Ricavo le notizie biografiche da un’opera del nostro autore: Al paese di utopia Ediz. Leonardo da Vinci - Bari, 1978: Tommaso Fiore è nato ad Altamura, tra Bari e Matera, nel 1884, da una famiglia di operai. Si laureò in lettere a Pisa e fu subito colpito dalla situazione di arretratezza delle regioni del Mezzogiorno d’Italia rispetto a quelle del Settentrione. Intraprese così le prime lotte politiche per il loro riscatto, a fianco di Gaetano Salvemini. Di questo periodo sono le lettere a Gobetti, sulla Questione meridionale, lettere che, pubblicate più di vent’anni dopo da Laterza, in un volumetto dal titolo Un popolo di formiche, gli valsero il premio Viareggio. Durante il periodo fascista continuò clandestinamente la lotta, fu arrestato due volte e poi confinato a Ventotene. Nel frattempo tornò a dedicarsi agli studi letterari. Nel 1930 Laterza pubblicò un suo saggio su Virgilio, premiato dall’Accademia di Milano, e presso lo stesso editore lavorò alacremente a traduzioni di classici, saggi vari sulla crociana Critica ecc… Dopo la seconda guerra mondiale, oltre al già ricordato Un popolo di formiche, Fiore pubblicò presso le Edizioni dell’Avanti!, le impressioni di un viaggio in Polonia e, nel 1956, con Einaudi, Un cafone all’inferno, che riprendeva, in altra chiave, la sua infaticabile polemica meridionalista. Aggiungo, di mio, che egli ha insegnato latino e greco nel Liceo classico di Molfetta e che mio marito Giovanni Minervini è stato suo allievo. Il primo ricordo che ho di don Tommaso, risale al 1941 o ’42. Mia sorella Chiara andava a casa sua, a piazza Paradiso a Molfetta, per battere a macchina le sue ricerche su Tommaso Moro. Chiara aveva appena quindici anni e raccontava con meraviglia di questa casa, diversa dalle altre, dove c’erano molti libri, dove si beveva il tè (a noi sconosciuto) e dove c’era un’aria clandestina. Il professore infatti prendeva, ogni tanto, dal sottofondo di un comò, dei fogli che faceva ricopiare alla giovanissima dattilografa, dei quali, lei diceva, non si capiva assolutamente nulla. Una sera io andai con mio padre a prelevare Chiara e vidi un uomo molto anziano, così mi parve, col basco in testa e una coperta scozzese sulle spalle. Era quello il professore di cui mio padre, vecchio socialista, parlava con tanto rispetto? A me sembrò che non avesse poi ancora tanto da vivere. In seguito seppi che era appena uscito dal carcere o dal confino di Ventotene. Dopo molti anni, nella biblioteca di Giovanni, mio marito, scoprii un libro dal titolo accattivante: “Uccidi!”. Quando sentii che l’autore viveva a due passi, a Bari, volli conoscerlo a tutti i costi, anche se trovai Giovanni non molto entusiasta dell’idea. Allora andai da sola a Bari, col treno: avevo una bambina piccola in carrozzina e un bel pancione per la seconda. Devo dire che non fui bene accolta: Don Tommaso voleva vedere Giovanni, era arrabbiato con lui, perché da anni era scomparso dalla circolazione; mi apparve piuttosto diffidente nei miei confronti. Disse subito che lui non aveva nessuna conoscenza che potesse essere utile al mio caso. Allora capii: aveva pensato che fossi andata a trovarlo per ottenere delle raccomandazioni, dato che gli avevo parlato dei concorsi a cui mi stavo preparando. Era l’ultima cosa a cui potevo pensare. A me interessava prendere contatto con una persona così stimolante, che allargasse i miei orizzonti, limitati in quel periodo ai problemi di casa e dei bambini. Il giorno dopo mi arrivò una lettera di scuse con una richiesta di essere ricevuto a casa nostra. I miei suoceri furono felicissimi di rivederlo: anni prima mio suocero aveva nascosto in una “quartara” di creta, in campagna, in un pariete conosciuto solo da lui, il manoscritto di “La terreur fasciste” di Salvemini, portato a casa nostra perché si prevedeva una perquisizione a casa Fiore. In seguito Don Tommaso ci mandava dei manoscritti da dattilografare o andavamo noi a trovarlo a Bari ed era un piacere ascoltarlo, scambiare le notizie sugli ultimi avvenimenti o leggere ciò che andava scrivendo. Per parecchie estati veniva al Liceo di Molfetta come presidente per la maturità e si fermava a casa nostra a pranzo, conversando con le bambine o ascoltando mio suocero sui problemi della campagna. Nell’estate del 1964, morì mia madre. Don Tommaso venne a casa dei miei genitori, salutò tutti e mi disse: “Ho bisogno di te” e di fronte a tutta la parentela schierata, come si usa in queste occasioni, disse che doveva andare al mercato ortofrutticolo per raccogliere alcuni dati. Lasciai tutte le tristi incombenze e lo accompagnai, aiutata da mio cognato Nino Cascarano che guidava la macchina. Nei giorni successivi, con Giovanni, esaminò altre realtà dell’economia molfettese: l’edilizia, la pesca, l’agricoltura ecc.. All’inizio egli pensava ad un articolo per la Gazzetta; man mano che il lavoro cresceva, pensò ad un saggio, per vedere quanto della sua opera di insegnante fosse rimasto nel nostro paese. Nel frattempo si incontrava anche con te e con altri. Per esempio mi è rimasta impressa l’intervista che fece a Matteo Altomare: io conoscevo poco quest’uomo tanto umano e popolare. Mi piacque anche l’intervista al pittore Leonardo Minervini, che era stato per un anno il mio insegnante di storia dell’arte al liceo. Insomma stavo conoscendo Molfetta in un modo molto nuovo ed interessante. Ma l’incontro più importante fu quello con Orazio Caputo, alla Scuola elementare Manzoni. Quando don Tommaso sentì che, dei cento e più insegnanti, solo quattro o cinque seguivano il metodo Freinet, della tipografia a scuola, corrispondenza interscolastica e giornalino, cominciò ad urlare come un ossesso. Orazio era imbarazzatissimo per il chiasso che si sentiva e si giustificava ponendo avanti la “libertà di insegnamento”. Il Professore replicò che non c’era la “libertà di non insegnamento” e rivolgendosi a mio cognato Nino gli diceva: “Se nella tua azienda solamente il cinque per cento lavora, cosa succede? L’azienda fallisce. Ecco perché la scuola sta di culo a terra”! Così l’inchiesta andava avanti. Nel frattempo don Tommaso cominciò a pubblicare sulla rivistina “Il risveglio del Mezzogiorno” alcune parti del suo lavoro. E allora ci fu lo scontro con il figlio Vittore che non approvava il suo operato, dicendo che ormai il metodo delle interviste era superato, che si squalificava continuando in quel modo ecc… In realtà certi giudizi, molto liberi, davano fastidio a persone autorevoli di Bari… […] Da quel momento non è più venuto da noi. Per la verità i familiari di Don Tommaso potevano anche avere alcune ragioni di malcontento: in tanti anni di lavoro egli non era riuscito nemmeno a comperarsi una casa. Era già avanzato negli anni quando fu costretto a trasferirsi dalla casa barese di via Q. Sella ad una più piccola e meno comoda, perché era prevista la demolizione dello stabile. La cosa lo addolorò molto in quanto si compenetrava nella situazione di sua moglie che avrebbe dovuto soffrire dei disagi. Non dimentichiamo poi, che il Nostro, in casa, era molto severo: i figli uscivano solamente con lui dalle 14.30 alle 15.30 facendo una passeggiata igienica fino al Preventorio nel periodo in cui vivevano a Molfetta, poi tutti rimanevano in casa a studiare. Ricordo un altro episodio precedente. Eravamo a Corso Umberto: ad un tratto si fermò e, con tono solenne, disse: ”Senti, Giovanni, senti a Tommaso. Se un giorno, quando sarò più in là con gli anni e sarà arrivato il “momento”, tu sentirai di me “cose strane”, dì: “Tommaso non le ha potute impedire”. ” Si riferiva probabilmente a pressioni in punto di morte, per i sacramenti. Un’ultima volta sono stata a trovarlo a Bari. Era stanco e molto invecchiato. Mi disse che non riusciva ad avere più contatti con la gente… […] La cosa ci addolorò molto, ma non potevamo farci niente. Io sto leggendo in questi giorni un libro curato da Marina Calloni e Lorella Cedroni: Politica e affetti familiari, della Feltrinelli: ci sono le lettere dei Rosselli alla famiglia Ferrero e stavo considerando con una mia amica molfettese che vive a Torino da molti anni, di come il povero nostro amico e maestro non abbia potuto avere dalle ”donne di casa” quell’appoggio e sostegno morale di cui potettero giovarsi sia Piero Gobetti, sia i due Rosselli e facevamo le nostre riflessioni sull’educazione femminile al sud e al nord… […] E così Giovanni decise di non andare al funerale dicendo che, morto lui, tutto era finito. Questo è quanto io riesco a ricordare di così grande Maestro. Quando penso a come l’ho visto lavorare all’epigrafe che è affissa nel nostro portone (ci perdette un’intera mattinata, consultando continuamente il vocabolario), sono contenta di come mi sia toccata così grande fortuna. Gli avevo scritto una relazione sulla scuola media nella quale stavo insegnando e lui me la rivide in una maniera fantastica: la mia prosa era diventata un’altra, così bella, fluida e scorrevole, che non la riconoscevo più, pur sentendola totalmente mia; lui infatti rispettava molto la personalità degli allievi.
Autore: Liliana Minervini Gadaleta