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Primo Maggio a Molfetta: difendere i diritti dei lavoratori e l'unità nazionale
29 aprile 2011

MOLFETTA - «L’Italia unita dal lavoro», la parola d'ordine per le iniziative del Primo Maggio. «Lavoro, diritti, unità nazionale, immigrazione, nuovi cittadini e rifiuto della guerra, a livello nazionale, i temi su cui continuare un percorso di rinascita civile e morale del mondo del lavoro», si legge nel comunicato stampa della Camera Comunale del Lavoro di Molfetta.
Primo Maggio significativo anche per la città di Molfetta, «che continua a vivere sulla propria pelle il dramma della mancanza di sicurezza sul lavoro, la mancanza del lavoro, il doversi piegare ad ogni forma d'umiliazione e sfruttamento pur di portare uno stipendio a casa». Durante la manifestazione saranno ricordate le vittime del lavoro della città di Molfetta, dalla Moby Prince al Francesco Padre, la Truck Center e tanti altri, «tutti “ non eroi”, morti per rendere normale e dignitosa la loro vita e quella delle famiglie, creditori di rispetto e ricordo, e noi obbligati a far qualcosa per fermare questa strage quotidiana chiamata “Morti Bianche” che di bianco non ha nulla, solo il rosso del sangue degli innocenti e il nero della coscienza di chi delle morti è responsabile».
«Un Primo Maggio per rappresentare la voglia di cambiamento di questa città, stanca e finalmente pronta a reagire al continuo spreco di risorse pubbliche che portano vantaggi solo alle tasche dei soliti potenti, dei loro amici e servitori - continua il comunicato - basta essere scippati del proprio futuro e, a volte, anche della propria vita».
«Rappresenteremo la voglia di una città di essere amministrata a “tempo pieno”, che pretende uno sviluppo economico civile e sociale in piena legalità e rispetto di tutti. Proveremo ancora, con più forza, a svegliare gli uomini, le donne, gli studenti, i disoccupati, gli anziani i politici e le nostre coscienze - conclude il comunicato -  Saremo in tanti e non avremo paura di gridare la volontà di cambiare il corso negativo di questa città, tanti a dimostrare l'unità delle forze sociali e politiche che insieme si impegneranno a cancellare lo sfruttamento del lavoro, il malaffare, lo spreco di denaro pubblico, l'illegalità». Insomma, un Primo Maggio a difesa dell'Unità d'Italia, dei lavoratori e della Costituzione, affinché l'Italia possa rimanere una Repubblica Democratica fondata sul lavoro.

Il programma. Alle ore 9 sarà deposta la corona ai Caduti del Lavoro, mentre alle 10 partirà il corteo dalla Camera del lavoro CGIL (via Orsini – Piazza Garibaldi) che passerà dal busto di Giuseppe Di Vittorio per deporre una corona di fiori in ricordo dell'uomo che ha speso tutta la sua vita lottando per i diritti dei lavoratori e per l'unità sindacale. Alle ore 11 il comizio conclusivo (Corso Umberto, altezza Liceo Classico), in cui interverranno Pietro Colonna, segretario generale della CGIL Bari, Giuseppe Filannino, coordinatore della CGIL di Molfetta, Matteo Petruzzella, portavoce dell’Associazione Studentesca PLAY REVERSE, Nicola Zaza (R.S.U – R.L.S. Fiom CGIL) e Vito Messina, portavoce del Comitato Acqua bene Comune di Molfetta.
La sera il concerto «SOSTA VIETATA presenta ZUCCHERO!» (ore 20 al Corso Umberto, altezza Liceo Classico). A ogni manifestante sarà distribuito un garofano rosso, il fiore che Di Vittorio portava in ogni manifestazione.
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A vederla dal fondo, è una storia di violenze, eroismi, di poteri invisibili. Terrorismo rosso, terrorismo nero, stragismo delle bombe sui treni e nelle piazze, poteri obliqui e sommersi, istituzioni corrotte, un tasso abnorme di illegalità sono il racconto nero di un Paese febbricitante e di una democrazia zoppa. E' una storia che si può raccontare, soprattutto, come il doloroso cammino di un Paese diviso che, dalle guerre che lo hanno tenuto a battesimo e allevato, non ha saputo dimenticare le contrapposizioni ideologiche, le “appartenze separate” che ne hanno pregiudicato il sentimento della cittadinanza, la condivisione delle regole del gioco democratico, e quindi, “appartenenza comune”. Con emotività collettiva, passione, apprensione, anche furore abbiamo affrontato le nostre tragedie nazionali e dietro ogni tragedia – le Brigate Rosse, il delitto Moro, l'attentato al Papa – ci è sembrato di scorgere altre presenze; ombre che ancora impedivano (impediscono?) la reciproca fiducia. Il dislevamento, nel 1981, dei 962 iscritti alla “loggia propaganda 2”, la struttura massonica segretissima guidata da Licio Gelli, ci è parsa dare corpo ai pensieri più cattivi. Vi scoprimmo ufficiali delle forze armate, spioni, imprenditori come Angelo Rizzoli e Silvio Berlusconi, padroni dell'economia di Stato, politici di destra, di centro, di centro-sinistra in un circuito che connetteva banchieri come Calvi, Sindona, Marcinkus e la mafia, la massoneria sudamericana e nordamericana, la finanza vaticana, gli apparati dello Stato. E in questo costante scambio tra visibilità e oscurità, tra pubblico e segreto che si possono afferrare gli intrecci italiani tra politica e affari, tra Stato e crimine organizzato. Il dominio dei Corleonesi di Rina e Provenzano sul rapporto mafia-politica che ribalta l'antica subalternità di Cosa Nostra al sistema dei partiti e delle istituzioni. E' stata questa l'Italia? E' questa l'Italia? Nei momenti peggiori quando la fine sembrava a un passo, l'Italia ha sempre saputo ritrovare – contro il terrorismo, contro le mafie, contro la corruzione – le ragioni comuni della cittadinanza e, dentro lo Stato e nell'interesse collettivo, si sono fatti avanti uomini che, mentre tutto sembrava perduto, hanno saputo interpretare – alcuni sacrificando la vita – il “senso dello Stato”, Paolo Baffi, Giorgio Ambrosoli, Emilio Alessandrini, Vittorio Bachelet, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino…………E'STATA QUESTA L'ITALIA? ORA INVECE, QUALE ITALIA?

Era un altro mondo quello di sessantadue anni fa, quando nacque la Repubblica. Immaginiamo un essere umano che si risveglia nei nostri giorni dal lungo letargo in cui è sprofondato nel 1947, dopo aver visto nascere la Repubblica. Al risveglio il nostro uomo, entrato in letargo nel 47', non si raccapezza davanti al presente. L'Unione Sovietica non esiste più. E' sparita. Si chiama di nuovo Russia quel che è rimasto dell'impero, dopo le amputazioni europee e asiatiche che hanno dato vita a tanti Stati sovrani, al di qua e al di là degli Urali. Leningrado ha ripreso il nome di San Pietroburgo e i miliardari russi, spesso ex aparachnik del regime autoaffondato da Gorbaciov, a volte agenti del Kgb, comperano Club di football londinesi e alloggiano nei grandi alberghi della Costa Azzurra e di Las Vegas. La Germania è riunificata, la capitale è tornata sulle rive della Sprea, a Berlino, come ai tempi di Bismark e Hitler. Le democrazie popolari (comuniste) dell'Europa centro-orientale, fino agli anni Ottanta membri del defunto Patto di Varsavia, sono diventate vere democrazie e sono entrate nel Patto atlantico, l'alleanza militare avversaria, che ha vinto senza sparare un solo colpo di cannone, e non ha più davanti a sé superpotenze nemiche. Quale è la sua utilità? Sempre in Europa, il nostro uomo resuscitato scopre innanzitutto l'euro. Non se l'aspettava. Vede una Francia sempre affezionata all'idea che la sua storia coincida con quella universale, e un'Inghilterra ancorata alla sterlina, ultima inaffondabile eredità imperiale. Mao, il grande timoniere non c'è più. E' stato sepolto fisicamente e ideologicamente. Sul piano formale il comunismo è ancora al potere in Cina; ma al posto delle guardie rosse ci sono giovani dediti al culto del rock e affamati di hamburger; a Pechino i grattacieli assediano la Città Proibita; a Canton, si fabbricano prodotti che fanno concorrenza a quelli fabbricati sulle sponde del brenta e del Reno. Meglio non parlare del millennio dell'Asia, dove tre miliardi di uomini e donne non più poveri, o meno poveri, diventano concorrenti dell'Occidente. Come non accogliere con soddisfazione il fatto che la miseria arretri in quella parte del mondo? E come non affliggersi che invece avanzi nell'Africa subsahariana? Il nostro uomo stenta a capire come si sia arrivati a una guerra in Mesopotania. Si è addormentato con la ferma convinzione che la teoria americana dei domino si sarebbe realizzata, e adesso scopre che l'America e non da sola si è insabbiata in un altro conflitto; e nel frattempo gli Stati Uniti sono partiti all'inseguimento di una inafferrabile nebulosa di terroristi, colpevoli di aver colpito il loro territorio nazionale, mai violato fino all'11 settembre 2001 da una forza straniera. E' difficile ritrovarsi dopo un salto di sessant'anni di storia. Riconosce solo un volto, quello di Fidel Castro sempre in sella a Cuba, alle porte della superpotenza ostile. Il nostro testimone, ancora assonnato per il lungo letargo e frastornato dalle tante novità, si rivolge un'evitabile domanda. Il mondo è cambiato in meglio o in peggio negli ultimi sessant'anni? E si dà una prima risposta: un tempo le minacce investivano la collettività, erano più pesanti, ma creavano una certa assuefazione, ed erano inoltre accompagnate da progetti. Oggi le minacce sembrano investire gli individui, i quali si sentono presi di mira. E indifesi. Senza ideali? Non è una sentenza. E' un semplice parere, da elaborare. (Tratto, condensato e leggermente “corretto” da: “Il libro dei trent'anni”. La Repubblica, 1976/2006.)
“L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. E' una formulazione diversa da quella che avrebbero preferito le sinistre, i repubblicani e i partiti intermedi: “………..è una Repubblica democratica di lavoratori”, ma nella quale i democristiani annusarono un significato classista, proponendo, invece, la dizione che fu alla fine approvata. Essa, come sostenne Amintore Fanfani di fronte all'Assemblea nella seduta del 22 marzo 1947, esclude un sistema basato “sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui” e delinea, invece, un sistema fondato sul “dovere”, che è anche diritto per ogni uomo, di trovare nel suo sforzo libero la capacità di essere e di contribuire al bene della comunità nazionale…….Allo Stato spetta il compito, il dovere giuridico di farsi promotore (nello Stato Albertino era tutt'al più mediatore) di uguali condizioni di partenza per tutti e di uguali occasioni (diritto di istruzione, diritto al lavoro). La Costituzione, dunque, impone ai legislatori e all'esecutivo una politica di programma perché ogni cittadino possa partecipare attivamente al processo produttivo della comunità e, nel contempo, (art. 2) chiama tutti i cittadini all'”adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” e, con un altro articolo, “al dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società……..Proprietà e impresa devono svolgere “una funzione sociale”, avere un'utilità sociale, sempre nel segno della solidarietà che ispira anche disposizioni costituzionali sulla protezione dei lavoratori, sulla loro giusta retribuzione, sulla loro sicurezza fisica ed economica, sulla loro possibile partecipazione alla gestione delle aziende (art. 35, 38, 41, 44). – Ma…….in che mondo viviamo? - 1° M A G G I O 2 0 1 1 -

Le disuguaglianze economiche restano per molti il segno di una promessa chimerica di cittadinanza. I conflitti sociali che presumibilmente un secolo fa avrebbero tenuto banco in un ipotetico convegno mondiale sullo sviluppo sociale erano laceranti; e i rappresentanti dei governi a tale convegno immaginario del 1895 per lo più avrebbero raccomandato di sopprimere i disordini con la forza. Ci sono voluti decenni di lotte intestine – lotte di classe, come furono giustamente chiamate allora – per affermare l'uguaglianza fondamentale di tutti gli esseri umani nella società. E ci sono volute anche due guerre moderne: per quanto sia terribile a dirsi, non esiste un fattore di livellamenti sociale più efficace di una guerra moderna che coinvolga l'intera popolazione. Non è un caso che la seconda guerra mondiale sia stata chiamata “guerra totale”. Quando si profilano opportunità nuove ma la gente non riesce ancora a coglierle, quando lo sviluppo economico conosce una forte accelerazione ma la crescita sociale e politica stenta a decollare, matura una miscela di frustrazione e di irresponsabilità che alimenta la violenza. Tale violenza a volte è individuale e indiretta, ma può anche diventare collettiva e dirigersi contro vicini apparentemente più felici, contro membri particolarmente fortunati del proprio ambiente, o anche contro entrambi. E' vero che la combinazione di sviluppo economico, democrazia politica e società civile solitamente produce un clima di tolleranza all'interno e relazioni internazionali pacifiche, ma la strada che porta a questo risultato è piena di tranelli e di tentazioni. Ogniqualvolta un paese ancora tradizionale imbocca questa strada, gli altri hanno ragione di seguire la sua avventura con timori e speranze (quel che sta accadendo oggi, in Africa). Non vuol dire che questi ultimi siano condannati alla povertà. La società, la cittadinanza, è incompatibile con il privilegio. Questo vale non solo in politica interna, in un paese dato, dove il privilegio è per definizione una negazione della cittadinanza degli altri, ma anche sul piano internazionale. Il compito che incombe nel decennio prossimo venturo è quello di far quadrare il cerchio fra creazione di ricchezza, coesione sociale e libertà politica La quadratura del cerchio è impossibile; forse i paesi esclusi dal cerchio incantato troveranno per primi una via d'uscita da questo guazzabuglio, ma è difficile che ciò possa accadere a molti.
Fino a quando alcuni paesi sono poveri e, ciò che conta ancora di più, condannati a restare tali, perché vivono del tutto al di fuori del mercato mondiale, la prosperità resta un vantaggio ingiusto. Fino a quando ci sono individui che non hanno diritto di partecipazione sociale e politica, i diritti dei pochi che ne fruiscono non possono considerarsi legittimi. Quali sono, dunque, le condizioni ineludibili della globalizzazione? Che cosa devono fare aziende, paesi o regioni di ogni parte del mondo, se non vogliono condannarsi all'arretratezza e alla povertà? Gli attori economici hanno bisogno soprattutto di “flessibilità”, per usare una parola oggi di moda. Con tale termine si vuole intendere qualcosa di desiderabile, ma per molti eso descrive il prezzo da pagare; dunque le sue connotazioni sono tali e tante che è difficile legarlo a un significato particolare. Eppure, in assenza di un grado notevole di flessibilità, le aziende non possono sopravvivere nel mercato mondiale. Nessuno potrebbe sostenere che non c'è abbastanza lavoro, ma un posto di lavoro con una retribuzione dignitosa è sempre più difficile da trovare; è un privilegio, non una realistica aspirazione alla portata di tutti. Mentre ci interroghiamo sui rischi, non dobbiamo dimenticarci di pensare alle soluzioni. Desideriamo la prosperità per tutti: ciò significa che siamo disposti ad accettare le esigenze poste dalla competitività nei mercati globali. Aspiriamo a società civili capaci di mantenersi unite e di costituire il solido fondamento di una vita attiva e civile per tutti i cittadini. Auspichiamo lo stato di diritto e istituzioni politiche che consentano non solo il cambiamento, ma anche la critica e l'esplorazione di orizzonti nuovi. Le sfide della globalizzazione esigono risposte che minacciano la società civile; l'affermarsi dell'anomia innesca il ritorno di tentazioni autoritarie che per alcuni sono rese più forti dalla loro percezione del modello asiatico. Che fare, allora, per preservare un equilibrio civile tra creazione della ricchezza, coesione sociale e libertà politica? Scienziati, economisti, filosofi e sociologi ne stanno discutendo: soluzioni non facili in un mondo che cambia faccia velocemente e inaspettatamente.

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