cartolina del 28 ottobre, inviarono i propri saluti e auguri per la «causa comune» a Cesare Battisti, soldato semplice sull’Adamello nel battaglione sciatori del 5° reggimento Alpini. Da Cremona la sera del 4 novembre Salvemini si avviò per Palmanova, diretto al fronte dell’Isonzo. Nella zona di guerra lo studioso dal 5 novembre 1915 fu inquadrato nella 1a compagnia del 121° reggimento di fanteria della brigata “Macerata”. Il professore in grigioverde fu inviato in trincea nel settore di Castelnuovo del Carso, ma dopo appena dodici giorni sotto il piombo nemico nell’umidità e nella precarietà igienico-alimentare delle trincee, il fisico del quarantaduenne Salvemini non resse, debilitato da un gonfiore artritico ai piedi e da un violento disturbo intestinale. Sconsolato, il 13 luglio 1916, il giorno dopo l’impiccagione di Cesare Battisti a Trento, alla di lui moglie Ernestina Bittanti, tentando di consolarla per l’irreparabile perdita, Salvemini confesserà: «in questa guerra non sono stato buono a nulla».
Autore: Marco I. de Santis