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Riformismo unitario, senza ambiguità Dibattito sul centro-sinistra
15 settembre 2001

Molfetta non è una città dalla immediata interpretazione politica. Fatti, colori, storie, volti, retroscena, suoni, vizi e virtù si mescolano e ricompongono dando luogo ad una singolarissima vicenda politica. Eppure, immersa nelle sue peculiarità e divisa al suo interno da un confine mai troppo netto, riesco ad immaginarne solo l’impoverimento se lasciata alle proprie derive civiche ed alle deformazioni dell’attuale sistema politico. Vorrei mettere ordine ai miei pensieri ed esercitare una riflessione su questi temi, consapevole della difficoltà dell’analisi, soprattutto dopo aver rigettato la via dei capri espiatori. Intanto credo che una serie di opportunità elettorali e di scorciatoie strategiche non abbiano permesso fino ad ora un corretto esame delle cose. Per proseguire nel ragionamento occorre fare due considerazioni preliminari. Primo. Al contrario di quanto largamente ritenuto, io credo che se l’Ulivo prende più voti dei singoli partiti, nella misura cui noi siamo abituati, è per una sua fragilità congenita. Non per suoi meriti, non perché raccoglie “il valore aggiunto”. Semplicemente perché le forze politiche che compongono la coalizione sono più deboli. Secondo. E’ inverosimile pensare in un paio di cicli elettorali di estirpare mali e consuetudini radicatisi nella storia del mezzogiorno tutto e, quindi, della nostra città, in decenni di governi accomodanti, senza porsi il problema di una reale emancipazione culturale e politica della base sociale e dei nuovi ceti dirigenti. Come se bastasse scambiarsi parole d’ordine, accendere gli entusiasmi in campagna elettorale e cercare di amministrare bene per sistemare ogni cosa. Non riesco a trovare vie maestre sganciandomi da questi due presupposti. Ritengo che il punto focale della riflessione stia proprio qui. Dal ’93 – anno di crisi profonda di tutto il sistema politico italiano – ad oggi il centrosinistra molfettese ha vissuto una fase di “mobilitazione permanente”, ma la mobilitazione è stata in realtà solo parziale. Ci siamo abituati agli slanci emotivi e d’orgoglio, a condividere battaglie campali contro “i lupi e gli squali”, ad un coinvolgimento che altrimenti non sarebbe stato mai possibile. Ci siamo abituati all’idea che se non si fosse scesi in campo per “pretendere di cambiare” avremmo perso un treno con la storia. E’ stato così. E’ vero. Però ci siamo anche convinti che questo fosse “partecipazione”. Forse lo è stato. Partecipazione alle manifestazioni, partecipazione alle sfilate di parole, partecipazione alle semplificazioni di piazza. Questo si, ma non partecipazione politica. Quella che è stata, credo, l’esperienza amministrativa più avanzata nella storia della nostra città, ha trovato l’alveolo in un movimento di opinione a volte integralista, a volte sbadato, troppo spesso monocromo, ma sicuramente superficiale. Inevitabilmente l’icona della politica come cosa sporca e corrotta, la semplificazione grossolana – portata fino all’estremo – tra buoni e cattivi – anche se non si trattava solo di una trovata “pubblicitaria” – e, soprattutto, la campagna scientifica di demonizzazione dei partiti politici, baluardi arcaici solo di interessi particolari e spartizioni scellerate, non poteva che suggerire all’opinione pubblica la via dell’antipolitico. Il ceto dirigente prestato alla politica. Era questa l’idea dominante e, direi, vincente. Dietro tutto questo, è chiaro, non c’è l’estemporaneità del caso, ma una coerente visione. Se i lettori avranno la pazienza di approfondire l’analisi si renderanno conto di come quello sviluppatosi a Molfetta fosse un modello – esaltato dal sistema elettorale – dove il “movimentismo” - simulacro della “società civile” – si intrecciava con le carcasse dei partiti e con le “lobbies positive” – come le ha definite qualcuno –, producendo un progressivo accentramento prima culturale e poi politico in chi meglio interpretava questa sintesi. Per utilizzare, ma in senso lato, le categorie dello studioso norvegese Stein Rokkan, chi meglio interpretava le istanze del centro della coalizione. All’interno di questo intreccio, tuttavia, era logico strumentalizzare il movimentismo in funzione propagandistica – interpretandone, comunque, il rigore morale –, sfumare le differenze tra i partiti – di fatto non percepibili ad occhio nudo – e preferire le vie amministrative tecnicamente più produttive, anche se lontane dal sentimento e dalla comprensione della città. Da qui nasce l’esaltazione della coalizione (ancor prima della nascita dell’Ulivo) come valore in sé. Come luogo dove tutti ci possono stare, ma in cui, di fatto, partecipazione e “radicamento” divengono elementi sempre più marginali. Dove politica per i più diventa campagna elettorale, o comitati per Tizio e per Caio. Tuttavia certi processi non avvengono nel vuoto e, forse, occorre comprendere bene come mai essi siano stati agevolati dal ceto politico partitico, salvo poi a più riprese lamentarsi per la mancanza di spazi e di autonomia politica. La verità è che a Molfetta non c’era e non c’è una sinistra vera. Non voglio sembrare sovversivo, né alimentare polemiche improduttive. Non dico che non c’è elettorato di sinistra, non dico che non ci sono intellettuali di sinistra. Semplicemente dico che fatico ad immaginare il partito di massa per antonomasia come un partitino di opinione. Questo stava diventando il PCI a Molfetta, questo sono diventati a Molfetta i DS - e Rifondazione -, questo rischiano di diventare in Italia. A questo la classe dirigente cittadina si è rassegnata, lacerazione dopo lacerazione. E’ ovvio che l’unica strada, che rimaneva per galleggiare ancora, era quella del treno più in voga. Magari conducendone il percorso, magari illudendosi di capitalizzarne la cultura. Ma i risultati sono sotto gli occhi di tutti: 3,57%. Non c’è base sociale, non c’è radicamento. Tutto il resto diviene superfluo rispetto a questo. Tutto il resto può essere solo, come giustamente qualcuno diceva, trasfusione di sangue e tra moribondi, aggiungo io. Non basta gridare al clientelismo. L’assenza di moralità politica nasce dalla nostra assenza. Se la base sociale vota FI o centro destra è perché si illude che un sorriso in TV e in campagna elettorale serva di più del nostro distante pensare. Mi sembra di scrivere ovvietà, ma a quanto pare l’attacco netto a modelli alternativi, che tentano di dare risposte reali a questi problemi, perdura anche dopo il 13 maggio. Non si può vincere senza riorganizzare un radicamento sociale robusto e dinamico. Non si può vincere senza un Ulivo di partiti forti e dove ognuno conosce il proprio ruolo. Bisogna rimettersi in discussione, questo è chiaro. E’ paradossale, che alla fine di un ciclo, chi inizialmente si presentava come antitesi ai partiti, ora risieda nella organizzazione partitica più dinamica e radicata del centro sinistra. A mio parere è giusto che sia così, a condizione che anche le altre identità della coalizione trovino espressione. Parlo di identità, non nel senso di persone o sigle vuote, ma di culture, di organizzazioni collettive, di partiti. Soggetti che si pongano il reale problema della partecipazione politica e della trasformazione dei bisogni in risposte. E questo non è né scontato, né automatico. O perlomeno non lo è stato sino ad oggi. E’ per questo che valuto positivamente l’operazione della Margherita. Solo un centro forte, che fa chiarezza al suo interno – sui riferimenti sociali e culturali, come su quelli politici internazionali -, può permettere alla coalizione di crescere. E’ per questo che credo sia necessario nel tempo costruire un percorso tra tutti i partiti della sinistra – non antagonista – per dar vita ad un soggetto politico riformista unitario, ma senza ambiguità. Senza accozzare sigle fatte di ex, che fino ad un giorno prima non sono riuscite a trovare una candidatura a sindaco comune. Strutturando un progetto politico solido e moderno. Incontrandosi sulle questioni. Non serve un generico presenzialismo. La sinistra deve “rinascere”, ma non può che farlo dalle sue radici, dal suo intimo legame con la gente, con i lavoratori, con i bisogni, con la nostra terra e dalle risposte che saprà elaborare. Radicamento oggi significa riorganizzarsi ed organizzare il vecchio ed il nuovo. Radicamento oggi significa anche saper interpretare il linguaggio ed i movimenti dell’associazionismo, del volontariato sociale ed ambientalista, dei giovani, delle nuove aggregazioni sociali, astenendosi, però, dall’attribuire schemi prestabiliti. Rinascere significa oggi non solo avere le antenne dove non le avevamo più, ma anche rendere queste antenne soggetti decisori. Credo sia finito il tempo dei direttivi che non rappresentano nessuno. Non si tratta, quindi, della solita dicotomia tra partito e movimento. Si tratta della costruzione di una coalizione compiuta con all’interno un centro vero ed una sinistra vera, capaci di dialogare non solo tra loro. Non credo basti più solo governare. Oggi la sfida è di crescere con strategie e mete nuove, facendo tesoro della esperienza di governo e delle trasformazioni socio-politiche dal ’93 ad oggi, ma sapendo anche ricostruire ciò che troppo frettolosamente è stato scartato perché “inutile” e pesante zavorra del passato. Corrado Minervini _________________ Nella foto: Corrado Minervini
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