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Quelli che il ’68. Fuori dal nido: nel mondo
15 luglio 2018

Capelli tanti e aggrovigliati. Come le idee, un po’ confuse, che agitavano la vita di qualche circolo autogestito dove ci si ritrovava nel piccolo borgo, a Giovinazzo. Magari per ascoltare, in quell’inizio di 1968, «Bandiera gialla» o «Per voi giovani». Avevamo già rotto ogni confine, in musica e lingua, con Beatles, Rolling Stones e Bob Dylan. Ma la testa, in quell’inizio d’anno, era ancora tutta in italiano, fissa sul “lento” da ballare – in salotto o terrazza – al prossimo compleanno di qualche compagna di classe. Avevano imperversato ancora in quell’inverno «29 settembre» dell’Equipe 84 e «A chi» di Fausto Leali. Ma forte era ancora l’eco di «Auschwitz» per la voce di Guccini. Di lì a poco Celentano ci avrebbe inondato di «Azzurro». Leggere non era proprio il forte, anche di quella generazione. Tra parecchie mani però era già passato «Lettera a una professoressa». Del resto, eravamo già avvezzi al suo insegnamento fondamentale: «il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia». Pesava la lunga frequentazione dell’Azione cattolica così come il rapporto quotidiano con il don Milani locale: don Saverio Bavaro. Parroco di San Domenico, teologo e docente di religione nella scuola media locale, allora appassionatissimo studente di filosofia, viveva circondato di ragazzi. Ogni sera a casa sua in tanti: una discussione ininterrotta. E poi tanta tanta musica: l’amata lirica. Soprattutto Puccini. Si frequentava e riviveva il mondo: che vogliono questi hippies? Chi ha visto «I pugni in tasca»? Ma avete sentito questo De Andrè? Hai saputo di My Lai, del massacro? Nulla ci appariva estraneo o lontano in quegli scambi. Imparavamo a sbucciare il mondo e ad affacciarci su altri pianeti. Complice allora anche un qualche terremoto in casa nostra. Il lungo inverno delle Acciaierie e Ferriere Pugliesi – dopo le ultime fiammate del 1960-61 – stava finendo. Un nuovo ciclo di lotte sindacali, la battaglia contro le gabbie salariali annunciavano nuovi protagonisti nella fabbrica in cui quasi ogni famiglia di Giovinazzo era coinvolta. Si scrutavano i picchetti avanti agli ingressi (la partecipazione di là da venire). Intanto il mondo premeva in un crescendo continuo e i nostri confronti, le nostre chiacchiere crescevano a velocità esponenziale. Saltavano barriere culturali e politiche. L’offensiva del Tet, prima, e le manifestazioni degli studenti americani ci rivelavano l’altra faccia di un mondo e degli USA. Aspettavamo le Olimpiadi, arriverà la strage degli studenti messicani, prima, e il pugno chiuso di Smith e Carlos dal podio. L’esplosione del «maggio» francese ci faceva riscoprire virtù e potenzialità di una lingua studiata molto ma anche trascurata: ora, di colpo, ci apriva nuovi orizzonti. I fatti di Praga e i carri armati sovietici ci rivelavano la cappa del bipolarismo su un globo fatto improvvisamente piccolo e uno. Le occupazioni di quasi tutte le università italiane ci avrebbero riportato coi piedi per terra, a casa nostra. A fine anno, ad Avola, si versava il sangue di braccianti. Seguiva la contestazione alla Scala a Milano. L’interrogativo per noi si faceva davvero lancinante: adesso, che fare? Avremmo dovuto aspettare un anno. Sarebbero seguite le occupazioni delle scuole – e del nostro liceo –, le manifestazioni per Ian Palach… Il culmine di quella presa di coscienza e di quelle rivelazioni giunge però per tutti nell’inverno di quel lungo 1968. A darcelo quella TV che pensavamo di usar poco ma attraverso il cui schermo leggevamo il mondo. Avevamo seguito incuriositi le missioni Apollo ma non ci aspettavamo la rivelazione del 24 dicembre 1968, vigilia di Natale. Improvvisamente divenimmo testimoni e partecipi dell’«Earthrise»: di là della Luna, la Terra si erse improvvisa e luminosa avanti ai nostri occhi stupiti. A inquadrarla nell’obiettivo provvide William Anders, mentre in orbita lunare, dall’altra parte del satellite, completava la missione «Apollo 8», assieme a Frank Borman e Michael Collins. Quella sfera allora invase ogni teleschermo. Da allora contrassegna ogni manuale di geografia. Marchia qualsiasi evocazione della globalizzazione. Sarà Marshall McLuhan a tematizzare retrospettivamente la svolta, la cesura: quell’inquadratura ebbe su di noi «un impatto enorme. Eravamo, per così dire, ‘dentro’ e ‘fuori’ allo stesso tempo. Eravamo sulla Terra e sulla Luna contemporaneamente. Fu la nostra percezione individuale di quell’evento a dargli significato». A partire dalla conquista di un inusuale punto d’osservazione, un nuovo sguardo prospettico ridispone il mondo consegnandogli un ordine inedito. Una plastica immagine di cosmica interdipendenza condensa la repentina accelerazione impressa a fine anni Sessanta alla compressione del globo in «villaggio globale». Faccia a faccia col futuro rappreso nel video vediamo spazio e tempo restringersi fino ad annullarsi. Raccolti come umanità di fronte allo schermo televisivo siamo costretti a riscoprirci e riconoscerci racchiusi tutti nel tondo della Terra. Quasi come specchio la TV ci costringe a rimirare quel globo come immagine riflessa di noi stessi, ipertecnologica rivisitazione del mito di Narciso. In una percezione finalmente piena del cammino fin qui compiuto, cominciamo adesso a riconoscere i processi di globalizzazione come figli del nostro potere di manipolazione del globo, dell’umanissima crescente capacità di ridurlo a cosmico artificio, irretirlo, manipolarlo entro reti, volute sempre più fitte. Adesso però mutano le modalità, le coordinate entro cui ora percepiamo spazio e tempo. Scopriamo ora – sempre con McLuhan – che l’innovazione, l’elettricità, «riunendo con repentina implosione tutte le funzioni sociali e politiche, ha intensificato in misura straordinaria la consapevolezza della responsabilità umana». A distanza di tempo, un’altra osservatrice ha sottolineato quel passaggio di fine anni Sessanta – l’assunzione del «villaggio globale», dell’ «astronave Terra» come categorie analitiche – come un punto nodale per l’emersione di uno sguardo unitario sull’avventura umana, un primo passo per l’affermazione della tematica dei «diritti umani». Secondo Barbara J. Keys «le fotografie della Terra dallo spazio che la facevano rassomigliare ad una minuscola biglia blu rafforzarono la sensazione che il pianeta fosse ormai un unico soggetto. “Tu non guardi più giù al mondo da Americano» disse un astronauta dell’Apollo X «ma come un essere umano”». In uno con quella vista d’insieme sulla Terra sembrava maturare «una coscienza globale immediata, una intensa insoddisfazione per lo stato di cose esistenti e la spinta a far qualcosa in proposito. Legata alle crescenti conoscenze sull’Olocausto, quella percezione dell’interdipendenza aiutò in generale il convincimento che l’ingiustizia nei luoghi più remoti fosse divenuta insopportabile e che il silenzio di fronte alla prepotenza dovesse essere considerato complicità». Illuminanti si rivelano perciò oggi le note con cui Hannah Arendt sottolineava come «l’umanità», vissuta sempre come «concetto » o come «ideale», fosse ormai «divenuta questione di scottante attualità» sulla base non già di «sogni degli umanisti», «ragionamento dei filosofi» o sviluppo di «eventi politici». Bensì in forza dello «sviluppo tecnico del mondo occidentale». Di fatto ormai «per la prima volta nella storia tutti i popoli della terra hanno un presente condiviso: non c’è evento della minima importanza nella storia di un paese che possa rimanere ai margini nella storia di un altro. Ogni paese è diventato il vicino diretto di ogni altro paese, ed ogni uomo rimane impressionato da eventi che accadono nella parte opposta del globo». Al tempo stesso la Arendt sottolineava che «questo reale presente comune non si fonda su un passato comune e non garantisce affatto un futuro comune». In realtà, a conferma della potenza costituente di tecnica e scienza, «allo stato dei fatti il simbolo più potente dell’unità del genere umano» è rappresentato dalla sia pur «remota possibilità che le armi atomiche usate da un paese secondo la saggezza politica di qualcuno possano in definitiva segnare la fine del genere umano sulla terra». L’esame del mondo nuovo disegnato dalle capriole astronautiche riguadagna una terrestre ma apocalittica dimensione con la minaccia del fungo, sospeso da Hiroshima in poi sul destino dell’uomo e quotidianamente brandito, agito nel gioco della deterrenza bipolare, divenuta cornice prima della politica mondiale. È dentro questi orizzonti che muove i suoi primi passi l’umanità intesa come soggetto, rivendicazione di un universo di diritti. A metterla in cammino, darle faccia provvedono le gambe e i volti di una nuova generazione. Hannah Arendt battezza i giovani del Sessantotto, della contestazione giovanile, «quelli che sentono il «ticchettio». A scendere in piazza è «la prima generazione che cresce all’ombra della bomba atomica… affatto sicura di avere un futuro», dal momento che il futuro assomiglia a «una bomba a orologeria sepolta, ma che fa sentire il suo ticchettio nel presente». Ecco, a far da pendant epocale alle orbite e alla svolta disegnate dalle missioni Apollo vi sono sommovimenti ben più corposi, “assalti al cielo” più partecipati e diretti di quelli intravisti in tv. Dispongono sul terreno il primo movimento globale, «il primo, esplicito anticipo della globalizzazione». In critica empatia con i volteggi lunari, movimenti di nuovo tipo, ondate di protagonismo giovanile affollano piazze e strade, animano e scuotono le città del mondo, il globo intero. Hanno cominciato anni prima, negli USA a Port Huron, nel fuoco della battaglia per i diritti civili, e continuato dopo, con la crisi di Cuba, con l’opposizione e il boicottaggio della guerra in Vietnam, a prendere atto della «presenza inesorabile della Guerra Fredda, simbolizzata dalla presenza della Bomba», e del fatto che «la nostra potrebbe essere l’ultima generazione a fare esperimenti con la vita». Vivono appieno le contraddizioni del mondo e come altri mai riconoscono quel presente condiviso che scandisce ora il tempo quotidiano dell’umanità. Sanno, sentono – per dirla ancora una volta con McLuhan – che «nell’era elettrica abbiamo come pelle l’intera umanità». Sui banchi della scuola che sottopongono a critica corrosiva hanno imparato ad ascoltare e interrogare questo sensorio planetario con l’abbecedario appreso alla scuola dell’atomica, dell’Olocausto e della cortina di ferro. Non si rassegnano ad un futuro sospeso all’ombra del fungo, condannato ad un silenzio finale. Nasce lì – come anche dalle lotte per i diritti civili – la pratica di un nuovo pacifismo e del costituirsi in immediata rappresentanza dell’umanità minacciata dalla bomba. Dalle letture sui campi di sterminio hanno appreso delle possibilità di soluzioni finali e che ribellarsi allora non è solo una possibilità, ma spesso un dovere, se si vuole conservare umanità. Dal cappio del bipolarismo, di cui a Cuba hanno avvertito la morsa intollerabile, hanno sperimentato che il moderno cemento non è più dato dagli Stati, ma dalle ideologie, da appartenenze a campi che scavalcano territori e confini, e che innanzitutto cancellano ogni divisione tra pace e guerra nel gelo quotidiano della confrontation bipolare. Quella generazione prova a costruire un futuro e un pianeta non più in ascolto spasmodico del ticchettio di fondo. Magari niente affatto silenti. Semmai animati, se non frastornati, da altri suoni e rumori. È un momento di accumulo di tensioni, energia. Così come il 1848 aveva stretto il rapporto tra politica e popoli nel bozzolo delle nazioni, il 1968, nel suo costituirsi in rappresentanza dell’umanità, della specie, chiede e pretende una “ridefinizione della politica” a misura del globo. La speranza è tanta ma inizia impercettibilmente a frammischiarsi all’ angoscia di fronte ad un mondo che, appena scoperto nei suoi tratti unitari, rivela anche altre facce non tutte scoperte. Proprio a Port Huron, in straordinario anticipo sui tempi, i giovani democratici USA avevano colto un tratto dell’improvviso slargarsi del mondo che in futuro sarebbe divenuto dominante, fino a tramutarsi in agorafobia: timore per i grandi spazi, spaesamento, paura per la perdita di controllo sul proprio ambiente. Quei giovani avevano colto attorno a sé «la diffusa sensazione che semplicemente non esistano alternative, che la nostra epoca sia stata testimone dell’esaurirsi non soltanto delle utopie, ma anche di una qualsiasi nuova via». Di lì la constatazione – che diverrà poi dominante – che «nel sentire il vuoto della propria vita condizionata da problemi di una complessità senza precedenti la gente ha paura di pensare che le cose da un momento all’altro potrebbero sfuggire al suo controllo. Ciò che temono è il cambiamento in quanto tale, poiché il cambiamento rischierebbe di infrangere tutti quegli schemi invisibili che in questo momento gli consentono di tenere lontano il caos». Con questo bagaglio – o fardello –, ma anche con la consapevolezza, per dirla con Dylan, che «The Times They Are A-Changin’ », cominciammo dal paesello barese a sparpagliarci nel mondo, nel globo grande e terribile allora scoperto. A nostre spese, lentamente, imparammo a farci i conti, a coglierlo volta a volta come cornice, stimolo di ogni nostra esperienza, o acido corrosivo di ogni nostro abituale, ma transitorio riparo. *Docente di Storia delle relazioni internazionali – Università «Aldo Moro», Bari © Riproduzione riservata

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