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Molfetta, Orazio Flacco, mente della Cultura della centocinquantenne Italia, cuore di un Popolo vero
20 marzo 2011

MOLFETTA - «Dum loquimur fugerit invida aetas: carpe diem, quam minimum credula postero». Chi ha una formazione umanistica subito riconosce in questa citazione la figura del latino Orazio, fertile e solida fondamenta della nostra Cultura italiana, poeta che è stato oggetto di approfondimento nell’incontro “Q.Orazio Flacco, poeta dell’equilibrio e della dignità umana” tenutosi nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia, presso la sede dell’Aneb (Associazione nazionale educatori benemeriti).

Emerita auctoritas epicurea, Quinto Orazio Flacco vede la sua formazione presso la scuola patrizia romana e ad Atene per realizzare la sua persona come filosofus. Non dobbiamo però dipingerlo come avulso dalla realtà quotidiana, tutt’altro: a parlarcene è il prof. Michele de Chirico (presentato dalla presidente Aneb prof.ssa Annetta La Candia Minervini, nella foto col relatore) che con fervida voce descrive un uomo “leale, sincero, cortese e discreto” dalle origini vicinissime alle nostre. Horatius infatti è nato a Venosa, una città tra la Puglia e la Lucania, nata come colonia militare “in un Sud che non conosceva mafie, pizza e mandolino” come le “incrostazioni” che la società moderna ci affibbia, ma un sud Magna Grecia crogiuolo della Cultura Mediterranea.
Infatti la sua persona ha radici che affondano in un terreno fertile rappresentato dai valori insinuati dal suo padre liberto (schiavo affrancato, ndr) dalle umili origini che si rivela suo irreprensibile consigliere facendo riferimenti concreti e quotidiani a personaggi di quel di Venosa in uno spirito pratico e critico che rendono l’Autore sommo modello di metriòtes, per la quale mira ad un “giusto mezzo” che nella sua vita non riuscirà mai a raggiungere pienamente. Nonostante vivesse in un periodo storico cruciale per la fine della Repubblica Romana, Flacco mantenne uno stile di vita lontano dagli eccessi, accontentandosi del piccolo possedimento in Sabina donatogli da Mecenate e rifiutando ogni proposta che avrebbe compromesso la sua fiera indipendenza dai potenti secondo il concetto di autarkeia. In questo modo la sua originale penna dal labor limae e dalla callida iunctura ha prodotto opere, come le Satire, le Odi e le Epistole, nelle quali parla di strenua inertia, di inadeguatezza alle negatività, da superare cercando di carpire nelle piccolezze quotidiane ciò che di meraviglioso c’è e di vivere al massimo le sue possibilità. Riverbero della sua accidiosa insoddisfazione arriva fino alla letteratura più recente con Petrarca, l’inquietudine di Alfieri, “Gli indifferenti” di Moravia sino ad Antonioni, indubbiamente prodromi della Cultura e della Identità del Popolo Italiano.
Non poteva esserci modo migliore per festeggiare i 150 anni di Italia. Perché non esiste un progetto di futuro senza la conoscenza e la consapevolezza del passato, specie se glorioso come quello della nostra Italia, invidiata per davvero da tutto il mondo.
Avvicinandoci alla natura concreta del Poeta latino una domanda, nondimeno, sorge spontanea: dov’è l’Orazio del ventunesimo secolo? La nostra è la società degli eccessi, dove persino il nome dei governanti “sarebbe venuto meno”, secondo i consigli del genitore del venosino, per i loro costumi sessuali; dove gli stessi rappresentanti del Popolo lo insultano non cantando il proprio Inno nazionale; dove chi maneggia festeggia con leggi pro domo sua; dove la conoscenza e il pensiero sono mediati da mecenati giornalisti.
L’Orazio odierno vive nella nicchia, senza pubblicità, libero ed indipendente, adopera le proprie forze senza corruzione, è la voce fuori dal coro, è colui che è visto di cattivo occhio perché diverso, è l’operaio che adora passare la sera ad abbracciare i propri figli anche se sfinito dal lavoro, è il precario che non ha il posto fisso perché non è raccomandato, è colui che preferisce una utilitaria ecologica ad un macchinone, è lo stipendiato che sceglie la famiglia agli straordinari, è lo studente che prende un sudato 23 perché il padre non è collega del professore.
L’Orazio è apparentemente silente, ma urla per chi sa ascoltare.
 
© Riproduzione riservata
 
Autore: Saverio Tavella
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Non mi sono spiegato bene, ammetto l'errore. Gli aforismi da me citati, personalmente non li ritengo "il sale della saggezza degli antichi", al contrario, sono aforismi popolari ereditati da vecchie culture e, oggi, atte a mantenere chiusa ogni apertura di un qualsiasi processo evolutivo sociale e culturale. Non è vero che “tutto il mondo è paese” (magari lo fosse); non è vero che “chi lascia la via vecchia sa cosa lascia…………….(vivremmo ancora tutti nelle caverne) ; non è vero che la “politica è sporca per cui lasciamola stare perché non dà da mangiare”(chiedete a chi ci sguazza in politica se non si mangia, eccome si mangia!); non è nemmeno vero che “con la cultura non si mangia”: la mancanza di cultura, fa mangiare sempre gli stessi. Volevo dire che questi “falsi” aforismi, risultano ancora popolari e suscitano consensi non da poco, anche elettorali, tant'è vengono enunciati, preposti e proposti da personaggi ben lontani da così “cavernicoli” pensieri. Credete veramente che, colui che ha affermato “con la cultura non si mangia” abbia espresso quelli che sono i suoi pensieri? Ha lanciato un messaggio e milioni di italiani, nel proprio privato, gli hanno dato ragione; gli stessi che a voce alta gridano slogan tipo: “i giovani non vogliono lavorare”, “sono tutti degli sfaticati”, “se vuoi mangiare ti arrangi e fai quello che ti sì offre” ecc., ecc.. Questa è quella che chiamano e decantano, la volontà popolare; il popolo sovrano, la quantità numerica che in questa democrazia decide la vittoria e la sconfitta del “sovrano”; capita, recepita e lanciata a “tutto gas” attraverso quel potente mezzo di comunicazione che è la Tv, addomesticando, ammaestrando, addormentando, anestetizzando la volontà popolare maggioritaria e non. Qui dovrebbero entrare in causa gli intellettuali: non vorrei ripetermi: “Scrive Bauman……………………2°Parte – Lunedì 21 marzo 2011 10:47:13.

1°Parte. - Affermare che “la cultura non dà da mangiare” non è poi così scandaloso come si vorrebbe far credere. Altri detti come “tutto il mondo è paese”, “chi lascia la via vecchia sa cosa lascia e non sa cosa prende”, “meglio non interessarsi di politica perché oltre che pericolosa, non dà da mangiare, perciò lasciamola fare agli altri”, e tante altre ancora, erano detti popolari (ricordate i nostri nonni?) e non credete abbiano cessato di essere commentati dalle masse popolari: sono solo “nascoste”. Sono convinto che rispolverarle così, magari senza insistere più di tanto, sono affermazioni che, ancora oggi, suscitano acclamazioni e consensi popolari, se per popolari intendiamo il “popolo sovrano”. Questo è il potere, il governo di quel “popolo sovrano” così spesso chiamato a raccolta e citato nelle arringhe dei nostri politici. Abbiamo dimenticato i “bamboccioni”, sposi “mio figlio o un ricco”? La maggioranza di quel “popolo sovrano” rise a crepapelle invece di ricredersi sulle scelte sbagliate fatte: roba da piangere. Questa è la cultura “popolare sovrana”: quella cultura stagnante e resa sempre più inamovibile perché rende il “popolo sovrano” sempre più bue e pecorone. Necessitiamo quindi, di un cambiamento “culturale popolare” e, per fare questo, quando si parla di cultura, necessitiamo di uomini di cultura, cioè gli “intellettuali”. Chi sono oggi gli intellettuali, a parte quelli che non fanno più parte della vita pubblica per motivi biologici o perché stanchi di lottare considerata l'indifferenza delle masse? Manifestazioni, reclami, proclami, premi, incontri, scambi di opinioni, ecc., ecc., restano solo eventi ripetitivi e chiusi, quindi di privilegi per pochi, non “colpiscono” le masse popolari sempre più lontani anche perché la lotta al quotidiano è diventata prioritaria e feroce. (continua)
2°Parte. - Scrive Bauman: “All'epoca in cui fu coniato, nei primi anni di questo secolo, il termine di “intellettuali” rappresentava un tentativo di riprendere e riaffermare quella centralità sociale e quelle prospettive globali che avevano accompagnato la produzione e la diffusione e del sapere nell'età dei Lumi. Il termine definiva un insieme disparato di romanzieri, poeti, artisti, giornalisti, scienziati e altre figure pubbliche, i quali ritenevano che fosse loro dovere morale e loro diritto collettivo intervenire direttamente nel processo politico agendo sugli intelletti della nazione e indirizzando le azioni dei suoi dirigenti politici”. “Uomini del sapere” che incarnavano e praticavano l'unità di verità, valori morali e senso estetico. Si tratta ovviamente del ruolo di lavoro intellettuale nelle società moderne, che trovò la sua definizione canonica con i “philosophes” dell'illuminismo e che sembra aver subito una radicale trasformazione oggi, in epoca postmoderna. Trasformazione che Bauman sintetizza metaforicamente nel passaggio dalla figura dell'intellettuale “legislatore” a quella dell'”interprete”: da chi arbitra e sceglie in base al proprio superiore sapere tra opinioni relative alla realizzazione del miglior ordine sociale a chi, abbandonate le ambizioni universalistiche, mette la propria competenza professionale al servizio della comunicazione tra soggetti sovrani. Questi sono oggi i nostri intellettuali, gli intellettuali “popolari”: servi al potere del potente di turno. Proprio in società come quelle postmoderne, divise in “sedotti” e “repressi”, sembra riproporsi il ruolo originario dell'intellettuale “legislatore”. (fine)

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