Venerdì 29 marzo, in occasione dei dieci anni dalla morte dello scrittore, avvenuta nel 2009, l’Associazione della terza età, presieduta da Eccelsa Spaccavento, ha reso omaggio a un autore che ha saputo rappresentare come pochi la vita della cittadina di Molfetta, Orazio Panunzio. L’iniziativa ha veduto due relatori d’eccezione. Marisa Carabellese, pittrice e amica di Panunzio, ha tratteggiato il ricordo dell’uomo e ha evocato con alcune pennellate anche le sue opere, muovendo da Saluti da Molfetta. Nello scritto di Panunzio d’introduzione al volume l’artista ha ravvisato consonanze con le congetture di Borges. Le “note” della Carabellese sono un inno all’amicizia, quella tra lei e Panunzio, nata nelle forme di una corrispondenza scaturita dalle lettura di Una storia per Molfetta. A Marisa lo scrittore attribuiva “l’intrepidezza” delle fate e la “soavità” delle streghe. A cementare il rapporto il comune affetto per la poetessa Stella Poli, dalla Carabellese rievocata in modo struggente, non senza analogie con lo stesso Orazio. Di quest’ultimo, la Carabellese ha posto in rilievo in particolar modo l’aspirazione a una “città innocente” (proprio come il “paese” di Girovago di Ungaretti). Aspirazione che, negli ultimi anni della sua vita, Molfetta appariva non poter più appagare, insinuando al più il sospetto che essa forse non era mai stata tale. L’idea che Panunzio possa essere in morte approdato all’anelata “città innocente”, augurio che l’amica Carabellese ha alimentato in sé, ha concluso il primo, suggestivo, intervento. Marco Ignazio de Santis, scrittore, critico letterario e studioso di demologia, ha tratteggiato l’itinerario di Orazio Panunzio con quell’acribia e quella lucidità che consentono di delineare, con pochi, incisivi, tratti, l’essenza delle numerose opere che l’intellettuale molfettese ha composto. Mantenendo salda l’idea che Il Pierrot giallo, romanzo autobiografico pubblicato per i tipi di Mezzina, e incentrato sulla memoria della figura paterna, emigrata in America e divenuta bruciante assenza per il figlio, costituisca il capolavoro dell’autore, De Santis ha rammentato anche gli altri scritti. Le conferenze, per esempio, tra cui si segnalano gli interventi dedicati alla figura di Pier Paolo Pasolini, scandagliata soprattutto nell’ambito della narrativa, della saggistica e della produzione cinematografica e meno sul versante poetico. Le composizioni in versi, di minor numero, che hanno trovato posto in miscellanee e riviste, oltre che in un bel saggio dello stesso de Santis, la Piccola antologia “provinciale” di poesia e altro con inediti di Rosaria Scardigno, pubblicata nei “Quaderni del Centro Studi molfettesi”, nel numero 5, Molfetta: spicchi di storia. Miscellanea in onore di Vincenzo Valente. La pregevole silloge, corredata da schede accurate, recava un testo di Panunzio, Gesù nell’orto, letto e commentato dallo stesso De Santis, che ne ha rimarcato l’intensità. Accanto alle opere teatrali, come Addolorata, percorso di rispecchiamento tra la quotidianità molfettese e il mistero del dolore della Vergine, si impongono all’attenzione gli scritti narrativi. L’esordio con il romanzo Il frutto e la stagione vide Panunzio conseguire il premio delle bolognesi Edizioni SIA, con conseguente pubblicazione nel 1954 per i tipi delle stesse. Oltre ai già citati Il Pierrot giallo e L’importanza di chiamarsi Orazio, congedo letterario ammiccante a Wilde, pervaso dall’ironia, ma anche da una pensosa malinconia, sono notevoli diversi altri testi, dalle prose di Molfetta attraverso le costellazioni ai racconti di Saluti da Molfetta, a cura di Corrado Minervini, Pasquale Modugno, Orazio Panunzio (Molfetta, Mezzina, 2004). Marco de Santis si è divertito a rievocarne alcuni, tra cui un gustoso contrasto tra due comari, che ha allietato il numeroso pubblico presente. Abbiamo citato per ragioni di tempo solo alcuni dei testi (ricorderemo anche il Diario per la Confraternita della Morte) affrontati da de Santis nella sua disamina. Lo studioso ha tra l’altro ricostruito la collaborazione di Panunzio con Mezzina, sodalizio in cui un ruolo non secondario è stato rivestito da Pasquale Modugno. I due interventi sono stati seguiti dalle testimonianze del medico Guido Caradonna, parente dello scrittore e del già citato grafico Modugno. Il primo ha ventilato la possibilità di future pubblicazioni di scritti inediti di Panunzio, cui si starebbe dedicando la figlia dello stesso Caradonna. Il secondo, commosso, ha ricordato momenti legati alla pubblicazione dei testi di Panunzio, sottolineando la tragicità dell’anno 2009, che ha reso la città di Molfetta orfana di personalità culturali indimenticabili. L’emozione della commemorazione di Panunzio ci induce a riprendere tra le mani Il Pierrot giallo, cui nel maggio 2009 avevamo dedicato un piccolo intervento sul periodico “Luce e Vita”. Questo testo continua a lasciar viva in noi l’impressione di trovarci al cospetto di un’opera che meriterebbe ben più ampia diffusione per i suoi pregi letterari. Una microstoria che si intreccia alla macrostoria d’Italia, con tutto il portato nefasto delle migrazioni e delle tante vedove bianche, ma anche uno spaccato dell’epoca buia del fascismo, con l’esaltazione dell’agonismo ginnico (cui si fa chiaramente riferimento in alcune pagine) e i falsi miti dell’imperialismo e del nazionalismo, sino alla seconda guerra mondiale e alla repubblica. In questo quadro si delinea la vicenda familiare dello scrittore, con un incipit all’insegna di una dissacrante autoironia, lucida volontà di dimostrare che per ogni individuo, nel momento in cui raggiunge l’età di una seppur vaga Consapevolezza, il mondo e l’universo tutto finiscono con l’orbitare intorno alla sua esistenza, per quanto infinitesimale nel cosmico mistero. Rivivono la madre di Panunzio, maestra elementare, il nonno materno, accordatore di pianoforti, e soprattutto l’enigmatica, sfuggente figura del padre dello scrittore. Acuto e trasgressivo, ma al contempo galante e generoso, malato di inquietudine (si sarà affievolita al mutare del suo cielo, dalla Puglia a Montreal?): è lui il Sole lunare attorno a cui ruota la quête intellettuale-affettiva del figlio, disperatamente annodata all’ora zero che vedeva Orazio indossare, nell’attimo del congedo paterno, un Pierrot giallo. Un’opera che si muove tra una molteplicità di registri, variando dal narrativo al descrittivo, con momenti epifanici. Come definire diversamente, infatti, l’attimo in cui lo scrittore, destato da un sogno angoscioso nel silenzio della casa dei nonni paterni, entra nella vecchia stanza del genitore e scopre che il padre ha disegnato sulla parete la sequenza di Lot in fuga da Sodoma? A quelle sequenze si affiancano squarci lirici, per esempio nella sezione che descrive il giardino della nuova casa di corso Margherita, riportando le percezioni che dal mondo esterno Orazio riceveva nel grembo di quella dimora senza balconi sulla strada (“Mi piacque il suo isolamento. Nei giorni di maltempo mi suggestionavano l’ingolfarsi del vento nelle intercapedini dei muri, degli spioventi e le risonanze all’interno: mugolii disarticolati, echi rimbalzanti di stanza in stanza”). Sono attimi dominati da un senso di indeterminatezza che trasporta in una dimensione lontana e per questo poeticissima. E come non ricordare la mamma che canta l’aria della “Wally” (melodia anche a noi tanto cara) o “i tetti, i muri della Città Vecchia e del Borgo” rigurgitanti di viole a ciocche? Non saprei dire se la Molfetta del Circolo degli Amici fosse o meno una “città innocente” (intuisco di no, da certi episodi e casi narrati); di certo non lo è quella attuale, per l’insalvatichire di una fetta considerevole della sua popolazione, specialmente, ma non esclusivamente, tra i giovanissimi. Credo semmai fosse ‘innocente’, a dispetto di tutte le brutture che la vita doveva avergli riservato, lo sguardo del poeta che ce l’ha raccontata con amore. © Riproduzione riservata