MOLFETTA - Code di trota, quaglie e fagiani, anguille in pasta reale, tacchino guarnito, dentice in brodetto e un formaggio di Monteborè a forma di torta nuziale: erano queste solo alcuni dei piatti serviti in una delle otto serie di portate preparate per il matrimonio di Giangaleazzo Sforza con Isabella d’Aragona.
A parlarcene è il prof. Mauro di Giandomenico, docente di Storia della Scienza e Presidente del corso di laurea di interfacoltà in Beni Enogastronomici (Università di Bari), nel corso del terzo appuntamento della rassegna “Parole di fuoco” alla sede del Carro dei Comici, in cui sono intervenute anche le dottoresse Sabrina Veneziani, Betty Campanile e Lucia de Frenza e l’artista Bice Perrini.
Anche questa volta il tema e gli argomenti trattati dimostrano una certa originalità: i relatori ci proiettano nel mondo incantato e fastoso dei grandi ricevimenti presso le corti o nell’eleganza raffinata dei primi ristoranti, realizzando così un’interessante excursus storico di quella che è una vera e propria fetta di cultura, la gastronomia.
Non inopportuni sono infatti i riferimenti ai Manoscritti marxiani in cui è fondato filosoficamente il rapporto tra cibo e cultura e a “Il cotto e il crudo” di Strauss in cui si ricorda che il cibo nel momento in cui viene cucinato diventa espressione di civiltà, non legato quindi solo l’attività biologica ma anche quella sociale.
E’ allora interessante capire come il rapporto col cibo e dunque i modi conviviali si siano modificati nella storia: la nostra carrellata inizia dunque tra i grandi banchetti nuziali del 500. L’usanza di alternare grandi portate a musiche e danze ci ricorda un po’ i nostri matrimoni, anche se a volte quelli cinquecenteschi arrivavano a superare anche le nostre mastodontiche feste per numero di portate e per tempo di durata, che in alcuni casi si stendeva su due giornate. Tuttavia ci apparirebbe di certo bizzarra la presentazione dei cibi: gli animali venivano serviti rivestiti della loro stessa pelle e piumaggio, quasi fossero ancora vivi, ed erano poi nuovamente smembrati e scuoiati per consumarli.
L’organizzazione dei banchetti era estremamente scrupolosa, generalmente affidata a uno scalco che era un membro dell’aristocrazia; su di lui ricadeva non soltanto la responsabilità della buona riuscita dei festeggiamenti, ma anche quella di eventuali avvelenamenti. Per capire quanta importanza si attribuisse a questa carica, basti ricordare che nelle già citate nozze di Giangaleazzo sforza, esso fu rivestito da Leonardo da Vinci.
Il massimo dello sfarzo, della volontà di impressionare, stupire, meravigliare si raggiunge però nella corte del Re Sole, dove per ogni festa venivano montate incredibili scenografie. E se è vero che il cuoco segreto del papa Pio V era perennemente insoddisfatto per il poco appetito del pontefice, viceversa la continua insoddisfazione del Re Sole portò il suo cuoco al suicidio.
Col neoclassicismo il desiderio di sbalordire con banchetti superlativi si spinge fino a far perdere anche l’importanza della bontà, o addirittura della commestibilità dei cibi.
I cuochi-artisti realizzano meravigliose architetture che rispecchiano l’ambiente in cui sono collocate. Sculture, colonne, alzate, veri e propri monumenti che giocano di chiari e scuri, di pieni e vuoti.
I materiali, per lo più strutto e altri grassi animali, simulano l’oro e gli altri metalli preziosi e sono spesso arricchiti da conservanti che ne alterano la composizione rendendoli quasi immangiabili. Il prodotto finale d’altronde, vicino ad essere un’opera d’arte, difficilmente è pensato per essere mangiato, anche perché non sarebbe neanche semplice consumarlo.
L’era dello sfarzo esasperato entra in crisi però con la scalata sociale della borghesia e l’industrializzazione sempre più capillare, ma è soprattutto un evento determinante, quello della rivoluzione francese, che lascia senza lavoro molti cuochi di corte o comunque al servizio di nobili. Si diffonde così sempre di più la moda del ristorante modernamente inteso, un luogo d’incontro sempre elitario, ma non di casta; assume allora un ruolo sempre minore la spettacolarizzazione del cibo e di certo si riducono le portate a poco più del necessario, per evitare di svuotare completamente le tasse dei pur benestanti clienti.
Un ruolo fondamentale è giocato da Escoffier, l’Henry Ford della cucina, che vi applica la catena di montaggio, e da Boulangerie, che invece liberalizza la vendita delle zuppe, prima monopolio di una casta.
Si diffonde anche la tendenza del caffè ristorante, che tra le 10 e le 12 offre pranzi veloci a uomini d’affari e politici. E’ qui che nasce la pasticceria mignon e l’uso di esporre bavaresi, veneziane, piccole sacher, con relativi prezzi, a suscitare l’acquolina e il desiderio nel consumatore.
Ancora una nuova rivoluzione del modo di intendere la cucina arriva coi futuristi: Martinetti stesso collabora alla fondazione dello storico “La cucina italiana”, mentre viene proposto il gusto per l’innovazione e la velocità del pasto, che si esplica nella possibilità di godere di molti sapori diversi in pochi istanti. Un altro espediente usato è anche quello della decostruzione, cioè della presentazione del piatto col cibo già tagliato in bocconi.
La conferenza si chiude con l’intervento di Bice Perrini, un’artista che lavora col cibo, applicandolo al campo della pittura. I suoi quadri si colorano allora di barbabietole, frutti di bosco, salsa di pomodoro; alle posate si sostituiscono pennelli e spatole e il pane diventa la tela.
L’intento è quello di dare alla tavola un approccio multisensoriale, che gioca su odori invitanti e sapori gustosi che collimano col piacere della vista, nell’atmosfera creata da musiche appositamente selezionate, così che l’atto del mangiare diventi realmente superiore a quello del mero nutrirsi.
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