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Molfetta, giovedì Progetto Policoro, corso di formazione politica per i giovani della Diocesi
15 maggio 2011

MOLFETTA - Giovedì 19 maggio alle ore 20, nella sala Turtur di Molfetta ci sarà l’ultimo incontro di “Progetto Policoro”, formazione socio-politica per i giovani della diocesi di Molfetta, Giovinazzo, Terlizzi e Ruvo sul tema: “Economia sociale e solidale: sussidiarietà, microcredito e cooperazione”.

Perché l’economia? Quali le sue funzioni? Quando è a servizio dell’uomo?
Quando invece l’uomo ne è asservito? Sguardo al rapporto quotidiano che
ciascuna persona e ciascuna comunità ha con la dimensione economica,
proponendo alcune forte alternative di economia.
 
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Economia.....lavoro, che cosa hanno in comune con quello che che ha riempito per millenni la vita degli uomini, da cui l'autostima per la capacità di guadagnarsi il pane, di essere utile agli altri, di partecipare, anche nell'occupazione più umile, alla società? Il turbocapitalismo che galleggia sull'impotenza dei suoi sudditi sembra non avere al momento preoccupazioni sociali. Spetta ai sudditi assorbire gli shock degli alti e bassi congiunturali. I momenti bassi del ciclo economico vengono superati con i licenziamenti, in modo automatico (tanto perdiamo nel mercato, tanto tagliamo ai dipendenti). Si provvede così alla regolazione dell'immediato, ma quello che avverrà in futuro è lasciato al caso. In America la new economy ha/sta lasciato/ndo alle spalle una scia di disoccupati, e i simboli di internet - gli "e" o "com" che appiccicati al nome di un'azienda bastavano a lanciarla sul mercato - ora suonano come campane a morto. Il lavoratore ammesso al mondo dei consumi si convince che essi sono un compenso accettabile per i sacrifici che si fanno per esservi ammessi, un rifugio che lo sottrae al mare dei perdenti. Chi può permettersi di comperare una delle tante macchine, un telefonino, un computer è convinto di essere salito sulla zattera dei salvati, fra quelli approdati nel nuovo mondo. La cosiddetta globalizzazione, il dio denaro, che promette da sempre ricchezza per pochi e povertà per molti. Ma l'inaudita violenza che sta' esplodendo su tutto il pianeta è un agghiacciante avvertimento.



A dissolvere la famiglia non è stato il comunismo come un tempo si diceva, ma il capitalismo, sottraendo ai padri e alle madri quell'unica cosa necessaria alla cura e alla crescita emotiva che è “il tempo”. Il mito dell'efficienza, che all'inizio del secolo scorso Frederick Taylor aveva applicato alla catena di montaggio per eliminare i “tempi morti”, oggi si è trasferito dalla fabbrica alla famiglia, dove gli adulti “non hanno tempo”. E allora viene in soccorso il mercato che, con i suoi prodotti “già pronti”, evita alla madre di combattere con il suo bambino la scarsità di tempo. Basta guardare la pubblicità dove la lentezza dei bambini viene attribuita al loro carattere e non al fatto che possano sentirsi assediati dal ritmo accelerato della vita lavorative degli adulti, o che stiano protestando contro la fretta dei grandi, proprio attraverso la messa in scena della lentezza. Con l'intento di evitare alla madre e al figlio la battaglia sul tempo, il mercato individua immediatamente il problema e propone una merce come soluzione. Quando non c'è la merce, il mercato vende quella che Arlie Russel Hochschild chiama l'ideologia del ”tempo qualità”, per cui non è necessario che, in occasione del compleanno del suo bambino, la madre prepari la torta, gonfi i palloncini, inviti gli amichetti, è sufficiente che si affidi a un'agenzia di servizi che, oltre a farle guadagnare tempo, le regala quel “tempo qualità” che consiste nel godersi la festa insieme al suo bambino e ai suoi amichetti, mescolando i suoi gridolini agli strepiti dei bambini. Ma purtroppo il tempo non è ”qualità”, è “quantità” necessaria per far le cose insieme, per seguire i processi di crescita……. Se il tempo qualità, a scapito della quantità non è sufficiente a togliere ai genitori il senso di colpa, l'ideologia del mercato moltiplica le sue proposte e tende a vendere come indipendenza e autonomia dei bambini quello che in passato non troppo lontano si chiamava “incuria”. A questi bambini con le chiavi di casa, come si farà quando saranno adolescenti, a dir loro di non rincasare alle sei del mattino? Spesso sentiamo parlare di famiglia, di difesa della famiglia, di aiuti per la famiglia e nessuno ci avverte che la famiglia è incompatibile con il modello capitalista. Oggi una famiglia media non ha abbastanza risorse economiche se non lavorano entrambi i genitori, e per giunte a quel ritmo che va tutto a scapito della cura. Cura dei figli, cura degli anziani, cura dxelle reciproche familiari e di vicinato, cura della propria vita emotiva. E se il mercato ci soccorre per tutto quello che non riusciamo più a “curare”, non dimentichiamo che il denaro non vale uno sguardo accogliente, una carezza tranquilla, un sentimento gravido di storia, un tratto umano inscritto nel “prendersi cura” che, come ci ricorda Heidegger, è un'altra cosa dal “pro-curare” qualcosa a qualcuno.- (I miti del nostro tempo - Umberto Galimberti).
….per cui vien da dire che tutto ciò che il mercato ci toglie con l'allungamento degli orari di lavoro o con l'impiego di entrambi i componenti la coppia generazionale, poi ce lo offre in vendita sotto forma di servizi a pagamento. E noi accettiamo, anzi desideriamo, perché la dipendenza degli individui dal mercato è mascherata dall'ideologia dell'indipendenza. Potendo pagare, recita l'ideologia dell'indipendenza, uno può realizzare se stesso, affidando al mercato la cura della famiglia. Ma la domanda è: quante parti della nostra vita intima, familiare ed emotiva vengono vissute da altri? E qui il pensiero corre all'educazione dei bambini, affidati a quelle strutture, nidi e asili, scelte non in base a criteri educativi, ma quasi esclusivamente in base al tempo in cui trattengono i nostri piccini, gli adolescenti affidati alla scuola di cui ci si interessa solo in ordine ai risultati, ai genitori che non si occupano dei problemi di crescita dei loro figli perché per questo ci sono gli psicologi, alle coppie genitoriali dove l'assenza di comunicazione, la scarsa dia logicità, il reciproco disinteressamento vengono suppliti all'occorrenza, con l'offerta di qualche cena al ristorante, o con sette giorni di vacanza in paesi esotici comprati last minute in un'agenzia di viaggi. Il denaro può tutto, può restituirci a pagamento tutto quello che non abbiamo acquisito vivendo. Queste cose le diceva già Marx: - Ciò che mediante il denaro è a mia disposizione, ciò che io posso pagare, ciò che il denaro può comprare, quello sono io stesso. Ciò che io sono e posso non è quindi affatto determinato dalla mia individualità. Io sono brutto, ma posso comprarmi la più bella tra le donne. E quindi io non sono brutto, perché l'effetto della bruttezza, la sua forza repulsiva è annullata dal denaro. Io sono un uomo malvagio, disonesto, senza scrupoli, stupido, ma il denaro è onorato, e quindi anche il suo possessore. Io sono uno stupido, ma il denaro è la vera intelligenza di tutte le cose; e allora come potrebbe essere stupido chi lo possiede? Inoltre costui potrà sempre comprarsi le persone intelligenti, e chi ha potere sulle persone intelligenti non è più intelligente delle persone intelligenti? Io che con il denaro ho la facoltà di procurarmi tutto quello a cui il cuore umano aspira, non possiedo forse tutte le umane facoltà? Forse che il mio denaro non trasforma tutte le mie deficienze nel loro contrario?

Tre rivoluzioni economiche in trent'anni – Concorrenza, nuove tecnologie, Globalizzazione – hanno trasformato il mondo. Se potessimo ritornare a metà degli anni settanta non riconosceremmo l'Italia di allora e non sapremmo riadattarci a vivere un'economia così diversa. Trent'anni fa non erano nati il liberismo e le privatizzazioni (la Fiat aveva il 50% del mercato italiano). I sindacati erano molto più potenti di oggi, il rischio di perdere il lavoro per chi lo aveva era minimo, ma già cresceva la disoccupazione giovanile nonostante il crollo delle nascite. I computer erano grosse macchine che si vedevano soprattutto alla Nasa e nei film di James Bond. La Cina chiusa e arretrata esportava solo miti ideologici. All'inizio degli anni Ottanta Reagan e Thatcher hanno dato il via alla ritirata dello Stato dall'economia, la deregulation e l'apertura alla concorrenza in molti settori: telefoni, banche, energia, aerei, televisioni. L'Italia ha seguito l'onda in ritardo ma anche da noi il livello di competizione interna è aumentato, la logica del capitalismo è penetrata in ogni angolo della nostra esistenza. La tv commerciale e l'esplosione della pubblicità hanno favorito l'ascesa del fenomeno dei logo delle griffe e delle sponsorizzazioni. La nuova “economia dell'immagine” regna dai supermercati ai campi di calcio. La rivoluzione tecnologica ha cambiato la nostra vita. Ci sembra impossibile mandare i figli in vacanza e non poter ricevere un sms al giorno; le aziende si fermerebbero se dovessimo tornare a usare la macchina da scrivere. La “globalizzazione” ha ingigantito l'orizzonte dei paesi con cui dobbiamo misurarci. I paesi poveri hanno premuto sui poveri perché si aprissero a loro volta, sicuri di poterli dominare. Invece via via che l'Asia e l'Europa dell'Est si convertivano al mercato ce li siamo trovati in casa: come produttori, e come immigrati per riempire il deficit demografico strutturale delle nostre società in rapido invecchiamento. Nessuno poteva immaginare la delocalizzazione in Romania e i telefonini coreani, tantomeno che la Cina e India diventassero superpotenze mondiali. Nei tre decenni l'economia italiana ha attraversato crisi sempre più gravi: dal primo choc petrolifero al dissesto permanente dei conti pubblici, dal deperimento del Welfare state al tramonto della grande impresa pubblica e privata. La stagione di successi delle piccole aziende e dei distretti industriali non ha retto alla nuova globalizzazione segnata dai giganti asiatici. Ma le cause del nostro declino di oggi erano già visibili trent'anni fa. -

Durante una visita in Italia, il presidente egiziano Mubarak ha dichiarato che: "Non si può imporre agli arabi la democrazia a tutti i costi, perché questo può spalancare le porte dell'inferno e farci piombare in un vortice di violenza e di anarchia che non risucchierà soltanto noi, ma anche chi ci è vicino. E allora addio a ogni barlume di democrazia nel mondo arabo. E questo perché da un lato il Medio Oriente allargato è un mosaico di popoli, di tradizioni, di modi di vita, di economie, dove non si può imporre un'unica soluzione preconfezionata in un'area sconfinata che va dalla Mesopotamia al Pakistan, e dall'altro lato perché l'introduzione della democrazia non si fa con la bacchetta magica. Servono tempo e il rispetto delle tradizioni e della cultura che si modificano gradualmente. Altrimenti si finisce per rafforzare gli elementi più radicali, come è successo in Algeria e come può succedere ovunque se al Parlamento vincesse una maggioranza estremista." – La tesi di Mubarak è condivisa anche dalla cinese Amy Chua, professoressa alla Law School della Yale University, la quale si chiede: “Esportare democrazia e libero mercato genera conflitti etnici?” La risposta è si, perché: Il mercato concentra la ricchezza, - una ricchezza spesso stratosferica – nelle mani di una minoranza economicamente dominante, mentre la democrazia accresce il potere politico della maggioranza impoverita. In queste circostanze l'introduzione della democrazia liberista innesca un etno-nazionalismo dalle potenzialità catastrofiche scagliando la maggioranza “autoctona”, facilmente istigata da politici opportunisti in cerca di voti, contro una minoranza etnica facoltosa e detestata. Scontri di questo genere si stanno verificando in tutta una serie di paesi, dall'Indonesia alla Sierra Leone, dallo Zimbawe al Venezuela, dalla Russia al Medio Oriente. Negli ultimi vent'anni, gli americani hanno promosso con energia nel mondo intero sia l'apertura al mercato che la democratizzazione. Così facendo, ci siamo attirati addosso l'ira dei dannati.”
………e siccome la globalizzazione concepisce le città come semplici “luoghi di scambio”, più che come “luoghi di abitazione e di radicamento” nasce la percezione diffusa che siamo solo all'inizio di quel processo irreversibile che traduce le grandi città in agglomerati di sconosciuti, senza più quel tessuto sociale che creava quel rapporto fiduciario fra gli abitanti del territorio i quali, se anche non si conoscevano, sapevano di sottostare a quella legge non scritta che era l'uso e il costume degli abitanti di quella città. Significa che le città avrebbero perso i loro connotati e sarebbero diventate pure estensione di uomini, concentrati l'uno a fianco dell'altro, con l'unico vincolo che è il procacciamento di denaro. Non più un denaro prodotto dalle arti e dai mestieri del territorio, ma un denaro da tutto sradicato, che ha nei confini del territorio il suo maggior nemico. Già oggi merci e denaro percorrono le vie del mondo più liberi dell'uomo e, rispetto a essi, l'uomo trova il proprio riconoscimento solo come funzionario delle merci e funzionario del denaro. Funzionari legali come tutti quelli che, ai margini della città, premono con le loro pratiche di capitalizzazione selvaggia che da sempre sono la prostituzione, l'usura, il traffico di droga e delle armi. Ma quando il denaro, legale o illegale, diventa l'unico vincolo di convivenza di quegli agglomerati di varia umanità che, senza più usi, costumi e tradizioni comuni, solo per pigrizia mentale continuiamo a chiamare “città”, allora è prevedibile che l'azione criminale, se non gesto quotidiano, rischi di diventare gesto frequente. E, più che nei quotidiani episodi di violenza, è in questo sospetto, che si affaccia alla soglia della nostra coscienza, che si radica la paura della città. – Molfetta com'è, come cambia in questo contesto globale? Molfetta una città strana? “De gustibus disputandum est - così scriveva Alina Cormio su “QUINDICI” del 15 marzo 2007. “Sulla logica dell'urbanistica molfettese e sul suo buon gusto, indubbiamente c'è tanto da dibattere.....Poi il Duomo bianco lucente, che in tanti secoli è rimasto intatto e sempre uguale a se stesso. Oppure il Duomo alla sera. O quello, spettacolo unico e indelebile nella memoria di un buon molfettese, del Duomo al tramonto, quando una luce rossastra lo illumina nella sua modesta imponenza. Ricordi questi. Ma Molfetta è una città strana. Molfetta è davvero una città strana.”

La globalizzazione attuata solo a partire dagli interessi economici dell'Occidente rischia di generare il terrorismo. Il nostro secolo sarà il secolo del terrorismo se non introdurremo nel processo di globalizzazione, oltre a quello economico, altri criteri quali l'emancipazione dei popoli, il loro acculturamento, l'acqua, il cibo e le medicine per la loro sete, la loro fame, le loro malattie e, insomma, un po' di futuro per chi non ne vede alle condizioni poste da noi occidentali. Perché chi è senza futuro è capace di suicidarsi non per depressione come noi occidentali, ma per un progetto, per quanto esecrabile e omicida, che neppure vedrà realizzato. Questa differenza antropologica così radicale va tenuta in massimo conto, perché ci dice che gli uomini e le culture non sono tutti uguali, e l'uniformità antropologica cui tende il “processo di globalizzazione”, se mai dovesse essere un valore funzionale alla tecnica e all'economia dell'Occidente, non è cosa che si realizza dall'oggi al domani (spero non si realizzi mai). Dopo la tragedia di Manhattan il Senato americano ha intonato il canto “Dio salvi l'America”. Ma il Dio che gli americani invocavano a loro protezione è lo stesso Dio che i musulmani invocano. E allora, se sono tutti figli dello stesso Dio, non sono certo la religione, o il fanatismo che la religione può innescare, a contrapporre così tragicamente l'uno all'altro. Ci deve essere qualche altra ragione, non religiosa, non fanatica, non folle, quindi “razionale”, alla base di questa contrapposizione. E allora tocca a noi occidentali, che abbiamo fatto della razionalità la nostra prerogativa, andare a cercare la “ragione”, e magari prendere in considerazione l'ipotesi se non sia proprio la nostra pratica economica, che a noi garantisce i valori di libertà e democrazia, a generare i nostri “nemici”, innescando così quel circolo vizioso che annulla, per la prima volta nella storia, l'antica logica amico/nemico, perché, per la prima volta nella storia, il nemico non è fuori di noi, di fronte a noi, altro da noi, ma nasce come “effetto” delle condizioni di vita che siamo stati in grado di garantire solo per noi.-
Ciò che stiamo vivendo è la “distruzione della società”, ovvero della vita “sociale”; la distruzione di tutte le categorie nelle quali eravamo rinchiusi come in un'armatura da più di un secolo. Vediamo crollare intorno a noi società di produzione e venir meno le lotte sociali che, con il loro pungolo, ci hanno regalato svariati secoli di vantaggio sul resto del mondo. Vediamo il ritorno della violenza e della guerra, evidente anche il trionfo del mercato rispetto al lavoro e alla creazione. (ne è esempio il bombardamento pubblicitario mercatale molfettese tanto discusso in questi giorni). Accanto a tutto questo, si scorgono anche i primi barlumi di una modernità i cui principi (la fede nella religione e il riconoscimento dei diritti individuali universali) si affermano sulle rovine dei sistemi sociali (vedi le ultime elezioni Napoli e Milano). Ben lungi dall'essere immersi in un mondo in cui esisterebbero solo l'interesse e il piacere, siamo sempre più di fronte alla nostra responsabilità di essere liberi. Sulle rovine dei sistemi sociali emergono, in modo sempre più manifesto, due forze che non sono, né l'una né l'altra, e, dall'altro, l'appello, a sua volta non sociale, perché assoluto e universale, ai diritti e alla ragione. La nostra storia non viene più definita dal suo senso e dall'eventuale punto di arrivo; e neppure dallo spirito del tempo o di un popolo, ma dallo scontro di forze naturali – mercati, guerre e catastrofi – con la modernità e con il soggetto. Nella sua forma liberista, la vita sociale si riduce a un mercato senza regole in cui ognuno cerca di appropriarsi di un prodotto che definisce un buon affare. Questa concorrenza generalizzata sostiene gruppi di interesse e corporativismi che non si preoccupano più dell'interesse generale. Ci stiamo avvicinando, più o meno in fretta a seconda dai paesi, alla fase in cui la capacità di accumulo scomparirà e il consumo prevarrà sulla produzione al punto tale da far gravare sulle generazioni successive il peso della crescita del debito pubblico. Le nostre società potrebbero allora diventare mercati, bazar, in cui ogni gruppo cercherà di vendere ciò che produce e di comprare al miglior prezzo i beni e i servizi di cui ha bisogno. Altri paesi eviteranno questa deriva entropica concentrando risorse e potere decisionale nelle mani di nuove èlite: gruppi che operano tramite la guerra più che la produzione, che detengono armi piuttosto che mercati e che impongono una nuova schiavitù peggiorando il più possibile la qualità di vita dei lavoratori.
Sarebbe assurdo pensare di costruire il socialismo senza aver risolto il problema dell'analfabetismo: ma una cultura elementare non è abbastanza per il socialismo; occorre che vi sia un alto livello di preparazione della grande massa della popolazione. Dal punto di vista del marxismo i valori fondamentali della cultura sono la ricchezza e l'accessibilità; non possiamo accettare una frattura di èlite e cultura di massa, che non farebbe altro che sacralizzare e perpetuare un'annosa situazione che non può ulteriormente durare. Quando i marxisti parlano di democratizzazione della cultura, pensano a qualcosa di diverso della possibilità data a tutti di acquisirla. Per citare le parole di Maiakovski a proposito della poesia, la cultura non viene concepita come cultura di massa: lo diventa. Democratizzazione della cultura non significa il suo adeguamento al livello dei settori scarsamente educati e di bassa cultura della popolazione, ma l'elevamento di quel livello attraverso la cultura, come un aspetto del progresso sociale, con un costante aumento nella somma della ricchezza spirituale della nazione. Nuovi settori della popolazione si inseriscono così nel progresso della trasformazione della natura, e, attraverso l'autocoscienza, divengono veri creatori di cultura, nel senso più ampio del termine. Noi marxisti siamo per una società che dovrà cancellare ogni differenza tra l'ignorante e il sottoprivilegiato e l'èlite raffinata; lavoriamo per costruire una società umana che riscatterà le masse dall'arretratezza spirituale e permetterà a ciascuno di godere di una vera cultura e di una vera attività creativa, nell'interesse generale. La memoria di uomini come Karl Marx riveste di realtà storica i nostri ideali. Una scienza e una morale genuini, una politica di progresso, uno spirito di integrità scientifica, un rigore e una precisione senza compromessi nell'analisi e nella sintesi, sono elementi inseparabili. Il marxismo, in quanto riflesso generalizzato delle tendenze fondamentali della realtà sociale e del movimento rivoluzionario a liberare l'uomo in nome dell'uomo, ha fornito una nuova coscienza storica e una nuova consapevolezza intellettuale alla lotta per il progresso. Noi comunisti abbiamo il diritto di essere fieri di ciò: oggi la nostra fiducia in Karl Marx è condivisa da tutti coloro che, nel mondo, siano forniti di una mente onesta e di un pensiero rigoroso. - Un sogno infranto o un tradimento culturale?

La teoria di Malthus e dei suoi discepoli, oggi assai poco conosciuta, era essenzialmente diretta balla conservazione dell'ordine sociale. Colui che arriva al banchetto della natura, diceva Malthus, e che è di troppo, non trova apparecchiato il suo posto a tavola e non può fare altro che andarsene. Quando sia necessario, a ciò provvede la morte. Tali parole, apparse nella prima edizione del “Saggio sulla legge della popolazione”, e le considerazioni che le accompagnavano, suscitarono l'indignazione generale dei socialisti della prima metà del XIX secolo, Fourier, Owen, Proudhon, e anche Marx. Poiché Malthus rinfacciava la colpa proprio ai poveri: essi, e non i ricchi, erano responsabili della propria miseria. Marx espresse contro Malthus il più severo giudizio: “La sua dottrina vile e infame è una bestemmia ripugnante contro l'uomo e la natura”. Tuttavia, in bocca sua, è ancora un'espressione relativamente moderata. All'argomentazione ndi Owen, secondo cui: “Fintanto che la terra non sarà coltivata come un giardino, mi rifiuterò di parlare di sovrapopolamento”, Marx aggiungeva alcune osservazioni intorno al meccanismo dell'economia industriale. Sosteneva che la disoccupazione non è affatto il risultato di un eccesso di popolazione, bensì conseguenza dell'accumulazione del capitale, della sostituzione della macchina all'uomo, della formazione di un “esercito di riserva dei lavoratori”. La sovrapopolazione denunciata dai capitalisti è per Marx soltanto relativa, “proviene, invece che da un aumento positivo della popolazione operaia, che andrebbe oltre i limiti della ricchezza in via di accumulazione, da una crescita sempre più rapida del capitale sociale, che gli consente di non utilizzare una parte più o meno considerevoli di operai”. La pretesa sovrapopolazione porta a sopprimere fisicamente gli uomini, attraverso la limitazione delle nascite. In un regime collettivista, tutti avranno un lavoro e il timore della sovrapopolazione non esisterà. L'uomo nuovo, che sostituirà l'uomo preistorico, non si porrà alcun problema di popolazione. -
La democrazia, purtroppo, non lenisce il risentimento, anzi: accentuando la voce politica e il potere della maggioranza autoctona, la democrazia favorisce l'ascesa dei demagoghi che, per motivi opportunistici, fomentano l'odio delle masse contro la minoranza disprezzata, rivendicando la restituzione del patrimonio nazionale ai “veri proprietari del paese”. La conseguenza è che, fuori dall'Occidente, l'aspirazione alla democrazia liberista, nella sua forma più cruda d'esportazione, non genera pace e prosperità diffuse, ma confische a sfondo etnico, ripercussioni di stampo autoritario ed eccidi. Queste cose noi europei dovremmo saperle, dal momento che per secoli abbiamo pensato che il conflitto di classe rende il suffragio universale, e quindi la democrazia, inconciliabile con un'economia di mercato. Già nel Settecento, nell”Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni”, che possiamo considerare il testo fondativo dell'economia politica, Adam Smith teorizzava che il mercato avrebbe determinato una concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, mentre la democrazia, conferendo potere anche alla maggioranza povera, avrebbe inevitabilmente generato sollevazioni, ribellioni, espropriazioni e confische. E proprio a partire da queste promesse Adam Smith scriveva: “Per un solo uomo ricchissimo ci devono essere perlomeno cinquecento poveri, anche se l'abbondanza del ricco suscita l'indignazione dei poveri, che sono spinti dal bisogno e sollecitati dall'invidia a invadere le sue proprietà. Il “potere dei numeri” (la democrazia) mal si concilia con il” potere della proprietà” (il capitalismo), sarà necessario esportare, insieme alla democrazia e al capitalismo, anche la redistribuzione della ricchezza e dello stato sociale.”
Gli uomini sono ancora quali apparivano attraverso l'analisi marxista della metà del XIX secolo: appendici delle macchine; e non soltanto nel senso letterale degli operai che sono costretto ad adattarsi alla caratteristiche delle macchine che essi azionano, ma anche molto al di là, in senso metaforico, in quanto sono obbligati, sin nelle loro emozioni più profonde a integrarsi nel meccanismo sociale quali portatori di un ruolo determinato, e a modellarsi su di esso senza riserve. Anche oggi, come nel passato, si produce in vista del profitto: ma, assai più di quanto fosse possibile prevedere ai tempi di Marx, i bisogni sono diventati una funzione dell'apparato produttivo, e non viceversa. E' vero che, nel quadro di questa trasformazione, fissati e adattati all'interesse dell'apparato, vengono portati avanti bisogni umani cui può di tanto in tanto richiamarsi con efficacia il meccanismo; ma, nel frattempo, il valore d'uso delle merci ha perduto in queste condizioni la sua evidenza “naturale”. Non solo i bisogni vengono soddisfatti in modo del tutto indiretto, per il tramite del valore di scambio, ma, nei settori più importanti, vengono prodotti in primo luogo nell'interesse del profitto, e pertanto sacrificando i bisogni oggettivi dei consumatori, quali ad esempio le necessarie abitazioni, e ciò malgrado la conoscenza e l'informazione sulle principali questioni che li riguardano. Veder chiaro in tutto questo significa non attribuire la colpa alla tecnica, o alle forze produttive, come spesso si lascia andare a fare la critica, il che significa cadere in un nuovo luddismo teorico su più vasta scala. Non è la tecnica a costituire una fatalità, ma il modo in cui essa si intreccia con i rapporti sociali dai quali è circondata. Bisogna tuttavia tener presente che lo sviluppo tecnico è stato indirizzato secondo gli interessi del profitto: e che per il momento la tecnica stessa coincide fatalmente con gli interessi del controllo e del dominio.

L'Arcivescovo di Monaco di Baviera, Reinhard Marx, pochi anni fa e precisamente nel 2009 ha scritto “Il Capitale – Una critica cristiana alle ragioni del mercato”, un'analisi interessante, vivace e approfondita dei problemi creati dal capitalismo che hanno devastato il mondo in cui viviamo. Ripensandoci bene, il suo omonimo, il pensatore di Treviri non aveva poi tutti i torti, e pensare che quest'analisi dell'uomo di Chiesa è stata scritta prima che iniziasse la crisi finanziaria: il pensatore di Treviri non aveva tutti i torti. Il volume inizia con l'introduzione, “Caro Karl Marx…….”. E' innegabile che molte delle cose che ha detto sulle disuguaglianze sociali nel XIX secolo erano giuste. Marx ha analizzato il carattere di merce del lavoro e l'economicizzazione di ogni campo della vita. Ha intravisto nel nocciolo della globalizzazione del capitale, e ha anche capito che questo processo sarebbe potuto sfociare in una nuova qualità, che avrebbe potuto portare ingiustizie più grandi. E' quello che sta accadendo nel nostro mondo, nella nostra economia. Uno dei massimi rappresentanti della dottrina sociale cattolica, Oswald von Nell-Breuning ha detto: “Siamo tutti sulle spalle di Marx”. Fu criticato duramente, eppure aveva ragione. Karl Marx predisse che un capitalismo primitivo avrebbe potuto diventare un pericolo per il mondo. Oggi vediamo quanto aveva ragione. Non c'è alternativa all'esigenza di domare il capitalismo. Abbiamo bisogno anche di un ordine di principi mondiali, senza cui il capitalismo diverrà una forza distruttiva. E' molto importante avviare le necessarie riforme in modo rapido e al tempo stesso di lungo termine e sostenibile. E' necessario introdurre nuove regole nel mondo dell'economia e della finanza, in modo che speculazioni selvagge, rapacità e mancanza di scrupoli non siano più premiati. E dobbiamo tornare a riconoscerci nei valori e nelle virtù che da molto definiscono come deve comportarsi l'imprenditore o il commerciante per essere uomo degno di rispetto e di onore. (estratto da un'intervista di Monsignor Reinhard Marx, al giornalista Andrea Tarquini di Repubblica)
Un modo per emancipare l'uomo dai condizionamenti economici, e riconsegnarli la sua dignità, è stato pensato e attuato nei paesi sottosviluppati da Muhammad Yunus, economista insignito nel 2006 dell'onorificenza del Nobel per aver fondato la Grameen Bank, un istituto che pratica alle donne del Terzo e del Quarto mondo un prestito senza garanzie, oggi diffuso in ottanta paesi di ogni parte del mondo e in quarantamila villaggi del Bangladesh (paese natale di Yunus) a tutti noto per la sua povertà radicata e senza speranza, che nemmeno i trenta miliardi di dollari che affluiscono in quel paese nel quadro degli aiuti internazionali sono riusciti minimamente a intaccare. A causa della malnutrizione, peso e statura si mantengono sotto la media. Fatto insolito, le donne del Bangladesh vivono meno degli uomini e l'analfabetismo raggiunge il 90 per cento. In queste condizioni è difficile pensare che il Bangladesh possa concorrere all'”economia della crescita” in vigore nei paesi avanzati e industrializzati in Occidente. La sua politica del “microcredito a tassi bonificati” che consente a centinaia di migliaia di persone, in maggioranza donne, di affrancarsi dall'usura e di allergare gradualmente la propria base economica, fino a raggiungere quel che la carità nega al povero: LA SUA DIGNITA'. Da noi, non c'è automobilista che, fermo a un semaforo, non abbia fatto l'esperienza della povertà. L'elargizione di denaro non risolve il problema né a breve termine né a lungo termine. Ammonisce Yunus: “Dovremmo aprire la portiera dell'auto e chiedere al mendicante come si chiama, quanti anni ha, che cosa sa fare, se ha bisogno di assistenza medica, qual è il suo problema. Allungare semplicemente una moneta significa solo invitare il mendicante a sparire o a passare a un'altra auto. Con ciò non significa che si deve ignorare il dovere morale di aiutare e soccorrere i bisognosi, ma semplicemente che: la carità può avere effetti devastanti. Infatti, chi raccoglie denaro mendicando non è motivato a migliorarsi, il malato non vorrà farsi curare temendo di perdere la propria fonte di guadagno, togliendogli l'incentivo a provvedere alle proprie necessità lo si rende passivo e incline a una mentalità parassitaria, perché non c'è ragione di faticare quando basta tendere la mano per guadagnarsi la vita…………”

Se la democrazia ha o non ha qualità, lo si deve non alla democrazia come tale ma a coloro che in essa vivono. E' proprio dei singoli sentirla come una necessità vitale, senza la quale la parte migliore di essi andrebbe perduta. Come qualunque forma di vita collettiva, anche la democrazia richiede un'etica corrispondente. Essa riconosce a tutti, senza distinzione, la dignità della persona umana, ma esige da tutti, corrispondentemente, comportamenti, stili di vita, aspirazioni spiritualmente elevate e coerenti con il valore della propria persona. In primo luogo richiede che ciascuno difende – contro le molte insidie e manipolazioni, spesso presentate in forme assai spiacevoli – quello che si potrebbe definire il primordiale dei diritti, il diritto di essere se stessi. La democrazia, nella sua essenza, è anche il regime che non conosce privilegi. I poteri interni sono i veri pericoli della democrazia: la partitocrazia. I cittadini, da uomini liberi, si trasformano in clienti dei partiti. Così si assiste a questa paradossale situazione: mai forse come in questo momento coesistono il più radicale disprezzo verso i partiti e la loro più estesa ramificazione nella società. Inoltre, mai come ora c'è una dissociazione tra gli ideali proclamati sulla carta dai singoli partiti e gli interessi reali dei loro sostenitori; mai come ora è indispensabile per i partiti essere comunque al potere per elargire favori e protezioni (attraverso il cosiddetto sottogoverno); mai come ora i partiti al governo sono litigiosi tra loro per assicurarsi il massimo di presenza nello stato, fatto letteralmente a brandelli da questa concorrenza spietata, pur tra “alleati”. La cinica massima “il potere logora chi non ce l'ha” non è solo una battuta di spirito ma esprime questa realtà profonda della partitocrazia: i partiti sono tanto più forti in quanto gestiscono potere e tanto potere gestiscono tanto più divengono forti (e l'inverso vale per i partiti che, dall'opposizione, non partecipano). Secondo i principi della democrazia il potere dovrebbe progressivamente logorare i governanti, a vantaggio delle opposizioni, favorendo la sostituzione dei primi con le seconde e quindi l'alternanza al potere. Secondo la nuova regola della partitocrazia, invece, il potere alimenta se stesso: guai dunque esserne privati anche solo per un momento, poiché si rischia di scomparire per sempre.

A proposito della diffusione di pratiche illecite socio-politiche-economiche, si parla di “CLEPTOCRAZIA”, parola che significa semplicemente “governo ladro”. Per governo ladro s'intende non solo la politica, ma tutta ciò che comprende il “governare”, l'”amministrare”. Molti sostengono che oggi vi sia più corruzione pubblica di un tempo. E' difficile avere delle idee quantitativamente precise sull'argomento, anche se il grande sviluppo dello stato sociale, e quindi della sfera “pubblica” (come apparati, risorse e interventi pubblici) hanno certamente moltiplicato le occasioni di corruzione. Quel che conta è che comunque, grande o piccolo che sia, questo fenomeno costituisce un grave danno per la collettività: non si riflette abbastanza sulla circostanza che la corruzione, oltre a sottoporre la società a un sistematico taglieggiamento e a incrinare la fiducia nella democrazia, ha come effetto principale l'emergere di un personale politico a livello morale infimo, sempre pronto a far prevalere sull'interesse pubblico il proprio o quello della propria parte. Nella “cleptocrazia”, la lotta per emergere premierà coloro che sono più esperti nelle sue regole di funzionamento, gli affaristi, i maneggioni, i mediatori d'affari, lasciando ai lati coloro che, inesperti in tutto ciò, potrebbero rendere i maggiori servigi alla collettività. Il più fedele misuratore del grado di corruzione di un sistema politico è probabilmente il livello (culturale, professionale, civile) del suo personale: da questo punto di vista, senza però che si possa generalizzare, non c'è da consolarsi qui da noi in Italia. La corruzione appare così per quello che è: non (solo) una questione morale individuale, ma una questione politica strettamente intrecciata alla questione democratica. Se la democrazia fosse pienamente realizzata, se la pubblicità dei comportamenti fosse sempre assicurata, chiunque si asterrebbe dal praticare la corruzione per non incorrere nelle sanzioni che ne deriverebbero. La pubblicità si dimostra dunque l'esigenza fondamentale: pubblicità nelle procedure di decisioni pubblica, trasparenza nei rapporti finanziari tra i partiti e i loro finanziatori, tra i membri del parlamento e coloro che talora ne pagano i comportamenti, pubblicità nelle nomine dei funzionari chiamati a gestire grande potere e molte risorse, ecc.. Gli strumenti principali di questa lotta sono quelli che possono “fare luce”: la stampa e la magistratura. Ogni volta che si attenta alla libertà della prima e all'indipendenza della seconda, è per poter indisturbatamente gestire il potere come la democrazia non consentirebbe. Com'è la “situazione” in Italia?

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