di Marco de Santis
Nel 1901 le carriere di Pascoli e Salvemini s'incrociarono. Nel 1897 Giovanni Pascoli (nella foto: Giovanni Pascoli tra le sorelle Ida e Maria (Castelvecchio, Museo pascoliano) lasciava lo straordinariato di grammatica greca e latina all'Università di Bologna e si trasferiva a Messina. Infatti era stato nominato professore ordinario di letteratura latina all'Università messinese per meriti speciali, in base all'articolo 69 della legge sull'istruzione varata dal ministro Gabrio Casati nel lontano 1859. I meriti speciali consistevano nella sua fama di latinista, cresciuta negli anni a partire da quando, nel 1892, aveva vinto per la prima volta il concorso di poesia latina indetto dall'Academia Regia Disciplinarum Nederlandica di Amsterdam, fama consolidata dalle successive medaglie d'oro e dalle antologie latine Lyra (1895) ed Epos (1897). Naturalmente Pascoli era anche celebre come sensibile poeta in lingua per le raccolte Myricae (1891) e Poemetti (1897).
Gaetano Salvemini, invece, essendo risultato nel 1901 secondo in graduatoria al concorso per l'insegnamento di storia moderna nell'Università di Catania, ebbe l'accesso come professore straordinario, per l'anno accademico 1901-1902, all'analoga cattedra dell'Università di Messina, rimasta vacante. A Messina, appunto, i due si conobbero come colleghi universitari. Una traccia del loro rapporto si trova nei carteggi salveminiani pubblicati da Elvira Gencarelli e Sergio Bucchi.
Informato del trasferimento all'Ateneo messinese dal Liceo “Galilei” di Firenze, dove Salvemini era stato docente di storia e geografia, il suo generoso e colto amico fiorentino Carlo Placci, da Santeria (Torino) il 4 novembre 1901 gli chiedeva per lettera: «Quando va a Messina? E farà una bella prolusione? Ho già curiosità di sapere le sue impressioni su Pascoli, di cui metà del cervello è da gran poeta».
Salvemini, tornato da Messina a Molfetta, gli rispose il 12 dicembre successivo: «Pascoli è un simpaticissimo uomo, grosso, mal vestito, sempre in movimento, parlatore a volte impacciato e asmatico, a volte caldo e felicissimo: da vicino è molto più simpatico che da lontano, perché appare sincero in tutto e per tutto. Sincero naturalmente di una sincerità da artista, che spesso prima vede l'immagine e poi l'idea, e l'idea la vede in grazia dell'immagine, ed è pronto a perdonar tutto al contenuto purché sia introdotto da una forma originale e bella. Un modo di pensare, questo, che io non riesco ad accettare. Per esempio, l'altra sera, quando andai a salutarlo prima di partire, si parlava dello sciopero universitario di Messina; e lui ad un tratto: se i tumulti continuassero, vorrei fare un discorso agli studenti e direi loro: “Non profanate l'arma dello sciopero, di cui si serve il proletario per conquistare il suo diritto; voi non siete degni di maneggiarla, ecc. ecc.”. Come vede, l'atteggiamento oratorio è bello; ma è... un atteggiamento oratorio. Fortunatamente è sincero. Mi disse che la più bella sua poesia è l'Aquilone; e mi pare che abbia ragione. Accanto a lui c'è una sorella [Maria] con due occhi romagnoli molto belli e molto dolci; forse troppo dolci e fan ricordare un po' troppo le poesie del fratello. Chi ha imitato? Io temo che abbia imitato lei le poesie del fratello. Vive solo per lui; quando si parlava delle vacanze, saltò su a fregarsi le mani e ad esclamare: “Che piacere, Giovannino, avremo vacanza!”. Nell'insieme una coppia incantevole e tale da suscitare molta simpatia. Ne sono molto contento!!!».
Pascoli insegnò nell'università messinese fino al 1903, quando ottenne il trasferimento all'Università di Pisa. Finché rimase a Messina, alternò l'insegnamento con lunghi periodi di riposo, insieme a Mariù, in una casetta a Castelvecchio di Barga nella valle del Serchio in Garfagnana, presso Lucca. La casetta campestre prima fu affittata e poi acquistata nel 1902 con i faticati risparmi e l'oro delle medaglie di Amsterdam. In uno di tali periodi di vacanza, Salvemini, sollecitato dall'amico di un comune amico, Antonio Dal Prato, articolista dei periodici faentini «Il Socialismo» e «Il Risveglio» e medico condotto a Faenza, gli scrisse da Messina il 5 marzo 1902, scherzando con citazioni manzoniane e con l'aggettivo “straordinario”: «Caro Pascoli, a scrivere “caro Pascoli” sento un certo turbamento, perché temo che se tu non distruggi subito questa lettera, la sentenza tutt'altro che ardua dei posteri dirà che il sottoscritto era un gran presuntuoso a scrivere “caro Pascoli”. Ma speriamo che qualche professore straordinario di storia trovi un documento, che dimostri essere stato il sottoscritto nutrito alla stessa mangiatoia messinese del Pascoli, e che per questa ragione – e non per altre – gli dava del “caro Pascoli”. Ora che ho finito il preambolo, entro in medias res (si dice così in latino?). Ti mando un papiro a me diretto (direbbe Ferravilla) di un amico, professore a Faenza amico anche di Dal Prato; il quale dice che un suo amico (Dio eterno che catena di amici!) desidererebbe scriverti, ma non osa. Se tu credi che possa osare, manda un biglietto da visita a me senza bisogno di perder tempo a scrivere. Anzi, se vuoi rendere felice un uomo, il biglietto mandalo al Casali stesso, il quale è un tuo antichissimo ed entusiasta ammiratore, e sarà fuori di sé dalla gioia. Io avviserò il Casali che il tuo biglietto vorrà dire che il suo amico può osare. Scusami del tempo che io, il mio amico e l'amico del mio amico ti facciamo perdere: sono disgrazie, che capitano nella vita di chiunque si chiama con un nome... pubblico. Presenta i miei rispettosi saluti e auguri primaverili alla Signorina, e credimi tuo straordinario e perciò devoto collega e – col tuo beneplacito – amico. Scusa gli sgorbi».
Pascoli, riprendendo spiritosamente il gioco di parole di Salvemini e ricordando l'articolo 69 della legge Casati, gli rispose da Barga l'8 marzo 1902, con una giocosa menzione del comune collega Michele Barbi, dantista e docente di letteratura italiana: «Mio carissimo, straordinariamente commosso dalle tue parole davvero non ordinarie, ho scritto subito al Casali, dicendogli di osare, cioè dicendogli di dire al suo amico, che osi scrivere a un uomo, del resto, come sai, ordinario; se si vuole anzi, straordinariamente ordinario (a mente dell'art. 69). Da Roma ci sono buone notizie per la nostra causa. Oh! Michel Barbetta, che fai? Sapete che appena arrivato, nella notte fui riscosso da un terremoto quasi terribile che non ha lasciata illesa una casa e intrepido un cuore? Fuori che il mio e quel di Mariù. Sono stato imputato d'averlo portato io in tasca, il tremoto, da Messina, dove ce n'è in copia, a Barga. Ora tutto è quieto. Un abbraccio, carissimo amico, a te e agli altri… simpatici. Presto, a Ganzirri [presso Messina], faremo l'istantanea del gruppo dei medesimi. E sarà ottimo ricordo per ognuno».
Salvemini, impegnato nelle elezioni amministrative di Molfetta, da Messina mandò a sua volta a Pascoli una lettera solo il 5 aprile seguente, prima menzionando un dono mangereccio di Antonio Dal Prato, e poi riprendendo lo scherzo sull'aggettivo “ordinario” e sul terremoto (con un affetto paterno che sarebbe stato poi crudelmente provato il 28 dicembre 1908): «Caro Pascoli, Tugnì Dal Prato per le feste della Santissima Pasqua si è ricordato degli amici lontani, e ci ha mandato un magnifico formaggio fresco romagnolo per ciascuno. Il mio ce lo siamo mangiato subito quasi per metà; il tuo l'abbiamo messo da parte e lo conserviamo con tutto il rispetto che a un formaggio così autorevole e ordinario si addice. Bada però che, se io vedessi qualche principio di avaria, mi affretterei subito a fargli raggiungere il fratello cadetto. Scegli dunque: o la primavera a Barga, o il formaggio romagnolo a Messina. Nel ritornare alla falcata Messina, pensa che io sono padre di tre innocenti creature e perciò non portarci dietro a te nessun terremoto. Tanti rispettosi saluti alla Signorina Maria e a te una riverenza comme il faut».
L'epiteto «falcata Messina» rivela una complicità lessicale che per vie traverse rinvia a una glossa di Tucidide e verosimilmente a un momento di amicale erudizione di Pascoli o di Luigi Alessandro Michelangeli, docente di letteratura greca a Messina. Come cordiali colleghi, Salvemini e Pascoli si scambiarono alcune pubblicazioni, e certamente il primo donò al secondo lo scritto su L'abolizione dell'ordine dei Templari, uscito sia nell'«Archivio storico italiano» (1895) sia nel volume Studi storici (1901). Pascoli, che come esegeta di Dante aveva dato alle stampe i volumi Minerva oscura (1898), Sotto il velame (1900) e La mirabile visione (1902), inviò alla rivista «Il Marzocco» di Firenze l'articolo Colui che fece il gran rifiuto, identificando l'ignavo a cui Dante allude nei versi 59-60 del terzo canto dell'Inferno in Ponzio Pilato (al quale la critica recente preferisce Celestino V). Nell'articolo, pubblicato il 6 luglio 1902, Pascoli lasciava al «caro Salvemini» il compito di spiegare perché l'Alighieri avesse chiamato «novo Pilato» il re di Francia Filippo IV il Bello, che aveva fatto abolire da papa Clemente V l'ordine dei Templari.
Salvemini, nominato commissario per gli esami di licenza in un istituto pareggiato di Altamura, si vide recapitare una busta col lavoro del collega, lo lesse e dalla città murgiana il 10 luglio 1902 lo ringraziò con cameratesca giovialità: «Caro Pascoli, grazie tante del tuo bellissimo e convincentissimo – per quanto posso giudicare io, che non sono dantista – articolo su Pilato, e della maniera affettuosa con cui mi nomini, e che mi ha fatto sussultare per la contentezza e per superbia. È ben vero che mi hai amareggiato l'anima con quell'umiliante “illustre” e con quell'orribile “regio commissario”, sottolineato per giunta!, dell'indirizzo. Perché hai voluto consacrare il ricordo di un ignominioso fatto in un documento storico? Buon per te che sei gerarchicamente uguale al povero Luigi Adriano Michele Angelo [recte Luigi Alessandro Michelangeli] e tieni in pugno o se più ti piace nelle ginocchia i miei futuri più o meno illustri destini: se così non fosse ti darei querela per diffamazione senza facoltà di prova! — [Ettore] Ciccotti è stato nominato a Messina [docente di storia antica]. Presenta i miei rispettosi saluti alla Signorina Maria e credimi tuo sincero ed affezionato amico».
Nel giugno del 1903, come s'è anticipato, Pascoli ottenne il trasferimento all'Università di Pisa, dove insegnò grammatica greca e latina fino al 1905, per poi ereditare a Bologna la cattedra di letteratura italiana del Carducci, a cui dedicò la prolusione del 9 gennaio 1906. Salvemini, invece, rimase nell'Ateneo messinese, dove diventò professore ordinario di storia moderna nel febbraio del 1906. I loro rapporti non s'interruppero, ma, anche per la distanza, si diradarono. Pascoli, tuttavia, mostrò di sentirsi ancora compagno di strada di Salvemini, cui inviò una cartolina postale che reca il timbro del 31 gennaio 1907: «Noi faremo, se tu non credi troppo orgoglio da parte mia, faremo stretti a braccio a braccio la nostra via che è veramente di ascensione alle vette serene. Infonderemo (tu non puoi non crederlo necessario!) il sangue caldo nel freddo gelido cadaverico socialismo marxista».
Poi le strade si separarono, soprattutto quando il socialismo umanitario di Pascoli diventò umanitarismo nazionalista. Il momento di massima divaricazione si ebbe a causa della campagna di Libia. Tra l'agosto e il settembre del 1911, su «La Voce» di Prezzolini, Salvemini tuonò contro il «trabocchetto tripolino» e lo «scatolone di sabbia» della Libia inadatto ai lavoratori italiani e nel primo numero dell'«Unità», il 16 dicembre successivo, non risparmierà accuse all'«inerzia incosciente» dei socialisti. Pascoli, invece, parlando a Barga il 26 novembre 1911 «per i nostri morti e feriti» nella guerra italo-turca già iniziata, pronunciò il retorico discorso La grande Proletaria si è mossa, vedendo nella conquista libica una valvola di sfogo per l'emigrazione.
Pascoli, minato dall'etilismo e dalla cirrosi epatica, morirà precocemente di lì a pochi mesi, il 6 aprile 1912. Salvemini, che nei primi tempi messinesi oltre a qualche atteggiamento retorico, aveva anche ravvisato un fondo di sincerità nell'animo pascoliano, non perdonerà mai al compagno di strada la svolta imperialistica del 1911. Al biografo Enzo Tagliacozzo consegnerà un ritratto nettamente negativo di Pascoli. Parlando di lui, dirà che era «del tutto insincero e privo di opinioni ben radicate»; dirà che apparentemente era «tutto miele» e pareva «il Virgilio delle Georgiche», ma in realtà covava in sé tenaci rancori. Pascoli detestava D'Annunzio; tuttavia, quando passò nell'Ateneo pisano, nella prolusione inaugurale – osserverà Salvemini – esaltò l'Imaginifico, chiamandolo «fratello», e più tardi, imitando lo stesso D'Annunzio, «impugnò la tromba epica» al tempo dell'impresa libica.
Anche Salvemini detestava D'Annunzio.