Gentilissimo Direttore,
chi le scrive è un signora di 51 anni, divorziata da tantissimo tempo, per fortuna senza figli ma, purtroppo, fino ad oggi non ho mai avuto l’opportunità di esercitare un vero e proprio lavoro.
Fino a gennaio del 2010 le uniche prestazioni lavorative che mi hanno consentito di sopravvivere sono state 2 sole attività: pulizie domestiche prima, badante poi, entrambe molto precarie e poco remunerative, che di certo non mi hanno consentito di garantirmi un futuro economico tale da coprirmi qualora i bisogni lo richiedessero e tanto meno non ho vissuto un dinamica vita sociale.
Oggi, a distanza di un anno, senza lavoro, non ho nemmeno più quella risicata entrata economica da badante, perché sono cominciati i problemi fisici che non mi consentono più di eseguire determinate prestazioni che il lavoro richiede.
Così sono senza occupazione e con una impellente necessità di trattamenti terapeutici che il S.S.N. non riconosce, quindi se mi voglio curare devo farlo a pagamento con l’ulteriore difficoltà conseguente alle ultime disposizioni regionali in materia di sanità e al contempo devo pagare anche l’affitto di casa, le fatture commerciali, comprare i farmaci non prescrivibili e tutto ciò che le necessità richiedono.
Mi consenta, direttore, è opportuno fare alcune premesse.
Sono nata e cresciuta in un ambiente familiare in cui l’ignoranza, l’analfabetismo, la grettezza, e l’ottusità regnavano sovrane, in particolate mi sono stati inculcati principi, valori e rispetto di determinati canoni sociali obsoleti e anacronistici rispetto ad una società in continua evoluzione.
Impedita, con mezzi repressivi, di sviluppare una propria capacità critica, una propria autonomia di pensiero, e soprattutto di volontà, sono stata indotta a credere che quelle erano le uniche e sole verità.
Purtroppo, col passare del tempo, ho fatto una amara scoperta che ho pagato a caro prezzo: ero stata la vittima di quella coercizione.
Infatti nella vita avevo imparato a considerarmi non una persona, ma ero “una cosa” che, con grande soddisfazione di chi c’è l’ha messa tutta a farmi sentire una nullità, ero destinata ad un ruolo incontrovertibile di subordinazione, di remissione e di emarginazione.
Quando, poi, da sola ho capito che quei principi e valori erano effimeri ero già incastrata nel vincolo matrimoniale a soli 19 anni. Ciò significa che ignoravo assolutamente il significato di “matrimonio” e delle “responsabilità” che ne conseguivano e per le quali non ero in grado di affrontarle con la maturità dovuta.
Così il bisogno, tutto interiore e morale, di affrancarmi e di emanciparmi da ciò che definisco NEFANDEZZA, è emerso con prepotenza ed è stato proprio questo a darmi la forza e il coraggio di ribellarmi ad un altro sistema di regole di comportamento che mi veniva imposto al fine di scongiurare lo scandalo di un divorzio.
Ma, poiché a me era chiaro quale futuro mi attendeva, per il bene dell’altra persona ho chiesto la separazione prima, il divorzio dopo. Questa decisione stava ad indicare che, “per la prima volta” cominciavo ad imparare a volermi bene e a far venir fuori tutte quelle capacità e tutte quelle qualità che erano state represse.
Da sola mi sono costruita i “miei” principi morali e valori di comportamento sociale sentendomi finalmente una PERSONA LIBERA E DIGNITOSA e, poiché avevo anche il bisogno di istruirmi, mentre la mattina pulivo le case, la sera frequentavo la scuola e la notte studiavo.
Ho conseguito prima la licenza media, poi la maturità magistrale, successivamente quella di tecnico-commerciale fino a giungere al 2008 quando ha sostenuto il 17mo, e purtroppo, ultimo esame presso la facoltà di giurisprudenza.
Tra i 2 diplomi si è inserita una malattia piuttosto insidiosa; prima di capire esattamente quale era il problema, sono passati 7 anni di doloroso travaglio e, fino a quando si è ricomposto il tutto, sono trascorsi altri 3 anni. In tutto sono stati strappati 10 anni della mia vita (anni in cui potevo ancora avere la speranza di costruirmi un futuro) ed è un problema, purtroppo, parzialmente risolto, perche è recidivo e ciò mi costringe a convivere con questa minaccia e con tutte le paure che ancora oggi, mi trascino dietro.
Da ciò, direttore, è desumibile che sto parlando di un arco temporale che racchiude quasi tre decenni nei quali, il primo obiettivo, è stato quello di farmi strada nel mondo del lavoro ma, al tempo stesso, a poco a poco ho messo su una casa da sola e partendo dal nulla e per come l’ho creata, anche se è in affitto ed è piccolissima, è bellissima e, a guardarla bene, denota semplicità, ordine e pulizia esattamente come sono io.
Cosa sta succedendo adesso?
Sta succedendo che tutti i timori e tutte le preoccupazioni di un futuro incerto (che volevo essere pronta a fronteggiare con una relativa serenità) cominciano a delinearsi all’orizzonte.
Con molta amarezza, ma soprattutto con profondo sconforto, ho preso coscienza che tra il cercare affannosamente un vero lavoro, tra l’affrontare 10 anni di malattia e il costruirmi una casa, mi è passata, attraverso un ipotetico e spesso vetro, quella che avrebbe dovuto essere la mia vita, quella che adesso percepisco come un enorme foglio di giornale senza margini che viene appallottolato da una fantasiosa mano e buttato in una enorme voragine nera e senza fondo.
Come descrivere, direttore, la desolazione e la frustrazione di essere cosciente che non è più chiedere un lavoro ma è elemosinarlo perché, ora più che mai, ho necessità di una sistemazione lavorativa che mi consenta di affrontare i miei problemi fisici la cui risoluzione è lenta nel tempo è molto esosa. Non solo, ma ho soprattutto paura di perdere la mia casa, esclusivo punto fermo e concreto che mi rimane e che, quando piango e sono disperata, idealmente asciuga le mie lacrime e mi coccola.
È un dolore interiormente sentito nel riflettere che la mia dignità di persona e di donna viene demolita, di volta in volta, da porte chiuse o sbattute in faccia perchè rifiutano di ascoltarmi oppure quando fanno finta di ascoltarmi, ma con frettolosa “gentilezza” mi accompagnano alla porta.
Vorrei avere ancora la forza di un tempo per gridare, per urlare al fine di attirare tutte le istituzioni locali e, perché no, anche quelle regionali e statali affinchè mi dessero delle risposte che come persona prima, e cittadina poi ho il diritto di avere.
In particolare mi rivolgo a colui che, in occasione del clima natalizio, su un giornale, ha detto che, in rappresentanza di una istituzione pubblica locale ha il pensiero costantemente rivolto a quelle persone che un lavoro non c’è l’hanno o che lo stanno cercando. Avrei bisogno di sapere quale è stato il momento nella sua vita che ha sperimentato la disperazione la sofferenza l’umiliazione il degrado e l’emarginazione nel cercare costantemente un lavoro per rispondere ai bisogni primari.
Vorrei risposte dagli stessi politici sul perché io, come cittadina italiana, non vengo tutelata dalle garanzie costituzionali sancite agli artt. 4; 36; 32 comma 1°; per giungere poi a quell’uguaglianza sostanziale evidenziata con forza dall’art. 3 comma 2°.
Inutile spiegare loro cosa dichiarano perché lo sanno molto bene, ma al momento in cui legittimamente vengono invocati con destrezza professionale riescono abilmente ad eluderli. Direttore, questo sfogo è solo una parte del mio dolore che, con molta difficoltà, sono riuscita ad esternare e a mettere su carta, ma resta sempre una grande parte di sconforto perché, al momento, non si intravede nessuna possibilità perchè la risoluzione dei problemi, purtroppo, non è nella disponibilità delle mie mani ma è in quelle di altri, altri che ho spasmodicamente cercato e tuttora cerco.
Mi creda, direttore, ho sempre fatto di tutto e di più, e continuo ancora a combattere per un lavoro e questa accorata lettera ne è una dimostrazione.
Quello di cui fin qui ho parlato è un PURO DOLORE perché di questo si tratta: di quello che si forma come un sasso sul petto e non ti lascia respirare; di quello che ti fa scoppiare il cuore dalla pena; di quello che ti fa piangere tanta lacrime perché ti senti intrappolata senza via di fuga; di quello che ti toglie la forza fisica nelle braccia e nelle gambe; di quello che la notte ti sveglia con l’angosciosa domanda: come devi o puoi ancora fare ma, soprattutto di quello che ti toglie il rispetto della quotidianità perchè ormai non esiste nemmeno più quella.
Adesso come adesso lo sconforto è tale che sovente, mentre cammino senza una meta, mi ritrovo seduta su una panchina completamente annichilita con spalle e testa ripiegate sul petto, gli occhi offuscati di lacrime, le mani intrecciate sulle gambe che assieme alla mia mente invoca senza voce una disperata supplica: aiutatemi, salvatemi perché ho il diritto di vivere, ma sto morendo sotto gli occhi di tutti e nessuno se ne accorge.
Tuttavia ritengo più giusto rivolgere un sentito pensiero a Lei, direttore, che con grande predisposizione all’ascolto e con generosità d’animo ha dimostrato nei miei confronti molta sensibilità e collaborazione testimoniata dalla pubblicazione di questa lettera, ai due medici specialisti che tuttora mi seguono con professionalità, sensibilità ed umanità e che con i loro “camici bianchi” mi fanno sentire meno sola nel mio problema ed infine ed in particolare ad un piccolo numero di amiche che con le loro famiglie fanno di tutto per essere presenti dimostrandomi il loro sincero affetto. Ecco per voi tutti esiste una sola unica parola: GRAZIE.
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