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Quel gesto di amore di un Natale diverso
30 dicembre 2022

  Fa molto freddo, un freddo insolito per la nostra regione, seppur a dicembre. Passo velocemente dallo studio fotografico. Eccoci: felici, una famiglia come tante, pronta per il Natale.

Due figli sorridenti, una casa calda, un cane. Sembra un quadro e mi ritrovo a godere di questa serenità che, presuntuosamente mi attribuisco: ho voluto fortemente una famiglia, il cane, ho assicurato loro un tetto, dei comfort per i quali ho lavorato duramente. 

Mi fermo al supermercato per le ultime cose, cercando di ricordare cosa manchi su una tavola già riccamente addobbata. Non manca niente, eppure entro.

La gente in coda alla cassa, operatori stremati che non vedono l’ora che finisca il turno, ore interminabili sottratte ai propri cari, ma a noi, a me non importa: devo accaparrarmi l’ultima leccornia che verrà cestinata intatta. La gente si accalca all’uscita e quasi la travolge. La vedo anch’io finalmente. Apro il cofano dell’auto per riporre gli acquisti. E’ strapieno...

E’ giovane, sembra aver appena finito di piangere, e tanto, è evidente, nonostante il buio. Accanto a sé c’è una bambina, su un cartone che cerca di ripararsi dal freddo, mangia delle patatine. E’ il suo premio per essere lì, accanto alla giovane mamma. In quel momento comprendo la mia inutilità, la mia impotenza, un senso di sconfitta mi assale. E provo vergogna per la bambina felice e viziata che sono stata e mi rivedo circondata dalla mia famiglia, col mio abitino di velluto rosso e le scarpine intonate, in braccio al mio orgoglioso papà, stessi occhi, stesse ciglia, stessi colori.

Mi rivedo ancora felice, ignara di quello che la vita mi avrebbe riservato, ignara di quello che sarebbe successo nel mondo, ignara ma consapevole, anche da adulTa, fino a quando non ho incrociato gli occhi di quella bambina. Sono stati attimi eterni, veloci ma che sono riusciti a cancellare quella inconsapevole felicità infantile. Rivedo, come un flashback, la mia vita.

Ci sono mia madre, i miei fratelli, c’era mio padre, ci sarà sempre. Lo rivedo dietro il vetro. E’ la vigilia di Natale e noi siamo soli. Nessun nonno, nessuna zia, solo noi tre e i nostri genitori. Siamo rimasti a casa, mio padre reperibile: in caso di necessità dovrà uscire in mare con la motovedetta ed io prego che non succeda non per i malcapitati ma perché quel mare non porti via mio padre.

Dalla finestra vede un uomo. Non ha un cappotto, si stringe come a volersi abbracciare per ripararsi dal freddo. Mio padre prende un cappotto di una sua vecchia divisa, ha i bottoni dorati, prende le forbici e dice a me e mia madre di sostituire i bottoni in modo che non si capisca che è una divisa militare. Nel frattempo mio fratello scende per offrire un caffè e prendere tempo. Il cappotto è pronto per essere indossato.

L’uomo lo indossa e stringe in un abbraccio quel bambino, ignaro che il resto della sua famiglia li veda dalla finestra. Mamma ha apparecchiato, c’è la tovaglia rossa, un po' lisa ma ancora utilizzabile ed il Natale ha inizio. Siamo felici perché c’è tutto, ci siamo noi.

Una signora mi urta col suo carrello, troppo felicemente presa dal bottino che porterà a casa. Vengo riportata alla realtà, a quella madre e la sua bambina in fuga, come quella famiglia di duemila anni fa. Non sarà Natale per loro, non sarà mai festa, solo sopravvivenza, giorno dopo giorno, nessuna carezza, solo lacrime a bagnare il volto giovane e già segnato dalla sofferenza ed un pacco di patatine come premio.

E mi domando cosa ho fatto di bello per nascere in una famiglia che mi ha garantito tutto, che mi ha dato la possibilità di essere donna e mamma indipendente e non merce per scafisti senza scrupoli pronti a buttare in mare un carico umano, zavorra inutile per traffici loschi. Il pensiero va ai miei figli fortunati, ed alla sua bambina, amata di un amore incommensurabile e disperato, un amore che spinge una madre ad affrontare le onde su un barchino arrugginito, pur di assicurare non un futuro migliore alla propria figlia ma solo la sopravvivenza.

Mi sono attardata troppo. Un uomo preme sul clacson per attirare la mia attenzione, per chiedermi se ho finito e se intendo lasciargli il parcheggio libero. Pochi istanti perché la serenità di un Natale in famiglia, si trasformi in momenti di riflessione.

Sto per chiudere il cofano ma vedo una busta contenente abiti dismessi: c’è un cappotto che potrebbe indossare. Lo prendo e glielo porgo ma non vuole accettarlo.  “No grazie signora bella”.

Ancora una volta la dignità la insegna chi ha più bisogno.

Non mi perdo d’animo e glielo appoggio sulle spalle. “Buon Natale e grazie” le dico.

Non capisce il perché del ringraziamento ma io ormai so. C’è mio padre nel mio identico gesto. Ed ora torno a casa, grata.

© Riproduzione riservata 

Autore: Beatrice Trogu
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