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Risorgimento e identità nazionale
15 marzo 2011

Il Risorgimento – si sa – fu il processo di rinnovamento culturale, politico e sociale che portò alla formazione dello Stato unitario italiano. La prima fase del Risorgimento si chiuse nel 1861 con la proclamazione del Regno d’Italia. Le tappe finali furono la liberazione del Veneto nel 1866 e la presa di Roma nel 1870. Per i nazionalisti e molti democratici, tuttavia, l’ultima campagna per l’indipendenza fu la prima guerra mondiale, che nel 1918 riconsegnò all’Italia Trento e Trieste. Si legge che il Risorgimento fu una rivoluzione nazionale borghese e urbana. Fu senz’altro borghese, perché i protagonisti risorgimentali, moderati o democratici, furono soprattutto liberi professionisti, commercianti, impiegati e professori. Fu urbana, in quanto in diverse città, da Palermo a Milano, da Brescia a Bologna, da Roma a Livorno, vasti strati della popolazione, soprattutto artigiani e operai, parteciparono alla lotta per l’indipendenza, stimolati dall’impulso alla libertà o da un sentimento nazionale più o meno consapevole. Le masse contadine, purtroppo, rimasero estranee al fenomeno. Lo stesso Garibaldi si rammaricò più volte di non aver mai avuto dei contadini tra le sue decine di migliaia di volontari nelle varie imprese risorgimentali. Il primo problema che si pone è se il Risorgimento sia stato veramente una “rivoluzione”. Se pensiamo a uno sconvolgimento violento, rapido e illegale come la Rivoluzione francese del 1789-92 o la Rivoluzione bolscevica del 1917, è evidente che il Risorgimento italiano non fu una rivoluzione. Ma è pur vero che i moti rivoluzionari ispirati da Mazzini innescarono il processo di unificazione. A questo proposito Gaetano Salvemini, nel saggio La rivoluzione del ricco, è chiarissimo: il «regime unitario, secolarizzato e rappresentativo [della monarchia sabauda] fu certo preparato e favorito da fermenti rivoluzionari, che, se avessero potuto, avrebbero rovesciato tutte le monarchie senza eccezione. E non c’è dubbio che più volte i gruppi monarchici e conservatori furono costretti dai gruppi rivoluzionari a prendere iniziative, di cui volentieri avrebbero fatto a meno. Negare ai repubblicani siffatta funzione stimolatrice sarebbe falsificare la storia del Risorgimento italiano. Ma resta sempre il fatto che i repubblicani non riescirono mai a fare una rivoluzione vittoriosa. I gruppi monarchici non furono mai sopraffatti». Dopo che Garibaldi a Teano consegnò nella mani di Vittorio Emanuele II il Sud appena conquistato, l’unità italiana cominciò nel peggiore dei modi con quella guerra civile che fu definita “lotta al brigantaggio” (1860-64) con le atroci stragi di Pontelandolfo e Casalduni o l’orrore del lager di Fenestrelle. La prima fase del Risorgimento, comunque, terminò entro la cornice del liberalismo moderato ispirato da Cavour, che creò il nuovo Stato unitario costituzionale sotto la dinastia dei Savoia, addomesticando con sottile arte diplomatica la “rivoluzione” risorgimentale. Si creò, su tali premesse, una forte base sociale minoritaria, fondata da un lato su gruppi borghesi dediti ad attività economiche di tipo capitalistico, specie in Nord Italia, e dall’altro su latifondisti perlopiù di estrazione nobiliare, soprattutto in Sud Italia, pronti a scendere a patti con la “rivoluzione”, purché essa non superasse certi limiti e garantisse l’assetto vigente della distribuzione fondiaria. Insomma, l’Italia nata dal Risorgimento, popolata nel 1861 da oltre 22 milioni di abitanti (senza Venezia e Roma), confermava la profonda spaccatura fra il “paese legale” (il 7% dei maschi adulti ammessi a votare) e il “paese reale” (la stragrande maggioranza delle plebi rurali e urbane misere e analfabete), spaccatura già emersa nel periodo delle lotte risorgimentali. Un altro dislivello fu rappresentato dallo squilibrio tra Nord e Sud, acuitosi dopo l’unità d’Italia e denunciato dagli studiosi della “questione meridionale”. Dopo Pasquale Villari, che con le Lettere meridionali nel 1878 fece conoscere agli Italiani le condizioni di miseria materiale e morale del Sud, il socialista Ettore Ciccotti nel 1898 scriveva: «Il Mezzogiorno, più che tutto il resto d’Italia, soffre a un tempo dello sviluppo dell’economia capitalistica e dell’insufficienza di questo sviluppo. Da ciò hanno origine il suo malessere economico e i conseguenti fenomeni morali e politici anormali ». L’anno dopo il repubblicano di Marco I. de Santis Centro Studi Molfettesi Garibaldi e Vittorio Emanuele II a Teano T U R A 23 15 marzo 2011 Napoleone Colajanni denunciava: lo Stato è il «grande assenteista del Mezzogiorno e delle isole. Vi prende sotto forma di imposta, e vi restituisce poco sotto forma di spesa». Negli stessi anni, dopo il cruento soffocamento dei tumulti contro il caropane del 1898, il socialista Salvemini diagnosticava le tre malattie del Mezzogiorno: «La prima malattia non è un privilegio del solo Meridione, ma è comune a tutta l’Italia; in questo, almeno in questo, tutti gl’Italiani sono davvero fratelli. È la malattia dello Stato accentratore, divoratore, distruttore; dello Stato che spende i nove decimi delle sue entrate per pagare gl’interessi dei suoi debiti e mantenere gl’impegni derivanti da una politica estera dissennata; dello Stato in cui il potere esecutivo, per avere le mani libere nel dirigere la politica estera e la politica militare senza il controllo incomodo del potere legislativo, è obbligato ad appoggiarsi su maggioranze parlamentari corrotte e fittizie, rappresentanti solo una parte minima della popolazione, le quali mercanteggiano di giorno in giorno la loro adesione alla politica antistatutaria, e ottengono in cambio i dazi sul grano, le tariffe protettrici, i premi alla marina mercantile, la immunità per i delitti bancari, ecc.; è la malattia dello Stato, il quale, divenuto mancipio di un pugno di affaristi e di parassiti, deve opprimere con un sistema tributario selvaggio tutte quelle classi, che non prendon parte al mercimonio fra potere esecutivo e maggioranze parlamentari; ed è quindi obbligato a ricorrere ogni giorno alle repressioni sanguinose per difendersi dal malcontento, che lo investe da ogni parte […] La seconda malattia è la oppressione economica, in cui l’Italia meridionale è tenuta dall’Italia settentrionale. […] L’alta Italia possiede il 48% della ricchezza totale e paga meno del 40% del carico tributario; l’Italia media possiede il 25% e paga il 28%; l’Italia meridionale possiede il 27% e paga il 32%. Nel dare, il Meridione è all’avanguardia, nel ricevere è alla retroguardia […] L’Italia meridionale ha, nel seno dell’Italia una, non solo le funzioni sopra enumerate, ma deve avere anche quella di servire di mercato per lo smercio dei prodotti settentrionali […] Le due malattie, finora da noi fuggevolmente descritte, sono di origine recente; cominciano appena nel ’60. La terza invece è antichissima ed è tutta speciale del Mezzogiorno. È la struttura sociale semifeudale, che è di fronte a quella borghese dell’Italia settentrionale un anacronismo; […] che impedisce la formazione di una borghesia con idee e intendimenti moderni; che permette solo la esistenza di una nobiltà fondiaria ingorda, violenta, prepotente, absenteista; di una piccola borghesia affamata, desiderosa di imitare le classi superiori […] e finalmente di un enorme proletariato, oppresso, disprezzato da tutti, privo di qualunque diritto, servo nella sostanza se non nella forma». A questi meridionalisti si affiancò il radicale Francesco Saverio Nitti, che con Nord e Sud (1900), analizzando minutamente la ripartizione territoriale delle entrate e delle spese dello Stato italiano, mise in luce le origini del dislivello economico e sociale tra Settentrione e Meridione e distrusse il mito del parassitismo meridionale. Un altro problema da considerare è se il Risorgimento sia stato davvero una “rivoluzione tradita” o meno. I mazziniani parlarono piuttosto di “rivoluzione incompiuta”, perché non si era creata la repubblica. Anche la maggior parte dei garibaldini non voleva la monarchia sabauda, a causa del comportamento “sleale” degli alti quadri politici e militari, a cominciare, nel 1862, dalla carcerazione di 123 reduci dei Mille radunatisi a Sarnico e dall’inquietante episodio di Aspromonte, dove vi furono morti e feriti tra i volontari e i regi, vennero fucilati sul posto i “disertori” passati con Garibaldi e lo stesso eroe fu colpito da due pallottole, una “stanca” alla coscia sinistra e una “viva” nel piede destro. Chi parlò con più incisività della “rivoluzione tradita” fu uno scrittore nazionalista deluso dall’Italietta trasformista di Depretis e di Giolitti, che proclamò questa tesi nei libri La lotta politica in Italia (1892) e La rivolta ideale (1908), cioè Alfredo Oriani, additato da Mussolini come precursore del fascismo. Si tratta tuttavia di un’affermazione basata su di un equivoco. Lo spiega nuovamente Salvemini: «Nel 1853, Giuseppe Ferrari scrisse che mentre in Francia si domandava la rivoluzione del povero, in Italia non era ancora avvenuta la rivoluzione del ricco. Fra il 1859 e il 1870 avvenne in Italia appunto la rivoluzione del ricco. Non c’è senso a parlare del Risorgimento italiano come di una rivoluzione “tradita”. Quale rivoluzione sarebbe stata “tradita”? Quella del ricco? No, perché riuscì. Quella del povero? No, perché nessun ricco la promise, e solamente un certo numero di intellettuali ne parlò senza riuscirvi mai a farla. […] Fra il 1848 e il 1870 la rivoluzione del ricco era in Italia la sola, di cui la classe capace di governare sentisse il bisogno. Né il brigantaggio, né i tumulti popolari (come i moti contro il macinato [del 1869]) ebbero mai nulla di comune con quello che è stato di recente designato come “socialismo risorgimentale”». Il cammino dell’unità italiana fu dunque difficile e doloroso, tuttavia contrassegnato da lievi e graduali progressi anche per gli strati popolari. Aggiunge infatti Salvemini: «il Risorgimento italiano non riescì utile solo ai ricchi: anche i poveri cominciarono a diventare meno poveri. Esso non fu una rivoluzione tradita: fu un rinnovamento, assai faticoso e penoso, quale era possibile in una patria quale era l’Italia». Questo chiarimento è indispensabile, perché il mito del “primo” Risorgimento come “rivoluzione tradita” fu ereditato sia dai fascisti, sia dagli azionisti, attraverso Piero Gobetti, sia dai comunisti, attraverso Antonio Gramsci. Se la disfatta di Caporetto, dovuta a Pietro Badoglio, e la riscossa del Piave, determinata dal valore di tante schiere di contadini e operai in divisa, ricompattarono il popolo italiano attorno al nome sacro della patria, non a caso si è parlato di “secondo” Risorgimento per la guerra partigiana combattuta tra il 1943 e il 1945 per la liberazione dell’Italia dalle truppe nazifasciste. In séguito ad essa lo Statuto albertino è stato sostituito nel 1948 dalla Costituzione repubblicana, che pur bisognosa di qualche ponderato aggiornamento, rimane ancora la carta di garanzia delle libertà individuali e civili e insieme il quadro d’indirizzo per i valori e i fini sociali cui il legislatore si deve ispirare. A tutt’oggi, a centocinquant’anni dalla proclamazione dell’unità d’Italia, con un’identità nazionale così delineata, ricca di luci sfolgoranti e ombre assai cupe, nel male e soprattutto nel bene, l’unità del Paese è messa a rischio non tanto dai rigurgiti razzistici, quanto e soprattutto dall’insipienza di certa classe politica, dalle tentazioni secessioniste e da pacchiane mistificazioni storiche come l’invenzione della Padania. Se per gli interventi pubblici nel Mezzogiorno la metodologia più idonea può forse ravvisarsi in un arduo equilibrio tra Stato e Mercato, per l’Italia intera da un lato bisogna salvaguardare e valorizzare seriamente lo straordinario patrimonio naturalistico, storico, artistico e culturale radicato nei variegati territori e paesaggi della Penisola, nella civiltà italica, magno-greca e romana, nell’arte, nella musica, nella lingua e nella letteratura italiana, dall’altro occorre uno sforzo immane ed eroico della società civile per una riqualificazione della politica locale e nazionale che porti alla selezione di élites meno avide e democraticamente più responsabili, per superare l’umiliante decadenza dell’età berlusconiana, investire nell’istruzione pubblica dei giovani, favorire la ricerca e il lavoro, frenare la “fuga dei cervelli”, tutelare le madri e gli anziani, debellare le mafie e uscire dal disastro ambientale con più fondate aspettative di miglioramento per le generazioni future.

Autore: Marco I. de Santis
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