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Molfetta, Progetto Policoro: il lavoro, un diritto da difendere e da tutelare
19 aprile 2011

MOLFETTA - «Il lavoro, un diritto o un principio?», questo il quesito con cui, don Paolo Malerba (foto) ha aperto la conferenza «Tra riconoscimento sociale e flessibilità: il lavoro» organizzata dal Progetto Policoro e tenutasi nella Sala Turtur. Stando a quanto afferma l’articolo I della nostra Costituzione, l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. Ciò nonostante il lavoro non può e non deve essere considerato un principio, bensì un diritto che ognuno deve difendere.

Il lavoro è sempre stato al centro della vita dell’uomo, ma ha ricevuto diversi significati e definizioni nelle varie epoche della storia. Oggi, come ha ricordato don Malerba, viviamo in una nuova dimensione del lavoro, caratterizzata dal diverso significato da attribuire al capitale. «Nella società della “conoscenza”, non si parla più di capitale così come lo intendeva Marx» ha dichiarato don Malerba. Si è diffusa la consapevolezza che il capitale non è costituito dalle risorse materiali, dal denaro utile a produrre, il vero capitale è l’uomo, la nostra intelligenza e soprattutto la nostra conoscenza. «Chi manca di conoscenza, manca di capitale» ha affermato don Malerba. La conoscenza è l’unica ricchezza della società postcapitalistica, è l’unico fattore di produzione, accantonando tanto il capitale quanto il lavoro.
Purtroppo, ancora oggi il lavoro è legato al produrre, il lavoro di una madre che si occupa della casa e della cura dei suoi figli non è ancora riconosciuto perché non porta ad alcuna produzione. Nella società delle “organizzazioni” in cui viviamo il lavoro occupa un posto preminente «l’organizzazione deve essere come un’orchestra, tutto deve funzionare alla perfezione: bisogna rendere produttive le conoscenze, bisogna creare squadra, efficienza, ma questa società non ha al centro l’uomo» ha affermato don Malerba.
La Chiesa si ribella a questo tipo di società. «Il lavoro fa parte dell’esistenza umana, ma non esaurisce il senso né salva l’uomo, non lo santifica ma neppure lo condanna; Dio comanda all’uomo non solo di lavorare, ma anche di riposare il sabato» haribadito il relatore. Il lavoro secondo don Malerba è oggettivo quando fa riferimento all’insieme di attività, risorse e tecniche di cui l’uomo si serve per produrre e dominare la terra; è soggettivo quando mette al centro l’agire dell’uomo in quanto essere dinamico, capace di compiere varie azioni che corrispondono alla sua vocazione.
Nell’era della globalizzazione il diritto al lavoro ha subito un’evoluzione verso la flessibilità , con la conseguente nascita del lavoro interinale o temporaneo. Tutte le forma di lavoro instabile, ha precisato il relatore, non danno garanzie di continuità nel tempo, per cui non forniscono una fonte di reddito su cui fare affidamento, costringendo l’individuo a molte rinunce: il matrimonio, la nascita di un figlio, l’acquisto di un auto, la decisione di un mutuo. Il lavoro “atipico”, ha precisato don Malerba, «rischia di distruggere la capacità del lavoratore di costruire un proprio percorso coerente, non si hanno le protezioni e le garanzie sociali che hanno tutti i lavoratori a contratto indeterminato». Il lavoro atipico inoltre produce isolamento, i lavoratori con contratti di breve durata, non riescono infatti a costruire dei rapporti stabili con i colleghi. L’instabilità dell’impiego, dunque , indebolisce l’integrazione sociale.
Il vero problema della nostra società è la carenza del sistema del Welfare: «In mancanza di un sistema di protezioni sociali diffuse e garantite a tutti i cittadini, il lavoro finisce col diventare l’unico meccanismo di tutela dei rischi sociali. Il posto di lavoro, dunque, per svolgere a pieno tale funzione di “garanzia” deve essere il più fisso e garantito possibile» ha dichiarato don Malerba.
Tutti noi oggi, secondo don Malerba, dovremmo iniziare a pensare in maniera diversa il rapporto con il lavoro, ma soprattutto dovremmo capire che lo Stato non può sostituirci, «Noi siamo lo Stato!» ha tuonato don Malerba, dunque, non è più pensabile una forma di Stato “papà” che ci aiuti a trovare un’occupazione o un lavoro stabile. E’ necessario un impegno concreto da parte di noi stessi, che, invece di lamentare le carenze dello Stato, dovremmo cercare di essere più creativi e più inventivi.
 
© Riproduzione riservata
Autore: Loredana Spadavecchia
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La natura del lavoro sta cambiando. Una carriera lavorativa unica che copra l'intera esistenza della persona sarà l'eccezione e non la regola. Nell'arco della propria vita le persone avranno dei periodi di lavoro e dei periodi di disoccupazione, attività a tempo pieno e attività part-time, periodi di addestramento e di riaddestramento. Questi cambiamenti hanno molte implicazioni, per esempio sul terreno del rapporto fra impiego e diritti sociali, i quali non dovranno essere legati a lavori particolari. Comunque tutta questa trasformazione può funzionare solo se tutti, fin da giovani, hanno fatto esperienza del mercato del lavoro. Il nuovo mondo del lavoro impone che i giovani vengano posti nella condizione di vivere un'esperienza di addestramento professionale strettamente legata a occupazioni reali e destinata a concludersi con un periodo di impiego regolare. L'istruzione non risolve tutti i problemi. Le persone comprensibilmente si chiedono che sbocchi abbia. Ma un'istruzione legata a un impiego nell'età critica che va dai 16 ai 19 anni circa assicura alla persona una base di esperienza e di motivazione che può sostenerla nel corso di tutta una vita di cambiamenti. Viceversa, in assenza delle necessarie opportunità di rendersi conto dell'utilità dell'istruzione e dei vincoli del mercato del lavoro, molto, se non tutto è perduto. Si dovrebbe promuovere una pratica efficace del tirocinio e diffonderla in tutti i paesi. Le persone veramente svantaggiate, il sottoproletariato, presentano un problema quasi insuperabile. Limitarsi offrire loro delle opportunità non basta: in assenza di incettivi più forti non le coglieranno. E' impopolare dire che per alcuni individui veramente svantaggiati la mancanza di motivazioni rappresenta un ostacolo al ritorno al mercato del lavoro e alla società in generale; ciò non toglie che molti di essi sono diventati abulici e si sono abituati a una vita marginale. Tutto quello che si può fare per recuperare gli esclusi, si deve farlo.
1° Parte. - Il dominio sugli uomini continua a esercitarsi attraverso il processo economico, di fronte al quale non più soltanto le masse, ma anche i possessori di capitale vengono ridotti a oggetto. Secondo la vecchia teoria, essi sono divenuti una mera funzione del proprio apparato di produzione. Sotto questo riguardo il problema tanto discusso della “rivoluzione dei manager”, del preteso passaggio del potere dai proprietari legali alla burocrazia, appare del tutto secondario. Questo processo produce e riproduce se non le classi, quali sono rappresentate nel Germinal di Zola, almeno una struttura definita dall'antisocialista Nietzsche con la formula: “Un gregge ma nessun pastore”. Ma in essa si nasconde ciò che egli non voleva scorgere: la vecchia oppressione sociale, che è soltanto divenuta anonima. Se è vero che la teoria della pauperizzazione crescente non si è realizzata alla lettera, essa si manifesta tuttavia nel fatto non meno angoscioso della illibertà, della dipendenza da un apparato che sfugge alla coscienza di coloro stessi che lo utilizzano e che domina universalmente gli uomini. La tanta deplorata immaturità delle masse non è che un riflesso del fatto che esse sono tanto poco autonome padrone della propria vita, quanto, nel mito, lo erano di fronte al destino. Ricerche empiriche sottolineano altresì che, anche soggettivamente, dal punto di vista della coscienza che hanno della realtà, le classi non sono affatto così livellate come a volte si è ritenuto. Persino le teorie imperialistiche non sono state affatto superate per il fatto che le grandi potenze siano state costrette a ritirarsi dalle colonie: il processo che esse rappresentavano permane ancora nell'antagonismo dei mostruosi blocchi di potenze. La dottrina, che si vorrebbe pretendere superata, degli antagonismi sociali, con la prospettiva del crollo finale, è ampiamente oltrepassata dagli antagonismi politici. (continua)
2° Parte. - Gli uomini sono ancora quali apparivano attraverso l'analisi marxista della metà del XIX secolo: appendici delle macchine, e non soltanto nel senso letterale degli operai che sono costretti ad adattarsi alle caratteristiche delle macchine che essi azionano, ma anche molto al di là, in senso metaforico, in quanto sono obbligati, sin nelle loro emozioni più profonde, a integrarsi nel meccanismo sociale quale portatori di un ruolo determinato, e a modellarsi su di esso senza riserve. Anche oggi, come nel passato, si produce in vista del profitto: ma assai più di quanto fosse possibile per vedere ai tempi di Marx, i bisogni sono diventati una funzione dell'apparato produttivo, e non viceversa. Nelle zone del mondo altamente industrializzato l'uomo ha imparato – sino a quando, non si producano nuove catastrofi economiche naturali – a prevenire una povertà evidente, anche se non sino al grado affermato dalla tesi della “società opulenta E' certo innegabile che, attraverso la graduale liberazione dal bisogno materiale, malgrado la forma impressa al fenomeno dall'apparato, la possibilità di una vita sottratta alla necessità si delinea in modo incomparabilmente più completo. Ciò che Marx ed Engels, i quali volevano una organizzazione sociale degna degli uomini, denunziavano come una utopia che avrebbe potuto sabotare una tale organizzazione, è divenuta una possibilità accessibile. La società contemporanea, malgrado tutte le sue affermazioni in contrario, la sua dinamica, l'aumento della produzione, presenta aspetti di staticità, che riguardano i rapporti di produzione. Questi non riguardano più soltanto la proprietà, ma anche l'amministrazione, sino al ruolo dello stato come capitalista globale. L'affermazione di Marx, che anche la teoria sarebbe divenuta una forza reale una volta che avesse conquistato le masse, è stata capovolta dal corso della storia. - (fine)

1° Parte. - La globalizzazione, è bene ricordarlo, è una forma estrema di capitalismo che non ha più alcun contrappeso. La lotta di classe dunque scompare non tanto perché i rapporti tra datori di lavoro e lavoratori siano diventati pacifici, ma perché i conflitti si sono spostati dai problemi interni della produzione alle strategie mondiali delle imprese transazionali e delle reti finanziarie. I movimenti che si contrappongono alla globalizzazione dedicano la maggior parte del loro tempo a criticare la politica degli Stati Uniti e dei paesi ricchi e cercano di orientare i numerosi movimenti di base che si sono costituiti in vari paesi, ma che finora non hanno saputo proporre un'analisi generale dei conflitti nati a livello mondiale. Quando si parla di globalizzazione, è necessario introdurre categorie generali, e quella di classe non lo è abbastanza. Peraltro è più frequente sentir parlare di umanità e di generazioni future o di nazioni povere piuttosto che di una categoria sociale definita. La novità è dovuta al fatto che a essere in competizione tra loro non sono più paesi tra loro paragonabili, come avveniva quando la Gran Bretagna, la Germania, gli Stati Uniti o la Francia si facevano concorrenza e stringevano accordi economici e politici di apertura dei mercati, ma paesi ricchi, più o meno “socialdemocratici”, e paesi in cui i salari sono più bassi e i sindacati inesistenti (e dove, all'occorrenza, è disponibile un vasto bacino di lavoro forzato). Finora è stato impossibile coordinare le politiche sociali e fiscali all'interno dell'Unione europea. E' un nuovo elemento con cui bisogna fare i conti. Sarebbe vano credere che si possano erigere barriere intorno a un'economia nazionale. (continua)
2° Parte. - Una tale politica avrebbe – come già in passato – conseguenze estremamente negative. Gli interventi dello Stato non devono più servire a mantenere in vita imprese non competitive o a fornire garanzie a determinate categorie sociali per ragioni politiche e contrarie a ogni razionalità economica. La resistenza dei paesi europei di fronte a questa trasformazione è notevole, ma si affievolisce col tempo. Il problema più importante per questi paesi e per quelli che hanno adottato un modello sociale analogo consiste nella ricerca di una nuova modalità di intervento politico che non arrechi danno alla competitività, ma, allo stesso tempo, protegga la popolazione dal brutale, incontrollato espandersi di un'economia liberale sulla quale la maggior parte dei paesi non ha alcuna possibilità di intervento. La difficoltà propriamente politica di questo problema è dimostrata dal fatto che molto governi, in non pochi paesi, hanno visto tutti i loro tentativi fallire. Per i governi la difficoltà aumenta al momento di elaborare interventi a sostegno degli individui più colpiti o sfiancati a seguito di aggressioni ripetute, e di chi non riesce a trovare un lavoro adeguato. E dato che la protezione sociale va rinforzata al pari della lotta contro le disuguaglianze, è difficile determinare in astratto fino a che punto si potrà intervenire sul bilancio di fronte a una popolazione che aspira a misurare i progressi ottenuti. Le imprese europee hanno fatto grandi progressi e si sono internazionalizzate; ma lo sforzo degli europei in materia di creazione, diffusione e applicazione delle conoscenze rimane insufficiente e ovunque, in misura diversa, è evidente il fallimento dei tentativi di dare a ognuno la possibilità di essere un attore, ben preparato, informato e orientato, della vita sociale. (fine)
1° Parte. - C'è stato un tempo, nei primi secoli della nostra modernità, in cui ragionavamo in termini politici: pensavamo e descrivevamo il mondo in base alle categorie di ordine e disordine, potere e Stato, Repubblica e popolo. Dopo la rivoluzione industriale abbiamo sostituito le categorie politiche con quelle sociali ed economiche di classe e ricchezza, borghesia e proletariato, sindacati e scioperi, disuguaglianze e ridistribuzione. Ma oggi? Decenni di globalizzazione hanno imposto criteri di valutazione quasi esclusivamente economici, che hanno portato al trionfo di un individualismo disgregatore. I sintomi si leggono ovunque: nella guerra, che ha perso il suo significato politico o sociale, nelle ondate di irrazionalismo, nella crisi degli individui, pieni di problemi e impossibilitati ad affidarsi, per risolverli, alle istituzioni civili e giuridiche tradizionali. Aleggia la sensazione che il vecchio mondo sia andato in frantumi e che niente possa sostituirlo. La fine di un mondo non è la fine del mondo. Lo sconvolgimento che stiamo vivendo non è più profondo di altri che abbiamo vissuto nel corso degli ultimi secoli, non è più spaventoso parlare di fine del sociale, e in particolare di indebolimento delle categorie sociali di analisi e di azione, di quanto non sia stato in altre epoche parlare di fine delle società propriamente politiche e, prima ancora, di declino delle società religiose. Stiamo cambiando paradigma nella nostra rappresentazione sociale. Stiamo uscendo dall'epoca in cui tutto trovava espressione e spiegazione in termini sociali e ci vediamo obbligati a esaminare come si costruisce questo nuovo paradigma, che ha riflessi su tutti gli aspetti della vita collettiva e personale. (continua)

1° Parte. - C'è stato un tempo, nei primi secoli della nostra modernità, in cui ragionavamo in termini politici: pensavamo e descrivevamo il mondo in base alle categorie di ordine e disordine, potere e Stato, Repubblica e popolo. Dopo la rivoluzione industriale abbiamo sostituito le categorie politiche con quelle sociali ed economiche di classe e ricchezza, borghesia e proletariato, sindacati e scioperi, disuguaglianze e ridistribuzione. Ma oggi? Decenni di globalizzazione hanno imposto criteri di valutazione quasi esclusivamente economici, che hanno portato al trionfo di un individualismo disgregatore. I sintomi si leggono ovunque: nella guerra, che ha perso il suo significato politico o sociale, nelle ondate di irrazionalismo, nella crisi degli individui, pieni di problemi e impossibilitati ad affidarsi, per risolverli, alle istituzioni civili e giuridiche tradizionali. Aleggia la sensazione che il vecchio mondo sia andato in frantumi e che niente possa sostituirlo. La fine di un mondo non è la fine del mondo. Lo sconvolgimento che stiamo vivendo non è più profondo di altri che abbiamo vissuto nel corso degli ultimi secoli, non è più spaventoso parlare di fine del sociale, e in particolare di indebolimento delle categorie sociali di analisi e di azione, di quanto non sia stato in altre epoche parlare di fine delle società propriamente politiche e, prima ancora, di declino delle società religiose. Stiamo cambiando paradigma nella nostra rappresentazione sociale. Stiamo uscendo dall'epoca in cui tutto trovava espressione e spiegazione in termini sociali e ci vediamo obbligati a esaminare come si costruisce questo nuovo paradigma, che ha riflessi su tutti gli aspetti della vita collettiva e personale. (continua)
2° Parte. - E' ormai urgente capire a che punto ci troviamo e quale discorso sul mondo e su noi stessi potrà renderci questo mondo, e noi stessi, comprensibili. Nell'ultimo ventennio del Novecento allo Stato interventista si è sostituito quasi ovunque (e quasi completamente) uno Stato orientato innanzi tutto ad attirare gli investimenti stranieri e a facilitare le esportazioni nazionali, e nel contempo sono subentrate imprese che si fondono sempre più in gruppi transazionali e si associano a reti finanziarie le quali, basandosi su nuove tecnologie informatiche, traggono grandi profitti dalla circolazione di informazioni in tempo reale. Queste rapide trasformazioni sono la conseguenza diretta di un'internazionalizzazione della produzione e degli scambi che sarebbe sfociata nella “globalizzazione” dell'economia. Il tema della globalizzazione ha acquisito un'importanza centrale in ambito politico non per ragioni economiche, ma per motivazioni ideologiche: coloro che hanno maggiormente decantato i pregi della globalizzazione hanno in effetti cercato di imporre l'idea che non era più possibile né auspicabile regolamentare in qualche modo l'economia globalizzata, dal punto di vista sociale o politico, perché essa spaziava in campo mondiale, e nessuna autorità sarebbe pertanto stata in grado di imporre limitazioni a quel livello. L'idea stessa della globalizzazione implicava la volontà di costruire un capitalismo estremo, libero da ingerenze esterne e in grado di esercitare il proprio potere su tutta la società. Un capitalismo senza limiti: un'ideologia che ha suscitato entusiasmo e sollevato contestazioni.-(Alain Touraine - La globalizzazione e la fine del sociale-) FINE

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