Dopo la dichiarazione di guerra dell’Austria-Ungheria alla Serbia, il Consiglio dei ministri guidato da Antonio Salandra, riunitosi il 1° e il 2 agosto 1914, dichiarò la neutralità dell’Italia. Il 21 settembre si tenne a Roma, per iniziativa di Benito Mussolini, direttore dell’Avanti!, una riunione dei socialisti, che approvarono un manifesto di condanna dell’interventismo, pubblicandolo il 22 sul proprio quotidiano e ottenendo una valanga di adesioni. Tuttavia, influenzato dall’amico molfettese Sergio Panunzio, sindacalista rivoluzionario, Mussolini cambiò idea e il 18 ottobre 1914 pubblicò sull’Avanti! l’editoriale Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante. In quell’articolo, accostandosi agli interventisti democratici, stigmatizzò l’inadeguatezza del neutralismo, additando la questione delle terre irredente, come Trento e Trieste, e ventilando la possibilità che la guerra potesse terminare prima, se l’Italia avesse gettato il suo peso nel conflitto. Gaetano Salvemini si congratulò subito con Mussolini, ma il 20 ottobre a Bologna la direzione del Psi respinse la mozione mussoliniana contraria alla neutralità assoluta e preparò un manifesto contro la guerra, in cui ribadì i valori di pace dell’internazionalismo socialista e criticò le posizioni interventiste assunte da numerosi partiti socialisti europei. Il manifesto fu approvato dalla Confederazione Generale del Lavoro, dall’Unione Sindacale Italiana e dal Sindacato Ferrovieri. Mussolini, allora, si dimise dalla direzione dell’Avanti! e il 15 novembre varò a Milano Il Popolo d’Italia, finanziato da alcuni industriali italiani, che volevano fare affari con la guerra, e dalla Francia, che intendeva attirare l’Italia nell’orbita della Triplice Intesa. Sul nuovo giornale, propugnando l’intervento contro la Germania, Mussolini sostenne che la guerra potesse avere uno sbocco rivoluzionario. Il 24 novembre la sezione milanese del Psi espulse Mussolini per indegnità politica e morale. In sintonia con la posizione ufficiale pacifista della direzione centrale del Psi, il socialista Angelo Gadaleta, elemento emergente del sindacalismo contadino di Molfetta, tenne nella sua città un comizio neutralista, segnalato il 26 novembre 1914 dal settimanale socialista barese La Ragione. Anche se molti proletari molfettesi, per istinto o per propaganda politica, propendevano per la neutralità italiana, verso la fine del 1914, nel dibattito sull’entrata in guerra dell’Italia, una parte degli artigiani e operai di Molfetta, Bitonto, Giovinazzo e altre città della Terra di Bari, per reazione ai giolittiani neutralisti, si proclamò interventista, reputando la guerra come mezzo di liberazione dall’oppressione delle camarille locali e per l’acquisizione di un più equo assetto politico, amministrativo e sociale. Sul conflitto e sulle aspirazioni dell’Italia il 27 dicembre 1914 Salvemini, consigliere provinciale per il mandamento di Bitonto, tenne una conferenza a Bari, ma, pur essendo un convinto interventista democratico, in quella sede non prese posizione per un eventuale intervento italiano, attenendosi piuttosto a un’interpretazione “materialistica” e preventiva della guerra come braccio di ferro tra la Germania e l’Inghilterra. Intanto il popolo italiano tribolava. Nel dicembre del 1914 la questione granaria, acuita dalla scarsità dei raccolti per la forte siccità dell’anno, si stava allora manifestando in tutta la sua gravità con un preoccupante aumento del prezzo delle farine e del pane. Nel gennaio del 1915 in varie città d’Italia vi furono tumulti e dimostrazioni popolari contro il carovita e la scarsità di pane. Allora il Governo con un decreto legge il 31 gennaio abolì i dazi sui cereali e sulle farine fino al 30 giugno 1915. L’abolizione sarà poi ripetutamente prorogata durante la guerra. Nonostante questi provvedimenti, per la penuria di derrate alimentari il prezzo del grano, delle farine e del pane continuò a salire. Nel 1913 il pane a Molfetta costava 40 centesimi di lire al chilo; tra il gennaio e il febbraio del 1915 arrivò a superare i 45 e i 50 centesimi, quando in Terra di Bari in media la paga dei braccianti agricoli era di 85 centesimi al giorno. Spesso il frumento veniva mescolato con granaglie meno nobili e le farine erano di qualità mediocre o bassa e a volte perfino adulterate. Sollecitati dall’amministrazione comunale salveminiana, guidata dal sindaco Graziano Poli, i proprietari e i rappresentanti di sei ditte di mulini e pastifici di Molfetta, cioè Giuseppe Caradonna; Fontana, Magrone e Pansini; Pantaleo Ciocia; Ignazio Pansini; Filomeno De Gaetano figlio & Maldarelli e Angelo Allegretta & Fratelli, cercarono di venire incontro alle esigenze della città proponendo, con un volantino del 10 gennaio 1915, la vendita di una qualità di farina «di puro grano», superiore alle farine provenienti da fuori e soprattutto dall’Alta Italia, al prezzo relativamente contenuto di 47 lire al quintale. Per comprendere il forte rincaro generale, va detto che nel 1913 a Molfetta mediamente un quintale di farina n. 1 costava 41 lire o poco più, mentre un quintale di farina n. 0 si pagava 42 lire e 50 centesimi o poco più. Per rassicurare il pubblico sulla qualità della loro merce, gli industriali depositarono nell’ufficio della Polizia urbana dei campioni del tipo di farina da mettere in vendita e del pane confezionato con la stessa. In febbraio in molte città italiane si ebbero dimostrazioni di piazza a favore dell’intervento nel conflitto, ma non mancarono manifestazioni neutraliste, sia per ragioni ideologiche sia perché dal 1915 la questione granaria si andò aggravando sempre più seriamente per il razionamento del grano determinato dalla guerra in atto. A Molfetta, dove i raccolti di olive degli ultimi anni erano stati scarsi, il 5 febbraio 1915 donne e bambini del popolo espressero la loro protesta per il rincaro del pane e per la forte disoccupazione. Di contro destò grande entusiasmo a Bari la conferenza tenuta il 12 febbraio nel “Piccinni” da Cesare Battisti, il quale conquistò l’uditorio che gremiva il teatro sulla necessità che l’Italia scendesse in guerra contro l’Austria per liberare le italianissime terre irredente. In molte città della Penisola, tuttavia, il 21 febbraio e nei giorni seguenti si svolsero grandi dimostrazioni a favore della neutralità. Fra neutralisti, ispirati dal pacifismo socialista, e interventisti, appoggiati dalla polizia e istigati da agenti provocatori prezzolati, nacquero duri scontri. A Reggio Emilia la sera del 25 febbraio la polizia sparò contro i socialisti, uccidendo due dimostranti e ferendone altri di fronte al Teatro “Ariosto” in cui Cesare Battisti stava tenendo un comizio interventista. Nella tornata del 5 marzo 1915 la Camera dei deputati, per il collegio di Molfetta, respinse la richiesta di annullamento dell’elezione del 1913, avanzata da Salvemini, convalidando la riuscita dell’on. Pietro Pansini. I repubblicani molfettesi della vecchia guardia, che non si erano presentati alle elezioni provinciali del 1914, esultarono con un foglio volante inneggiante a Pansini. Il 31 marzo il vescovo di Molfetta Pasquale Picone nominò primo economo spirituale della nuova parrocchia di San Domenico don Ilarione Giovene, mettendolo al servizio di oltre 8.000 anime dei rioni San Benedetto e Madonna dei Martiri. Soprattutto in aprile, in tutt’Italia proliferarono i Comitati di Preparazione Civile in caso di guerra, che poi si trasformeranno in Comitati di Assistenza Civile con sezioni femminili e sottocomitati (Statistica, Sanità, Propaganda, Assistenza, Annona, Preparazione militare ecc.). A insaputa del Parlamento, in maggioranza neutralista, l’ambasciatore Guglielmo Imperiali il 26 aprile 1915 firmò per il Governo il patto segreto di Londra, che impegnava l’Italia a schierarsi con la Triplice Intesa. Il 5 maggio Gabriele d’Annunzio, rientrato dalla Francia, inaugurò a Genova il monumento ai Mille sullo scoglio di Quarto, caldeggiando l’intervento italiano ed esaltando enfaticamente la guerra per la «resurrezione» e «integrazione» della patria: «Voi volete un’Italia più grande, non per acquisto ma per conquisto, non a misura di vergogna ma a prezzo di sangue e di gloria. […] Beati i giovani che sono affamati e assetati di gloria, perché saranno saziati». Il 13 maggio il Corriere delle Puglie titolava così la prima pagina: «La concorde volontà d’Italia è con Antonio Salandra. Gabriele d’Annunzio salutato da oltre 30 mila persone al suo arrivo a Roma. “È romano vincere e morire e vivere nella vita eterna della Patria!”». D’Annunzio addirittura invitò la folla romana a procedere al linciaggio fisico di Giolitti, nella propaganda interventista ingiustamente calunniato come «ladro», «traditore» e «barattiere » comprato dall’«oro tedesco». In linea con le violente dimostrazioni belliciste che si svolgevano in parecchie città d’Italia, anche a Molfetta si ebbero manifestazioni interventiste. Nel pomeriggio del 13 maggio un gruppo di studenti del Liceo e della Scuola Tecnica girò per le principali vie di Molfetta invocando la guerra e gridando: “Viva Salandra!”, “Viva l’Italia!”, “Abbasso l’Austria!”, “Abbasso Giolitti!”. I giovani sfilavano con alcune bandiere nazionali (quella del Liceo-Ginnasio era stata inaugurata appena un anno prima, il 31 maggio 1914). Quasi contemporaneamente in via Borgo si svolgeva una contromanifestazione di socialisti neutralisti, che non solo vennero malmenati da interventisti esaltati, ma in diversi casi perfino tratti in arresto. Era il segno della forte divaricazione esistente fra i borghesi patriottardi e i proletari pacifisti molfettesi e del favore della polizia accordato agli interventisti in base alle disposizioni governative e prefettizie. Intorno alle 18 il corteo bellicista si diresse verso il viceconsolato austro-ungarico (che si trovava in via Massimo D’Azeglio), ma la forza pubblica aveva già sbarrato le strade d’accesso. Allora i dimostranti tornarono a corso Umberto, dove il prof. Mauro Poli (che, come segretario della Sezione repubblicana di Molfetta, si era distinto nelle elezioni del 1913 per l’appoggio dato all’on. Pansini contro Salvemini) arringò i manifestanti inneggiando alla grandezza dell’Italia. Parlarono pure Francesco Francavilla, professore del Liceo, e gli studenti Ancona e Caffarella. Poi, verso sera, il corteo si sciolse. La mattina del 14 maggio, alla notizia delle dimissioni presentate da Salandra il giorno prima, alle 8 e 30 gli studenti secondari, unendosi a diversi cittadini e chiedendo a gran voce l’intervento, improvvisarono una dimostrazione più affollata della precedente. Dopo vari discorsi pronunciati in via Borgo, i manifestanti raggiunsero il palazzo municipale e pretesero l’esposizione della bandiera italiana. Non solo furono accontentati, ma ottennero anche le parole di adesione del ragioniere Sergio Azzollini, assessore alle finanze. Verso mezzogiorno i dimostranti si separarono davanti al Circolo studentesco “Sparta-Roma”, ma un gruppo di irriducibili raggiunse di corsa il viceconsolato austro-ungarico e proruppe in grida ostili. Vedendo però arrivare la forza pubblica, i manifestanti si sbandarono. Il rancore antiaustriaco, tuttavia, lievitò durante la notte e il 15 maggio si ebbe una nuova manifestazione interventista, quando una massa di studenti secondari andò a tumultuare a corso Umberto davanti all’edificio del Liceo-ginnasio e della Scuola Tecnica, chiedendo la sospensione delle lezioni con una nutrita sassaiola, che infranse molti vetri delle finestre della scuola. Raggiunto lo scopo e ingrossate le file, i dimostranti si diressero verso il viceconsolato austro-ungarico, gridando “Viva l’Italia!”, “Viva Salandra!” e agitando bandiere italiane e un vessillo del Belgio (nazione vittima dei crimini di guerra veri e presunti commessi dai tedeschi). Nonostante le misure precauzionali della polizia, la folla, fattasi sotto le finestre del viceconsolato, staccò lo stemma asburgico. Alcuni dimostranti, poi, poggiata al muro una lunga scala, strapparono l’asta con la bandiera austro-ungarica e issarono al suo posto la bandiera italiana. Lo stemma asburgico fu portato in giro per la città e poi presso la sede locale della Società del Tiro a segno nazionale, dove parlarono gli studenti Rotondo, Picca e Poli. In séguito la folla raggiunse il Municipio, dove espose il tricolore e invitò a parlare il prof. Mauretto Poli. Sulla scia dei violenti discorsi antigiolittiani di d’Annunzio nelle «radiose giornate» di maggio, Mauro Poli bollò «l’opera infame e diabolica» di Giolitti, rievocò il martirio del popolo belga assalito dai tedeschi e inneggiò alla guerra. Applaudito l’oratore, il corteo proseguì trionfante per via Borgo. Il 16 maggio, sulla spinta delle violente dimostrazioni interventiste di molte città italiane, Vittorio Emanuele III respinse le dimissioni di Salandra, presentate tre giorni prima. In questo clima di febbrile esaltazione e di «colpo di stato» strisciante, una voce dissonante fu quella del segretario socialista Costantino Lazzari, che sintetizzò le conclusioni del Congresso bolognese del Psi e della Confederazione Generale del Lavoro del 16 maggio nella formula «Né aderire né sabotare». Il 20 e il 21 maggio la Camera e il Senato, precedentemente contrari all’intervento, con la sola opposizione dei socialisti, concessero i «poteri straordinari in caso di guerra» al ministero Salandra, da tempo appoggiato da gran parte della stampa italiana. Il 21 maggio il viceconsole austro-ungarico a Molfetta Fernand Roth, suddito svizzero, rassegnò le dimissioni al console austro-ungarico in Bari e al prefetto di Bari Angelo Pesce e con un manifesto avvertì la cittadinanza molfettese delle sue decisioni, producendo «viva soddisfazione in tutti gli ambienti cittadini », stando al corrispondente locale del Corriere delle Puglie. Il 23 maggio 1915 il Psi pubblicò un manifesto antibellicista, ma era il canto del cigno. Il 24 maggio l’Italia entrava in guerra non contro la Germania, che aveva violato la neutralità del Belgio, ma contro l’Austria-Ungheria, cui voleva strappare le terre irredente. All’impreparazione militare dell’Italia, l’Austria rispose con una tempestiva reazione. Nello stesso giorno dell’inizio delle ostilità, aerei austriaci gettarono bombe su Venezia, Jesi e Brindisi, sia pure con danni minimi. Inoltre, per l’insipienza del contrammiraglio Thaon di Revel, che si lasciò sorprendere nonostante nove mesi di preparazione, navi austro-ungariche, partite alle ore 20 del 23 maggio da Pola, Sebenico e Cattaro, nella prima mattina del 24 maggio bombardarono Porto Corsini, Cesenatico, Rimini, Pesaro, Senigallia, Ancona, Potenza Picena, Termoli, le Tremiti, Vieste e Manfredonia, provocando danni, feriti e morti (68 tra civili e militari solo ad Ancona). A sua volta, l’incrociatore esploratore austro- ungarico Helgoland cannoneggiò Barletta, causando lievi danneggiamenti al porto, al castello e alla ferrovia. A Molfetta il 24 maggio, di sera, i socialisti e alcuni gruppi di lavoratori della città inscenarono una manifestazione di protesta contro la guerra, ma in via Borgo furono aggrediti da interventisti borghesi e salveminiani, strapazzati e presi a schiaffi. Fu un brutto episodio intimidatorio, che accentuò la spaccatura già emersa tra il proletariato e la borghesia locale. Il 1° giugno seguente, ad appena otto giorni dall’entrata in guerra dell’Italia a fianco dell’Intesa, un biplano austriaco, lanciate quattro bombe su Bari, ne lasciò cadere altre quattro sulla strada ferrata a sud di Molfetta. Di queste, una esplose nei pressi della stazione ferroviaria, un’altra vicino a un deposito di petrolio e una terza sul piazzale del laterificio Messina, De Gennaro & C., provocando la morte dell’operaio cinquantatreenne Mauro De Palma fu Angelo, che si trovava all’esterno. Il bombardamento causò anche il ferimento di una donna e lievi danni. Per alleviare le difficoltà delle famiglie dei richiamati alle armi, furono prese iniziative diverse, favorite dalle disposizioni impartite dal Governo e dal prefetto Angelo Pesce. Il 27 giugno 1915 il sindaco Graziano Poli invitò la città a donare una giornata di reddito e di stipendio per i famigliari dei precettati. Nelle scuole materne vennero diramate apposite circolari. Come sottolineava per la provincia di Bari l’ispettrice degli asili d’infanzia Vincenzina Norscia, la precedenza assoluta doveva essere data ai figli dei richiamati alle armi. In tal senso si mosse anche l’insegnante Giacomo Salvemini, delegato ad assumere le funzioni di presidente del Comitato amministrativo del giardino d’infanzia di Molfetta, che erano state attribuite dal 1° gennaio 1915 all’avv. Pietro Fontana. L’asilo infantile era ubicato nel convento di San Domenico. Ne era direttrice Anna Maltese in Panunzio. L’educatore delegato, alle tre sezioni di 150 bambini figli di disoccupati, aggiunse una quarta sezione di 100 bambini figli di richiamati e, per assicurare anche a questi la refezione, aprì una gestione straordinaria dal 19 luglio al 27 ottobre chiedendo sussidi a enti nazionali, provinciali e comunali e a privati, in ciò molto aiutato da Gaetano Salvemini. Si pensò poi anche alle vedove e agli orfani di guerra. In séguito al bombardamento aereo del 1° giugno, venne attivata la difesa litoranea con l’invio a Molfetta, dal 15 luglio 1915, della 1a Compagnia Costiera del 261° (poi 248°) Battaglione della Milizia Territoriale al comando del capitano Gerardo Palmieri. Per ospitare i soldati, alcuni locali del convento di San Domenico furono adibiti a caserma. La mattina del 17 luglio tre idrovolanti austro-ungarici lanciarono bombe su Bari, ma poi, osteggiati dalla fucileria costiera, si diressero verso Barletta. Un idroplano cadde al largo di Molfetta e un altro s’inabissò nelle acque barlettane. Due mesi dopo fu inviato a Molfetta da Bari il piroscafo requisito Gianicolo e alcuni palombari, coadiuvati da militi della Regia Marina e da pescatori molfettesi, il 17 settembre recuperarono il velivolo nemico, un idrovolante del tipo “Albatros”, spostato dalle correnti marine verso l’imboccatura del porto. L’entrata in guerra dell’Italia causò ovviamente gravi danni all’economia nazionale e locale. Dopo un decreto luogotenenziale del 13 giugno 1915, che apportava restrizioni alla navigazione mercantile e alla pesca nei mari Adriatico, Ionio e delle Colonie, un decreto luogotenenziale del 4 luglio limitò la navigazione sull’Adriatico alle navi di qualsiasi bandiera e un altro del 25 luglio 1915 vietò totalmente la pesca nell’Adriatico. Con un mare solcato da navi da guerra e sommergibili nemici e punteggiato da mine vaganti, le imbarcazioni pescherecce e mercantili si videro precluso il lavoro ordinario per quasi tre anni. Un altro decreto luogotenenziale del 25 luglio 1915 riconobbe ai Comitati o Associazioni per l’Assistenza Civile durante la guerra «la capacità di compiere tutti i negozi giuridici necessari per il raggiungimento del loro fine e di stare in giudizio per le azioni» conseguenti. Nella tornata del 4 agosto 1915 il Consiglio comunale di Molfetta auspicò che si rendesse obbligatorio per i benestanti il versamento dell’importo di una giornata del proprio reddito stipendiale e immobiliare a favore del Comitato di Assistenza Civile, che aveva lo scopo di dare assistenza economica e morale alle famiglie bisognose e funestate dai lutti di guerra. Dopo il terrore dal cielo, arrivò il terrore dal mare. Nella prima mattinata dell’11 agosto 1915, il cacciatorpediniere austro-ungarico Tatra cannoneggiò per oltre mezz’ora gli stabilimenti a oriente di Molfetta e i ponti della via provinciale Molfetta-Giovinazzo, scambiandoli per viadotti ferroviari. Le cannonate danneggiarono i fumaioli degli stabilimenti, le infrastrutture viarie e un deposito di carbone, ma non causarono nessuna vittima tra i civili, nonostante il panico che fece precipitare una moltitudine di persone semisvestite verso i campi e lungo le rive occidentali. Peggio andarono le cose a Bari e Santo Spirito, dove un altro cacciatorpediniere nemico causò un morto e sette feriti. Tra i più solerti a rincuorare la popolazione molfettese spaventata, si distinsero il vicecommissario di pubblica sicurezza Antonio Giuliani, il capitano Gerardo Palmieri, il capostazione Vito Mingolla e un impiegato del movimento ferroviario, Donato Lovascio. In séguito al raid navale, si ordinò l’oscuramento della città e si consentì l’uso delle campane soltanto per gli allarmi, mentre i campanili furono adibiti a osservatori contro le incursioni aeree e navali. Il 21 agosto 1915 l’Italia dichiarò guerra alla Turchia, ma non alla Germania (con un rinvio fino al 27 agosto 1916). Un decreto luogotenenziale il 22 agosto 1915 varò provvedimenti a favore delle famiglie dei militari prigionieri o dispersi. In molte città italiane la Croce Rossa si mobilitò per l’organizzazione degli ospedali territoriali. Nell’agosto del 1915 il presidente del Comitato centrale, conte Gian Giacomo Cavazzi della Somaglia, con l’ispettore Bissi visitò gli ospedali pugliesi dipendenti dalla Croce Rossa. Dopo essere stato a Foggia, ispezionò i reparti di Molfetta. Ad accoglierlo c’erano il sindaco dr. Graziano Poli, il cav. Nicola Turtur, presidente del comitato molfettese della Croce Rossa, e i medici Vito e Pasquale Pansini e Domenico Roselli, preposti all’Ospedale civile. Intanto Eduardo Germano, volontario nell’esercito prima come maggiore e poi come tenente colonnello medico, di mattina prestava la sua opera a Bari in qualità di direttore dell’Ospedale del Redentore per le malattie infettive e respiratorie nell’XI Corpo d’armata e di sera si prodigava per i bisognosi di Molfetta nell’ambulatorio della Società di Pubblica Assistenza. Della sezione molfettese della Croce Rossa Italiana, oltre al cav. Turtur, facevano parte Tommaso e Leonardo Spadavecchia e il rag. Alessandro Pedroni, ricevitore di Dogana, detrattore di Salvemini e sostenitore di Pietro Pansini nelle elezioni del 1913. Ma la vera animatrice della Croce Rossa fu l’instancabile signorina Gaetana Valente, zia materna del capitano Domenico Picca, la quale organizzò l’ufficio informazioni per i militari di terra e di mare, l’ufficio per i prigionieri di guerra e l’ufficio di corrispondenza. Collaboravano con lei una quarantina di maestre, che scrivevano mediamente duecento lettere al giorno. Se il nipote, morto da eroe sul Carso a Quota 144 il 2 novembre 1916 per l’esplosione di una granata, sarà insignito della medaglia d’oro alla memoria, lei avrà dalla Croce Rossa una medaglia d’argento per benemerenze di guerra. Quando il governo austriaco espulse dal suo territorio gl’italiani invalidi, le donne e i bambini, la locale sezione della Croce Rossa accolse più di sessanta molfettesi che vivevano a Trieste e in Dalmazia, offrendo loro alloggio, indumenti, masserizie e vitto. Furono ospitati anche profughi provenienti dalla Grecia e dalla Turchia. Nel novembre del 1915 il Consiglio direttivo del Comitato di Salute Pubblica di Molfetta nominò all’unanimità suoi componenti il capitano Palmieri e il vicecommissario Giuliani. Per provvedere ai bisogni straordinari del Tesoro, dopo un regio decreto del 15 settembre 1915, che aumentava le tariffe di vendita dei tabacchi, un regio decreto del 21 novembre 1915 abrogò i privilegi in materia di tassa di registro e impose, per la durata del conflitto, nuovi balzelli: il «contributo del centesimo di guerra» sui redditi mobiliari e immobiliari, la sovrimposta straordinaria sui profitti di guerra, l’incremento delle tasse di bollo, delle tasse sui velocipedi, della tariffa postale sulle corrispondenze ordinarie, della tassa di fabbricazione dei fiammiferi e del prezzo del sale. Il rincaro del sale e dei generi di prima necessità colpì particolarmente i poveri, che di «rassegnazione patriottica» ne stavano avendo fin troppa. Il 1° dicembre fu riaperta a Molfetta la gestione ordinaria del giardino d’infanzia con 4 sezioni e ben 323 bambini, quasi tutti figli di richiamati alle armi. Infine, il 27 dicembre 1915 fu inaugurato l’Ospedale territoriale della Croce Rossa annesso all’Ospedale civile di Molfetta e fornito di 80 letti. Costituito nell’area della divisione militare di Bari, servirà specialmente per i feriti provenienti dall’Albania e dalla Macedonia. Vi entreranno 1.850 militari e ne usciranno 1.589. Chiuderà i reparti nell’aprile del 1918. Intanto le famiglie di Molfetta avevano già iniziato la dolorosa conta dei propri cari morti per terra e per mare dal giugno al dicembre del 1915. Non meno di 73 furono i caduti in quel primo anno di guerra per la mesta città adriatica. Il primo caduto molfettese fu il ventottenne Antonio Minervini di Francesco e Porzia Azzollini, soldato del 12° reggimento bersaglieri, morto il 1°giugno 1915 nel settore di Tolmino, al di là dell’Isonzo, durante l’attacco italiano sul Monte Mrzli.
Autore: Marco I. de Santis