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Politica e clima, mondo in fiamme
05 gennaio 2025
Metamorfosi culturale, politica, ambientale, sociale, economica: ci avviamo verso un cambio d’epoca globale che nei prossimi anni infiammerà il pianeta da ogni punto di vista. Qual è oggi il criterio di valutazione del bene del male, in un’atmosfera di ribellione permanente? Non sono caduti solo i valori, ma anche i riferimenti, i modelli, le figure simbolo rispettate: dal medico all’insegnante, dal magistrato al giornalista. E così via. E lo vediamo ogni giorno: dall’assalto agli ospedali alle aggressioni scolastiche, dall’insulto ai giudici alla soppressione delle opinioni e perfino delle notizie.
Tra i segnali preoccupanti di questo fenomeno di intolleranza globale, c’è il ritorno delle destre che hanno incendiato il mondo nel Novecento fino al flagello della guerra mondiale.
Ecco perché il ritorno di Trump alla Casa Bianca suscita diverse preoccupazioni a livello globale, in particolare per le possibili conseguenze sulla politica e sull'azione climatica internazionale. Timori amplificati dal precedente ritiro degli Stati Uniti dall'Accordo di Parigi sul clima e il riscaldamento globale, avvenuto durante il suo primo mandato.
La vittoria del tycoon Usa rafforza anche le posizioni degli interessi legati ai combustibili fossili, promossi da sostenitori della sua campagna, un'influenza che rappresenta un ostacolo per l'azione climatica globale, compresa l'Europa e l'Italia, soprattutto se queste industrie non propongono soluzioni credibili.
Intanto l’estrema destra continua a fare il pieno di consensi in ogni angolo d’Europa, e non soltanto. Quel che stupisce è l’enormità del fenomeno, che si replica puntualmente con modalità simili, come se si trattasse di un unico schema. Come se bastasse “unire i puntini” per scorgere il disegno globale, che poi è con ogni evidenza la spia di un disagio globale. Un processo che appare inarrestabile, quasi “inevitabile”, nonostante assai spesso queste espressioni dell’estrema destra populista scivolino ben oltre il limite del “politicamente presentabile”. Alla base del fenomeno (non recentissimo, ma che continua a proliferare) c’è di certo la rabbia, la delusione degli elettori che non vedono più soluzioni nell’offerta politica dei partiti tradizionali, la disperazione conseguente alla crisi sociale ed economica che sta spingendo sempre più ampie porzioni del “ceto medio” verso la soglia della povertà. E quando le risposte concrete non arrivano, ecco che l’unica soluzione, o comunque la più rapida, è dar credito a chi si propone di “abbattere” quel sistema (uscendo dall’Europa l’esempio più emblematico è quello dell’Argentina, dove è stato recentemente eletto Javier Milei, il presidente con la motosega, definito da El Pais “un mix tra un predicatore messianico e una rockstar”). Ma demolire un sistema comporta sempre dei rischi, anche se questa “distruzione” avviene con strumenti all’apparenza innocui, graduali. In un’analisi pubblicata alcuni anni fa sul sito
Open Democracy
si leggeva tra l’altro: «La violenza non è più il mezzo preferito con cui i partiti di estrema destra sovvertono l’ordine democratico. Negli ultimi anni figure come Bolsonaro, Orban, Trump e forse anche Meloni, hanno imparato, con un grado di efficacia sempre maggiore, che possono usare le libertà e le istituzioni democratiche per minare la democrazia dall’interno. Le minoranze sono spesso un bersaglio, ma non è raro che gruppi come le élite intellettuali o ampie categorie, come la “sinistra”, vengano utilizzati come veicoli per mobilitare i loro seguaci. Una volta al potere, erodono le istituzioni democratiche intromettendosi nelle agenzie governative e nei tribunali».
Il fattore comune su cui si giovano le destre è la paura da un lato e l’incertezza del futuro dall’altro, alimentate anche da una rassegnazione e sfiducia nella politica tradizionale che si concretizza con l’astensione dal voto.
Le promesse di protezione hanno più effetto dei risultati economici nel tempo di molteplici crisi (pandemica, economico-finanziaria, energetica, perfino bellica), e garantiscono consensi. Si tratta di crisi di natura diversa, ma che hanno fatto comunque percepire collettivamente un’ansia, un’insicurezza a cui la destra ha saputo rispondere in termini che sono apparsi convincenti. C’è poi da considerare anche la forte perdita di potere sociale delle persone, una marginalizzazione dovuta alla crescita delle disuguaglianze, al progressivo impoverimento: tutti effetti provocati da quello che si può definire “dominio del neoliberismo”, che però non è in grado di rispondere ai bisogni dei cittadini, soprattutto della classe media, in via di estinzione con la polarizzazione sociale tra poveri e molto ricchi, tra una maggioranza senza potere e una minoranza con pieni poteri e intollerante alle regole, alle istituzioni, ai controlli e ai bilanciamenti del potere, considerati come ostacoli alla governabilità. E’ la sfiducia nella democrazia, in nome di una presunta razionalità neoliberista che ha come deriva l’offerta autoritaria e conservatrice, eliminando dal vocabolario sociale termini come giustizia sociale, inclusione, riduzione delle disuguaglianze. E’ il trionfo della grande enfasi del “fare da sé”, nel presentare la libertà individuale come chiave per “riuscire nella vita”, vanificando il campo semantico della politica progressista, rendendo inutili e desuete parole come uguaglianza, solidarietà, libertà. Le responsabilità di questa situazione vanno ricercate non solo a destra, ma anche a sinistra. Come ha sostenuto qualcuno, in questi ultimi anni, anche la proposta politica della sinistra è risultata indistinguibile da quella della destra liberista. La leadership “moderata” ha portato sul campo due visioni molto simili: una leggermente più orientata a destra, l'altra un po' più a sinistra. Tuttavia, entrambe proponevano le stesse soluzioni, specialmente in ambito economico e sociale, con un'enfasi sulle privatizzazioni, sulla competitività e su una progressiva riduzione, se non addirittura smantellamento, dell'intervento pubblico. Ascoltare ogni giorno discorsi razzisti fa sentire tutti un po’ razzisti con la tentazione di distinguere tra “noi” e “loro”: in questo viene meno il lavoro di civilizzazione, il nostro stare insieme per contrastare questa tendenza.
E’ il seme del populismo che scavalca le mediazioni e i filtri per far sì che un leder sia l’unico capace di interpretare il volere del popolo in nome di una falsa governabilità che finisce per trasformarsi in autoritarismo, come la storia ci ha già insegnato e come oggi appare l’Ungheria di Orban. Nascono di qui le proposte di premierato e di autonomia differenziata che dovrebbero essere antitetiche, ma che un governo senza regole che non siano quelle del potere senza controllo, riesce a cavalcare. I nazionalismi che stanno riemergendo rappresentano una causa inevitabile di conflitti tra le nazioni e alimentano quella “tensione bellicista” con la quale ormai conviviamo quotidianamente. È sorprendente come la questione delle guerre sia tornata a essere centrale nel dibattito pubblico, non solo perché esistono, ma anche per la crescente discussione sulla spesa per gli armamenti. Stiamo scivolando, quasi senza rendercene conto, verso una mentalità che accetta la guerra, sia come una possibilità, sia come un evento inevitabile. Quando gli Stati si riarmano, ogni cosa sembra diventare possibile. È inquietante pensare che noi italiani arriviamo a "vantarci" di essere tra i maggiori finanziatori di armi destinate all'Ucraina, quando nel nostro Paese soffriamo di una cronica carenza di risorse in tutti i settori: dalla sanità alla scuola, ai servizi.
E il mondo si surriscalda e va in fiamme, dal clima alla politica, in un inferno globale dove muore la speranza.
Felice de Sanctis
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Editoriale rivista “Quindici” novembre 2024
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Felice de Sanctis
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