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Molfetta, seconda giornata di “Oltre le quinte. Destinazione Futuro”: dialogo necessario tra scuola e mondo del lavoro
23 dicembre 2011

MOLFETTA - Circa il 48% degli studenti italiani dei licei si dichiarano non soddisfatti del loro corso di studi, notevolmente più bassa risulta essere la percentuale degli studenti degli istituti tecnici e geometri, 2 geometri su 3 risultano gratificati dai loro studi.Questi i dati emersi da un articolo del Corriere della Sera letto da Sabino Lafasciano, dirigente scolastico dell’ITCGT “Salvemini” di Molfetta, in apertura della conferenza organizzata in occasione della seconda giornata di «Oltre le quinte. Destinazione Futuro» (nella foto Carpentiere, Sasso, Lafasciano, Minervini).
«Nell’istruzione tecnica s’impara facendo e per questo occorre cambiare il modo di fare scuola», ha precisato Lafasciano. L’investimento nella formazione dei ragazzi deve, perciò, essere tangibile. La puglia ha ottenuto molti finanziamenti dall’Europa, con cui sono stati aperti nuovi laboratori scolastici e rinnovati quelli obsoleti. «Bisogna evitare di chiedere soldi alla politica - ha continuato Lafasciano - il problema non è la povertà di risorse, ma la povertà di idee e di progetti».
«In un momento di forte crisi come questo la nostra scuola sta cercando in tutti i modi di mettersi in gioco, di collocarsi nel territorio, di riscoprire il proprio ruolo», ha dichiarato Guglielmo Minervini, assessore regionale alle Infrastrutture. È necessario che la scuola si interroghi sul senso dei notevoli cambiamenti provocati da questa crisi irreversibile, che sta costringendoci a cambiare le nostre vite, le nostre abitudini. «Una scuola tecnica deve anzitutto pensarsi in una dimensione globale, in un mondo sempre più interdipendente - ha continuato Minervini - in secondo luogo, è necessario essere responsabili delle proprie azioni, è la cosiddetta sfida alla sostenibilità che deve sollecitare la nostra attenzione».
Anche nell’edilizia si sta avviando una sfida copernicana. Costruire oggi significa assolvere una responsabilità sostenibile, significa avere competenze sempre più complesse rispetto al passato. Tutto il mondo si sta preparando a questa rivoluzione al cui centro si colloca l’ambiente. «Se la scuola vuole ritrovare se stessa deve collocarsi in questa sfida - ha concluso Minervini - e deve trarre da questi mutamenti il senso della sua missione».
«I fondi ricevuti per migliorare le nostre scuole ed i nostri laboratori devono essere considerati solo un mezzo per raggiungere mete sempre più alte», il consiglio di Corrado La Forgia, direttore Bosh. È opportuna una costante comunicazione tra scuola e azienda per rinnovare entrambe. Molte sono le aziende che considerano lo stage come un ostacolo al regolare svolgimento del proprio lavoro, pur essendo uno stimolo fondamentale all’innovazione. Interrompere questo dialogo, significa rinunciare a un percorso virtuoso fondamentale per l’interesse reciproco. «Il preside deve trasformarsi in manager, deve valutare le opportunità e, se il territorio locale non offre risorse sufficienti, deve spostarsi fuori - ha precisato La Forgia - bisogna aprire la mente, capire che il nostro territorio non è l’unica possibilità».
Ogni stage, inoltre, deve essere svolto con grande senso di responsabilità. Per questo è necessario che preside e docenti svolgano funzioni di controllo e che i ragazzi siano esigenti, pronti a ribellarsi qualora le loro attività non rispondano alle loro aspettative.
«Forse a causa della grave crisi odierna, le imprese guardano a se stesse in maniera egocentrica - ha spiegato Vincenzo Carpentiere di Confindustria - e accogliere gli studenti diventa sempre più difficile».
Molto spesso nell’impresa vige una situazione di routine che impedisce di cogliere l’importanza di uno stagista. Oggi la formazione continua dei dipendenti e l’acquisizione di competenze da parte di futuri dipendenti è ineludibile. Scuola e imprese devono guardare nella stessa direzione, avere degli obiettivi in comune, è necessario discutere sul futuro, confrontarsi e dialogare insieme.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                   
Negli ultimi anni la scuola ha molto sofferto della mancanza di attenzione sociale da parte delle imprese, della cultura, e della politica assumendo un ruolo sempre più marginale. «La scuola invece deve essere pensata come un luogo di grande vitalità, è uno organismo vivente», le parole di  Alba Sasso, assessore regionale all’Istruzione e alla Formazione professionale.
Dirigenti e insegnanti si confrontano continuamente con ragazzi che chiedono di essere ascoltati, di imparare, portatori essi stessi di un fondamentale bagaglio culturale. «La scuola è il primo luogo che si adegua al mondo che cambia, perché il mondo che cambia costituisce la sua ossatura». I bambini portano ogni giorno in classe il loro sapere, le loro storie e le loro esperienze. È, quindi, indispensabile una feconda comunicazione, un’interazione tra docenti e studenti. Il cammino del sapere nella nostra epoca è il frutto di questa condivisione, di questo reciproco apprendimento tra insegnanti e ragazzi.
Alla fine dell’incontro sono stati premiati i vincitori del concorso «Leggere scrivere inventare per essere creativi», bandito dai docenti di Lettere dell’Istituto “Salvemini”, per dimostrare che anche gli studenti di un istituto tecnico, possono imparare a scrivere e a comporre poesie e filastrocche.
 
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Autore: Loredana Spadavecchia
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Un tempo i bambini imparavano i fondamenti dell'aritmetica a partire dalla prima elementare. I numeri e il calcolo servivano per fare la spesa, per cambiare una banconota, per valutare le entrate e le uscite allo scopo di non spendere più di quanto si guadagna. Oggi queste cose non solo non sono scomparse, ma la nostra vita, rispetto a una volta, richiede molti più numeri e calcoli per pagare le imposte, i pedaggi autostradali, i mutui ipotecari. In una parola, la vita attuale richiede più numeri e più calcolo di un tempo, ma abbiamo perso la consuetudine di trattarli perché li abbiamo affidati alle macchine digitali. Consegnandoci a quelle che Stoll chiama “protesi tecnologiche”, siamo diventati meno autosufficienti. Ma gli inconvenienti più gravi dell'informatizzazione generalizzata della scuola sono la marginalizzazione della realtà “fisica” a favore di quelle “virtuale” e la riduzione drastica dei processi di socializzazione, con tutte le conseguenze etiche e psicologiche che la cosa comporta, per effetto dell'isolamento indotto dal rapporto del singolo individuo con il suo computer. Per quanto concerne il primo inconveniente non c'è dubbio che la percezione della “realtà”, la capacità di muoversi in essa con abilità e destrezza, la consapevolezza delle difficoltà che essa pone rispetto alle facilitazioni del virtuale sono le prime vittime dell'inondazione dei computer. E questo soprattutto a scuola, dove i ragazzi che la frequentano sono proprio in quell'età dove è assolutamente necessario acquisire la differenza che corre tra la realtà e il sogno, l'immaginazione, il desiderio. Non facilitare questo passaggio, che già Freud indicava, dal principi di piacere al principio di realtà, significa ritardare l'adolescenza fino all'età della maturità e trovarsi disadattati quando questa arriva, senza che nulla si sia fatto per impratichirsi. Come scrive opportunamente Raffaele Simone: “Possiamo non accorgerci che la diffusione della conoscenza mediatica dell'informatica è la più formidabile barriera che si sia mai presentata nella storia verso il contatto della realtà? Con un software opportuno posso visitare Roma senza averci mai messo piede, navigare sotto l'oceano senza bagnarmi e perfino fingere un gioco violento senza neppure graffiarmi. E' reale questo? O è adatto piuttosto a una situazione di emergenza e di penuria? A me pare che le tecnologie cognitive informatizzate siano una drastica forma di de realizzazione, una via per sostituire il “non vero” al “vero”, il “non reale” (= il virtuale) al “reale”, per simulare delle cose che non si possono o non si vogliono fare. Il nostro fare si ridurrà a una seduta in cui si smanetta su una tastiera e si occhieggia un monitor? Penso a questa eventualità con orrore, ma la vedo minacciosamente in marcia verso di noi”.
“Se non siamo in grado di guidare il nostro destino (futuro), non per questo dobbiamo rinunciare a sorvegliarlo”. Che rapporto c'è tra istruzione e cittadinanza? La scarsità di prospettive di lavoro in campo umanistico non rischia di accentuare l'indirizzo tecnico-scientifico delle nostre scuole medie, superiori e universitarie, emarginando arte, letteratura e filosofia, perché non danno competenze specifiche? E che significa una formazione scolastica e universitaria che, sul modello americano, si indirizza sempre più verso la specializzazione, in un tempo come il nostro in cui le continue migrazioni creano società multietniche, dove sarà possibile convivere solo se buoni e sostanziosi insegnamenti umanistici avranno creato quel “relativismo culturale” che insegna agli uomini il rispetto delle differenze? Non è proprio oggi urgente incrementare a dosi massicce la cultura umanistica per rendere l'istruzione all'altezza dei problemi che il nostro tempo crea intorno alla convivenza e ai diritti di cittadinanza? Questa educazione filosofico-umanistica è oggi molto urgente, non tanto per compensare il tecnicismo specialistico, quanto per riuscire a convivere in società sempre più multietniche dove, senza una cultura ampia, critica e perciò tollerante, sarà sempre più difficile coabitare se si resta rattrappiti nella difesa della propria specialità. E qui non penso solo ai pregiudizi delle persone ignoranti, ma all'”ignoranza” umanistica” dei tecnici, degli scienziati, degli operatori di mercato, e più ampiamente di tutti quegli attori di competenze specializzate che, a sentirli parlare, sembrano uomini che, all'alba del mondo, stanno cominciando a crearsi un'idea di quel che succede in quello spazio impreciso e confuso che comincia appena fuori dal loro ufficio e dal loro laboratorio. E questo perché? Perché nessuno ha insegnato loro a pensare con la propria testa, e a scostarsi di qualche centimetro da quel che in generale si dice su questo o quell'altro argomento, perché ogni piccola differenza, ogni opinio0ne che pretenda di essere personale, esige che in qualche modo venga giustificata, argomentata, compresa, e capaci non si è. Un laureato in Ingegneria, in Biologia, in Tecnica bancaria dovrebbe essere in grado di dimostrarsi un interlocutore intelligente sul tema delle differenze religiose con conseguenti diversità di usi e costumi, sul tema della modificazione della famiglia nella società complessa, sul controllo della sessualità, sul futuro dei giovani. E invece no. Quando non è calcio, è film, perché sempre più va diffondendosi quell'idea fuorviante secondo cui la cultura è “spettacolo”, per cui basta andare al cinema o mettersi in coda a una mostra per aver pagato i debiti con la cultura. (Tratto e condensato da: I miti del nostro tempo – Umberto Galimberti).
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