Le elezioni politiche del 1919 offrirono agli elettori italiani una grossa novità. Si passava dai collegi uninominali con sistema maggioritario ai collegi con rappresentanza proporzionale a scrutinio di lista. La legge elettorale presentata da Francesco Saverio Nitti fu approvata dalla Camera il 9 agosto 1919 con 231 voti favorevoli e 83 contrari e dal Senato il 15 agosto con 70 sì e 9 no. La riforma ampliò di molto il territorio dei collegi elettorali riducendoli da 508 a 54, di cui 42 corrispondenti a una sola provincia. La nuova legge costituì un avanzamento democratico, sia in quanto eliminava le ultime limitazioni al suffragio universale maschile, sia perché adottava il più equilibrato principio della rappresentanza proporzionale. Tuttavia l’efficacia del nuovo sistema era limitata dal fatto che la riforma riconosceva all’elettore la possibilità di aggiungere nella scheda i nomi di candidati appartenenti ad altre liste, qualora la lista prescelta fosse incompleta, e ciò accadde spesso. Le schede elettorali, stampate a spese dei candidati, misuravano 12 centimetri per 12 e riportavano in un cerchio il contrassegno del partito e alcune linee su cui scrivere i cognomi dei candidati, da 1 a 4 a seconda delle circoscrizioni. Le schede, anche precompilate per agevolare gli analfabeti e i simpatizzanti, potevano essere consegnate agli elettori da incaricati dei partiti fino all’ingresso del seggio. Qui si consegnava al singolo elettore solo la busta in cui introdurre la scheda nel segreto della cabina o isoloir. Prima che la legge fosse approvata, il 27 marzo 1919 da Firenze Salvemini precisava all’amica Elsa Dallolio: «noi [dell’Unità] stiamo chiedendo la rappresentanza proporzionale proprio per assicurare i diritti delle minoranze». Di lì a poco, nel fervore di ricostruzione e rinascita etico-politica dell’immediato dopoguerra, Salvemini, incalzato dalla voglia di cambiamento di molti giovani intellettuali legati a L’Unità, tentò l’esperimento di una Lega democratica per il Rinnovamento della politica nazionale. Il congresso costitutivo si tenne a Firenze dal 16 al 19 aprile 1919. Vi parteciparono nuovi e vecchi amici dell’Unità come Piero Gobetti, Ubaldo Formentini, Piero Jahier, Giuseppe Lombardo Radice, Ugo Ojetti e Giuseppe Prezzolini. In tutto circa trecento persone da ogni parte d’Italia. Vi fu convergenza sulla sconfessione dei vecchi partiti politici e sulla proclamazione della completa autonomia della Lega per il Rinnovamento. Si previde la possibilità di presentare candidati propri alle prossime elezioni e la costituzione di comitati locali, ribadendo la necessità di una ferrea disciplina per consentire la più ampia libertà nella lotta politica contro l’«oligarchia parlamentare e giolittiana » in vista di una riforma radicale della pubblica amministrazione. L’ipotesi avanzata era quella di un decentramento legislativo che delegasse ogni funzione produttiva alla giurisdizione di parlamenti settoriali (dell’agricoltura, dell’industria, del lavoro, del commercio, dei lavori pubblici). La speranza della Lega si appuntava in uno Stato che si ponesse come coordinatore delle attività economiche e morali dei gruppi di cittadini legati da comuni interessi. La Dichiarazione dei principî della Lega fu preparata dallo stesso Salvemini. Tra i vari punti, in politica interna figuravano il suffragio universale esteso alle donne, la rivendicazione del collegio plurinominale e della rappresentanza proporzionale, la lotta contro la reazione di destra e i tentativi rivoluzionari di sinistra, la guerra all’oligarchia finanziaria rappresentata dai trusts industriali e bancari, e l’appoggio al liberismo doganale. In politica estera, tra l’altro, si propugnava il pieno sostegno alla Società delle Nazioni, il riconoscimento del diritto all’indipendenza per tutti i popoli capaci di autogovernarsi, la riduzione progressiva delle barriere doganali, il disarmo controllato dalla Società delle Nazioni, l’obbligatorietà dell’arbitrato nelle controversie internazionali, l’abolizione dei trattati segreti ecc. La Lega per il Rinnovamento non radunò molti iscritti e quando a Roma, nel settembre del 1919, si tenne un secondo convegno per decidere la partecipazione alle elezioni, il pubblico fu scarsissimo. Si stabilì allora di appoggiare alcune candidature di aderenti alla Lega o di affini nelle liste dei democratici interventisti o in quelle combattentistiche. Salvemini si presentò candidato per il partito dei Combattenti nel collegio di “Bari delle Puglie”, che copriva l’intera provincia barese, inglobando gli antichi collegi di Bari, Modugno, Altamura, Bitonto, Conversano, Corato, Gioia del Colle, Molfetta, Monopoli, Acquaviva delle Fonti, Andria e Minervino Murge. Uno dei più gravi problemi del primo dopoguerra fu il carovita (i prezzi fra il 1913 e il 1918 si erano quasi quadruplicati) e il settimanale dell’Associazione Nazionale Combattenti di Bari Adunata!, rifiutando lo sciopero generale bolscevico e il controsciopero nazionalista, ma appoggiando il sindacalismo socialista, promotore dell’imponente sciopero barese del 5 luglio 1919, affiancò espressamente le agitazioni contro il caroviveri in un articolo del 27 luglio. Il giorno dopo Salvemini da Firenze scriveva a Tommaso Fiore, vicepresidente dell’Associazione combattentistica di Altamura: «Una unione fra unitari e combattenti creerebbe un magnifico movimento, in cui i combattenti darebbero le organizzazioni e una metà dei candidati; noi [dell’Unità] daremmo il programma, le simpatie dei contadini, e una posizione nazionale. […] Avendo già lavorato in due collegi (Molfetta e Bitonto), in cui raccoglierei senza dubbio almeno 10.000 voti, ed essendo sicuro di raccogliere molti altri voti di qua e di là in tutta la provincia, sono sicuro di riuscire anche se mi presento solo. Ma sono stanco di lottare da solo. Ho voluto la proporzionale anche perché essa costringe elettori e candidati a classificarsi in partiti. E sento il dovere di agire in questo senso, anche se ciò deve costarmi maggiore fatica». E infatti, già verso la fine di settembre Salvemini si sentiva «esaurito», «stanco da morire », e meditava di cedere la conduzione dell’Unità all’amico Umberto Zanotti Bianco, sapendo di doversi muovere spesso in ottobre tra Bari, Roma e Firenze e di andare incontro a un’estenuante battaglia elettorale. Il 29 settembre fu annunciato lo scioglimento della Camera, fissando le elezioni politiche per il 16 novembre. In settembre il comitato pro Salvemini, diretto dai docenti universitari Carlo Maranelli e Gino Luzzatto con l’avv. cap. Paolo Lepanto Boldrini, inviava da Bari ai lettori dell’Unità una lettera circolare per una raccolta di fondi per le spese elettorali. Quale fosse lo stato d’animo dello storico in prossimità delle elezioni, lo documenta una missiva scritta a Bari, il 3 ottobre 1919, al geografo repubblicano Arcangelo Ghisleri: «la tua lettera mi raggiunge qui, dove sono incatenato dalle volgarità, e dagl’intrighi, e dai trabocchetti della preparazione elettorale. E mi fa sentire più angoscioso il rimpianto, che mi accompagna sempre, dei miei studi […]. Ma specialmente in un momento come questo, non mi sento in diritto di abbandonare il terreno della lotta politica: in questa provincia, che i nazionalisti e i mussoliniani hanno cercato d’infettare, io ho oggi un dovere da compiere per le idee, che difendo accanitamente da cinque anni. […] Il guaio è che non sono più giovane. I 46 anni cominciano a pesarmi; dopo un’ora di discorso in piazza, sono un cencio. Non posso fare più di tre comizi al giorno!». Tra i più ostinati contendenti di Salvemini vi era il socialista ufficiale Filippo D’Agostino, che poi sarebbe passato al comunismo e all’antifascismo. Il trentaquattrenne ferroviere di Gravina si sforzava di seguirlo in tutti i comizi, disturbandolo e cercando d’impedirgli di parlare. Ma Salvemini sapeva tenergli testa e nonostante la stanchezza, continuò la propaganda elettorale con energia indomabile. Il 5 ottobre, insieme all’avvocato barese Nicola Favia, delegato regionale dei Combattenti, prima tenne un imponente comizio a Turi, dove la popolazione, ribellandosi dall’8 al 10 agosto, aveva costretto alle dimissioni un fazioso regio commissario gradito al moderato Vito Luciani, deputato giolittiano di Acquaviva delle Fonti. Poi, nel pomeriggio ne tenne un altro, affollatissimo, con Favia a Molfetta nell’atrio di San Domenico. Parlò per più di un’ora e mezzo, difendendosi dalle accuse di quanti lo tacciavano di essere un guerrafondaio e un rinunciatario, e tratteggiando l’opera da intraprendere per stabilire un regime di pace in Italia senza sperequazioni tra Nord e Sud, i cui contadini avevano versato il più alto contributo di sangue durante la guerra. Accennò anche alle pensioni di vecchiaia, un vero bluff per gli operai meridionali e una chimera per le casalinghe del Sud, e attaccò la politica protezionistica del governo, favorevole alle industrie siderurgiche e chimiche settentrionali, ma sfavorevole all’agricoltura meridionale. Il 14 ottobre a Molfetta la Società operaia, le cooperative dei muratori, falegnami e pescatori, le leghe dei contadini, pastai, “cavamonti”, bottai e scalpellini, apprese le smentite di Salvemini alle «infami calunnie» di imboscamento propalate da «gente disonesta e venduta», espressa simpatia a Favia, aderirono alla candidatura di Salvemini proclamata dai combattenti. Al governo stavolta non c’era Giolitti, ma Nitti, che, come presidente del Consiglio e ministro degli Interni, assicurò un corretto andamento elettorale all’Italia e ai candidati. Solo qua e là la lotta elettorale degenerò in «forme di intimidazioni incivili a causa dei massimalisti e degli spartachisti », come ebbe a scrivere Salvemini. E nel Sud non mancò chi fece di nuovo ricorso ai “picciotti”, come in passato. A Bitonto il 17 ottobre una rissa tra opposte fazioni sfociò nel ferimento mortale di Nicola Ungaro, detto “Re Nicola” o “il Tignoso”, il capo dei mazzieri di Domenico Cioffrese del 1913. I carabinieri arrestarono dei sostenitori di Salvemini per le mene dello stesso Cioffrese, che a Bitonto nel 1919 aveva creato una sezione di combattenti subito sconfessata dall’Associazione nazionale. Salvemini, preoccupato dalla faziosità della prefettura e delle forze dell’ordine in quegli incidenti sanguinosi, il 18 e il 20 ottobre telegrafò al presidente Nitti chiedendo l’invio a Bitonto di «autorità estranee alle lotte locali» per la tutela dell’ordine e richiamando il ministro alle sue responsabilità. Nitti gli rispose il 19 e 20 ottobre affermando di aver telegrafato al prefetto di Bari per la punizione dei responsabili e di aver inviato a Bitonto un ispettore generale di pubblica sicurezza per le indagini. Il richiamo del presidente al prefetto Alfredo Ferrara diede i suoi frutti e il 26 ottobre Salvemini tenne comizi ad Altamura e Terlizzi, città malfamate per le violenze elettorali, senza che ci fosse nemmeno un fischio contrario. Altri comizi Salvemini, affiancato dall’avv. Favia, li tenne a Valenzano, Montrone, Casamassima, Noicattaro e Rutigliano. A Canosa, poiché era stato disturbato il comizio di Salvemini e Patruno, i combattenti impedirono quello del deputato Raffaele Cotugno aggregato ai liberal-democratici. Un grande comizio combattentistico si tenne a Bari il 9 novembre in piazza stazione. La lista dei Combattenti della Terra di Bari esordì con un programma largamente ispirato alla Dichiarazione della Lega per il Rinnovamento e pubblicato su L’Unità del 30 ottobre con la firma di Favia, capolista, di Salvemini, del capitano medico barlettano Michele Lamacchia, dell’agronomo e meridionalista lombardo Eugenio Azimonti, del capitano medico Alessandro Guaccero di Palo del Colle, del maggiore medico Vincenzo Orlandi, del geometra Nicola Luigi Barbera di Minervino Murge e dell’avv. Antonio Tucci. Agli otto firmatari fu aggiunto nella lista come nono candidato il soldato contadino Giovanni Franchini. Azimonti, amico di Salvemini, e Orlandi, provenivano dalla Lega per il Rinnovamento. Favia con altri stilò Il Programma dei combattenti in Provincia di Bari, che fu stampato a Firenze. Non mancarono gravi scorrettezze alle spalle di Salvemini. Alessandro Guaccero, ad esempio, durante la campagna elettorale sguinzagliò i suoi galoppini per fargli togliere i voti di preferenza accusandolo di essere «bolscevico» e pagò affinché fossero eliminate le schede con i nomi di Salvemini e Azimonti. L’ortopedico Guaccero passerà poi al fascismo e, versando qualche “tangente”, nel 1929 verrà nominato senatore. In Terra di Bari la prefettura, la massoneria e il Corriere delle Puglie appoggiarono la concentrazione liberale democratica (lista “Torre”). Ad essa apparteneva anche il candidato ministeriale Domenico De Facendis, nipote di Cioffrese, che in una sezione di Bitonto fece intervenire i suoi mazzieri a scopo intimidatorio e poi i carabinieri, che con una carica brutale allontanarono i contadini in attesa di votare, ma che in parte poi tornarono alle urne. Salvemini per la propaganda, oltre che dell’Unità, si servì del «Giornale dei combattenti e dei proletari del Barese» La Puglia del popolo, che uscì in numeri di saggio il 12 e il 19 ottobre, il 2 e 9 novembre, diretto a Bari da Paolo Boldrini e stampato a Molfetta dalla tipografia di Michele Conte, imparentato con Francesco Picca. Inoltre lo storico fece diffondere l’opuscolo Gaetano Salvemini, scritto dal deputato belga Jules Destrée e tradotto dal francese da Tommaso Fiore, che appoggiò validamente la candidatura di Salvemini nel movimento combattentistico di Altamura, folto di contadini. D’altro canto il professore di Molfetta fu osteggiato con virulenza a Bari dai nazionalisti dannunzianeggianti locali, che col loro settimanale L’Adriatico contrastarono tutte le formazioni politiche in lotta e soprattutto la lista «dei cosiddetti combattenti che ha per maggiore esponente lo jugoslavo Salvemini». Lo storico fu avversato anche a Molfetta dai cattolici popolari e dai combattenti dissidenti di destra aizzati dall’antico rivale Pietro Pansini. Questi ultimi tacciarono di «antifiumanità » il coautore «della seconda edizione [del 1919] dell’ignobile libro salveminiano La questione dell’Adriatico», riesumando, col titolo di Il pessimo italiano Salvemini, una parte dell’articolessa recensoria di Attilio Tamàro, pubblicata il 15 maggio 1918 sulla Rassegna italiana del dalmatomane Tommaso Sillani. E, per rincarare la dose, diffusero pure un volantino che accusava velenosamente Salvemini di diserzione: «È vero professore che il 9 novembre 1916 raggiungeste su Fogliano con i complementi fiorentini, il Comando del 121° Fanteria mentre questo era in linea? È vero signor volontario che dopo di essere stato in una buca tre giorni siete uscito soltanto per darvi ammalato? È vero professore che un aspirante medico dopo avervi attentamente visitato non vi riconobbe ammalato malgrado le vostre insistenze? È vero ancora signor volontario, che per l’ostinatezza del medico a non volervi riconoscere ammalato voi ve la squagliaste, invece di andare in linea, giacché la vostra compagnia dava in quel giorno il cambio alla 1a? È vero che per la vostra fuga foste denunziato? Siccome ci occorrono dei dati per le note caratteristiche, preghiamo il professore volerci indicare come fu risolta la denunzia e dove andò a finire il volontariato. A Firenze forse?». I cattolici popolari, a loro volta, riesumarono lo spauracchio del Salvemini materialista e divorzista. Infatti in un volantino scrissero: «il programma Salveminiano dei combattenti ha qualche diversità ma è anch’esso inspirato da un materialismo storico figlio legittimo del Liberalismo che noi non possiamo accettare». In un altro manifestino, poi, firmandosi “I Ben Pensanti”, commentarono una frase che Salvemini avrebbe pronunciato a Molfetta in piazza S. Angelo: «La massoneria è la cosa più schifosa che ha creata l’umanità come il Partito Popolare. Quindi quelli del partito popolare italiano non possono dare il voto a Salvemini, sì perché atrocemente offesi e vituperevolmente Condannati da costui, sia perché Salvemini ha Sublimato il divorzio, condannato dalla Chiesa. Di conseguenza quelli del Partito Popolare Italiano che lo voteranno, non sono che Salveminiani camuffati sotto altre spoglie per tramare il tradimento». Le elezioni politiche del 16 novembre 1919 per la XXV legislatura, grazie al sistema della rappresentanza proporzionale, tolsero la maggioranza ai raggruppamenti della destra e della sinistra storica. Il Psi divenne il primo partito italiano con 1.834.792 voti e 156 deputati, seguito dal neonato Partito Popolare con 1.167.354 voti e 100 seggi. I socialisti riformisti mantennero i precedenti 27 seggi. Invece i liberali e i democratici di destra, centro e sinistra costituzionale conquistarono 179 seggi contro i 310 della precedente legislatura. I radicali calarono da 73 a 38 seggi; i repubblicani da 17 a 9. Le liste dei Combattenti, presentate in 18 collegi, con 191.625 voti furono premiate con l’elezione di 17 candidati. Altri loro 15 candidati vennero eletti in liste concordate con altri partiti. Non ottennero nessun seggio i Fasci di combattimento di Mussolini, che cooptarono addirittura Arturo Toscanini e scesero in lizza solo a Milano, dove raggranellarono appena 4.795 voti contro i 74.000 dei popolari e i 170.000 dei socialisti. I massimalisti pensarono che la «grande ora», come nella Russia dei soviet, si stava avvicinando, ma il 17 novembre due uomini di Mussolini lanciarono una bomba contro un corteo socialista che festeggiava il trionfo elettorale, ferendo in modo grave nove persone. I socialisti non seppero trarre le logiche conclusioni dall’attentato, come non avevano saputo trarle dopo l’incendio della sede dell’Avanti! a Milano il 15 aprile precedente da parte di arditi e fascisti. Poiché un biografo generalmente attento come Enzo Tagliacozzo ha scritto erroneamente che Salvemini «riuscì il secondo fra gli eletti nell’intera provincia con 16.000 voti di preferenza» e d’altra parte sono scarsamente noti i risultati elettorali precisi dei dodici eletti per la circoscrizione di Bari, ne riporto qui di séguito i dettagli. Ecco l’elenco dei deputati riusciti: 1° l’avvocato di Rutino (Salerno), ex socialista, prof. Giovanni Lombardi per il Partito liberale democratico (Lista F, contrassegno: Una Torre, con 33.368 voti di lista, 12.408 preferenze e 416 voti in altre liste, per un totale di 46.192 suffragi); 2° il pubblicista siciliano Arturo Vella per il Partito socialista ufficiale (lista B, contrassegno: Martello e falce entro corona di spighe, con 26.545 voti di lista, 18.918 preferenze e 100 voti in altre liste, per un totale di 45.563 suffragi); 3° Gaetano Salvemini per il Partito dei Combattenti (lista A, contrassegno: Un elmetto, con 26.519 voti di lista; 17.088 preferenze e 743 voti in altre liste, per un totale di 44.350 suffragi); 4° il medico siciliano Nicola Barbato per il Partito socialista ufficiale (con 26.545 voti di lista, 15.043 preferenze e 321 voti in altre liste, per un totale di 41.909 suffragi); 5° l’avvocato barese Vito Luciani per il Partito liberale democratico (con 33.368 voti di lista, 5.730 preferenze e 2.438 voti in altre liste, per un totale di 41.536 suffragi); 6° l’avvocato radicale barese Paolo Lembo per il Partito liberale democratico (con 33.368 voti di lista, 5.584 preferenze e 2.433 voti in altre liste, per un totale di 41.385 suffragi); 7° l’avv. Nicola Favia per il Partito dei Combattenti (con 26.519 voti di lista, 9.105 preferenze e 227 voti in altre liste, per un totale di 35.851 suffragi); 8° il medico chirurgo Alessandro Guaccero per il Partito dei Combattenti (con 26.519 voti di lista, 6.310 preferenze e 2.004 voti in altre liste, per un totale di 34.833 suffragi); 9° l’avvocato ruvese Antonio Marino per il Partito popolare italiano (Lista D, contrassegno: Scudo crociato col motto «Libertas», con 20.889 voti di lista, 5.710 preferenze e 155 voti in altre liste, per un totale di 26.754 suffragi); 10° l’avvocato andriese Vincenzo Ursi per il Partito popolare italiano (con 20.889 voti di lista, 4.182 preferenze e 133 voti in altre liste, per un totale di 25.204 suffragi); 11° l’avvocato Gennaro Venisti, liberale di Capurso, per il Blocco democratico (Lista C, contrassegno: Leone di San Marco, con 16.055 voti di lista, 3.838 preferenze e 856 voti in altre liste, per un totale di 20.749); 12° l’avvocato altamurano Pasquale Caso per il Partito liberale (Lista E, contrassegno: Stella a cinque punte, con 11.123 voti di lista, 3.936 preferenze e 386 voti in altre liste, per un totale di 15.445 suffragi). Quest’ultimo era il famigerato deputato giolittiano che il 27 aprile 1919 era stato la causa dell’incendio al municipio di Altamura descritto dal meridionalista Tommaso Fiore. Salvemini, quindi, non fu il secondo, ma il terzo degli eletti con oltre 17.000 preferenze per il collegio di Bari. Forte della sua notorietà e del suo carisma, col favore degli elettori balzò al primo posto fra i Combattenti, surclassando il capolista Favia, che, al dire dello storico, sarà poco dopo «travolto in uno scandalo clamoroso, come complice di un briccone che vendeva cacio pecorino sul mercato nero». L’àscaro giolittiano Pietro Pansini, che aveva battuto Salvemini a Molfetta nel 1913 con la protezione della prefettura, presentatosi sei anni dopo nella lista “Leone”, che accozzava repubblicani, massoni e liberali, con una “cifra individuale” di 19.398 suffragi, non fu eletto. Anche il clinico e benefattore Eduardo Germano, confluito nella lista “Torre”, che radunava liberali conservatori e radicali filogovernativi, con un totale di 36.043 voti, subì la stessa sorte. Peggio ancora andò per Cioffrese, il mandante dei violentissimi mazzieri di Bitonto del 1913, che raggranellò soltanto 12.650 adesioni totali con la lista conservatrice “Stella d’Italia”. Non ce la fece nemmeno il “disturbatore” D’Agostino, la cui “cifra individuale” di 28.770 voti lo rese il sesto dei non eletti tra i compagni di “Falce e martello”. Morirà tragicamente nel lager di Mauthausen nel 1944 ucciso a bastonate dai suoi aguzzini. © Riproduzione riservata
Autore: Marco Ignazio de Santis