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Molfetta, Comitando incontra Giacomo Pisani, redattore di “Quindici” sul reddito di cittadinanza
06 febbraio 2014

MOLFETTA - Sono passati circa 22 anni dall’emanazione da parte dell’Unione Europea della raccomandazione 92/441/CEE, che ha fissato dei criteri comuni per porre le basi affinché il diritto al reddito fosse riconosciuto all’interno dei capitoli di spesa degli Stati dell’Unione.

Un impegno meramente formale, che ha portato all’approvazione di provvedimenti sul tema del reddito in paesi come Spagna e Portogallo e ha condotto all’implementazione di modelli già esistenti in Gran Bretagna e Germania, dove una legislazione in materia era già una realtà dagli anni ’70.

Allo stato attuale, l’Italia e la Grecia sono gli unici Paesi Europei a non prevedere politiche mirate a garantire un reddito minimo di “esistenza”, sebbene il dibattito sul tema è diventato finalmente materia di attualità politica e culturale.

Può un paese con un tasso di disoccupazione giovanile al 12,7%, costituita in buona parte da giovani, permettere che una fetta così ampia della popolazione viva in condizione di totale marginalizzazione sociale ed economica?

E’ evidente in tal senso che una ridiscussione e ridefinizione delle attuali politiche di welfare è assolutamente necessaria e non più rinviabile.

La dignità dell’individuo come valore universale e il suo diritto all’esistenza non possono sottostare alle sempre più stringenti e soffocanti logiche di mercato, di profitto e austerità indiscriminata.

Ne parleremo in Comitando in compagnia del dott. Giacomo Pisani (foto), laureato in filosofia presso l’Università di Bari, dottorando di ricerca presso l’Università di Torino, giovane giornalista, redattore di “Quindici” e scrittore molfettese autore di numerose pubblicazioni sul tema.

L’appuntamento è  venerdì 7 febbraio alle ore 18.00 presso la sede di “Comitando” di via Ugo Bassi 10.

 

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Perché non esiste più nessun movimento di grandi proporzioni che miri a difendere la società civile? Dov'è l'equivalente novecentesco del movimento socialista di fine Ottocento? Non esiste e non esisterà nemmeno in futuro. Per ragioni che affondano le proprie radici nella storia che ha preceduto le sfide della globalizzazio0ne, l'individualismo ha trasformato non solo la società civile, ma anche i conflitti sociali. Anche quando molte persone soffrono per lo stesso destino, non c'è nessuna spiegazione unificata e unificante alle loro sofferenze, nessun nemico suscettibile di essere combattuto e costretto ad arrendersi. Ma la cosa più importante, e anche più grave, è che le persone realmente svantaggiate e quelle che temono di scivolare nella loro condizione non rappresentano una nuova forza produttiva, nemmeno una forza con cui oggi si debbano fare i conti. I ricchi possono diventare più ricchi senza di loro; i governi possono essere rieletti anche senza i loro voti; e il prodotto nazionale lordo può continuare ad aumentare indefinitamente. Non è vero che i conflitti individualizzati sono più facili da affrontare e da regolare delle lotte con classi organizzate o di altre battaglie; è vero, anzi, il contrario. Essi dimostrano che la gente non ha nessun senso di appartenenza, nessun senso di impegno sociale e quindi nessuna ragione di rispettare la legge o i valori che l'hanno ispirata. Se sei disoccupato perché non fumare marijuana, partecipare ai droga-parti e andarsene in giro con automobili rubate? Perché non rapinare vecchie signore, battersi con le bande rivali e, se necessario ammazzare qualcuno? L'espressione “legge e ordine” copre una moltitudine di peccati e non è sempre facile attribuirle una base concreta. Ma sembra alquanto difficile contestare che la disintegrazione sociale va di pari passo con un certo grado di disordine attivo Persone più o meno giovani (tra cui anche donne, di età via via più bassa) non vedono nessuna ragione per continuare ad attenersi alle presunte regole generali del gruppo di cui fanno parte: per loro esse sono regole degli altri; preferiscono dissociarsi da una società che le ha già confinate ai margini e per la quale esse diventano una minaccia. La sensazione che si va diffondendo è quella che stia venendo meno ogni certezza: di qui senso di anomia, tramonto di ogni regola, e profonda insicurezza.
La natura del lavoro sta cambiando. Una carriera lavorativa unica che copra l'intera esistenza delle persone sarà l'eccezione e non la regola. Nell'arco della propria vita le persone avranno dei periodi di lavoro e dei periodi di disoccupazione, attività a tempi pieno e attività part-time, periodi di addestramento e di riaddestramento. In qualche misura, con grande disappunto di molti uomini, diventerà regola generale l'esperienza delle donne. Questi cambiamenti hanno molte implicazioni, per esempio sul terreno del rapporto fra impiego e diritti sociali, i quali non dovranno essere legati a lavori particolari. Comunque tutta questa trasformazione può funzionare solo se tutti, fin da giovani, hanno fatto esperienza del mercato del lavoro. Il nuovo mondo del lavoro impone che i giovani vengano posti nella condizione di vivere un'esperienza di addestramento professionale strettamente legata a occupazioni reali e destinata a concludersi con un periodo di impiego regolare. L'istruzione non risolve tutti i problemi. Le persone comprensibilmente si chiedono che sbocchi abbia. Ma un'istruzione legata a un impiego nell'età critica che va dai 16 ai 19 anni circa assicura alla persona una base di esperienza e di motivazioni che può sostenerla nel corso di tutta una vita di cambiamenti. Viceversa, in assenza delle necessarie opportunità di rendersi conto dell'utilità dell'istruzione e dei vincoli del mercato del lavoro, molto, se non tutto, è perduto. Le persone veramente svantaggiate, il sottoproletariato, presentano un problema quasi insuperabile. Chiaramente limitarsi a offrire loro delle opportunità non basta. In assenza di incentivi più forti non le coglieranno. E' impopolare dire che per alcuni individui veramente svantaggiati la mancanza di motivazioni rappresenta un ostacolo al ritorno al mercato del lavoro e alla società in generale; ciò non toglie che effettivamente molti di essi sono diventati abulici e si sono abituati a una vita marginale. Tutto quello che si può fare per recuperare gli esclusi, si deve farlo.

Negli anni Cinquanta, quando l'Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE) – che significava soprattutto ricostruzione – si trasformò in Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), quasi tutti gli stati dell'Europa occidentale erano entrati a far parte del novero dei “pochi paesi felici”. Le loro caratteristiche erano, opportunità, economiche, società civile e libertà politica. Ma limitarsi ad affermazioni così compiaciute vorrebbe dire mettere a dura prova la benevolenza di qualunque cittadino di uno dei tanti paesi aderenti all'ONU. Innanzi tutto la perfezione del Primo Mondo nella stagione del suo apice aveva una pecca: tutti i suoi membri escludevano altri dai benefici delle loro conquiste e perfino dalle loro opportunità. La storia degli Stati Uniti è una lunga sequenza di battaglie per l'inclusione: dalla guerra civile, alle campagne per i diritti civili, fino alle vicende del sottoproletariato di oggi. La cosa merita di essere rilevata, perché la battaglia è stata combattuta all'interno delle istituzioni. Le imperfezioni americane sono gravi e ben visibili, ma quelle della Gran Bretagna e dell'Australia, della Svizzera e della Svezia, non sono meno importanti. Le disuguaglianze economiche restano per molti il segno dei una promessa chimerica di cittadinanza. I conflitti sociali che presumibilmente un secolo fa avrebbero tenuto banco in un ipotetico convegno mondiale sullo sviluppo sociale erano laceranti; e i rappresentanti dei governi a tale convegno immaginario del 1895 per lo più avrebbero raccomandato di sopprimere i disordini con la forza. Ci sono voluti decenni di lotte intestine –“ lotte di classe”, come furono chiamate allora – per affermare l'uguaglianza fondamentale di tutti gli esseri umani nella società. E ci sono volute anche due guerre moderne: per quanto sia terribile a dirsi, non esiste un fattore di livellamento sociale più efficace di una guerra moderna che coinvolga l'intera popolazio0ne. Non è un caso che la seconda guerra mondiale sia stata chiamata “guerra totale”. Quando si profilano opportunità nuove ma la gente non riesce ancora a coglierle, quando lo sviluppo economico conosce una forte accelerazione ma la crescita sociale e politica stenta a decollare, matura una miscela di frustrazione e di irresponsabilità che alimenta la violenza. Questa è oggi, la nostra situazione e condizione politica – sociale - economica.

1°parte. - Al di fuori della politica l'uomo ha fatto miracoli: ha sfruttato il vento e l'energia, ha trasformato sassi pesanti in cattedrali, è riuscito a controllare e vincere quasi tutte le malattie, ha cominciato a penetrare i misteri del cosmo. “In tutte le altre scienze si sono registrate notevoli progressi” ebbe a dire una volta John Adams, secondo presidente degli Stati Uniti “ma non in quella del governo, la cui prassi è rimasta immutata.” Esistono quattro tipi di malgoverno, spesso combinati fra loro: la tirannia, l'eccessiva ambizione, la inadeguatezza e la decadenza, e, infine, la follia o la perversità. Ma follia e perversità, potrebbe obiettare qualcuno, fanno parte della natura umana, e allora per quale ragione dovremmo aspettarci qualcosa di diverso dagli uomini di governo? La follia dei governi preoccupa perché si ripercuote con effetti più negativi su un maggior numero di persone; di qui l'obbligo per i reggitori di stati di agire più degli altri seconda ragione. Tutto ciò è risaputo da tempo immemorabile, e allora perché la nostra specie non ha pensato a prendere precauzioni e a cautelarsi? Qualche tentativo è stato fatto, a cominciare da Platone, che propose di creare una categoria di cittadini destinati a diventare professionisti della politica. Secondo lui la classe dominante, in una società giusta, doveva essere costituita da cittadini che avevano imparato l'arte di governare, e la sua soluzione, affascinante ma utopistica, erano i re filosofi: “Nelle nostre città i filosofi devono diventare re, oppure chi è già re deve dedicarsi alla ricerca della sapienza come un vero filosofo, in modo da far coesistere in una sola persona potere politico e vigore intellettuale.” Fino a quando ciò non fosse accaduto, riconosceva Platone, “le città e, io credo, l'intero genere umano non potranno considerarsi al riparo dai mali.” E' così è stato. (continua)
2°parte. - Il conte Axel Oxenstierna, cancelliere svedese durante la terribile Guerra dei Trent'anni, parlava con ampia cognizione di causa quando disse: “Renditi conto, figlio mio, che ben poco posto viene lasciato alla saggezza nel sistema con cui è retto il mondo.” Lord Acton, uomo politico inglese del secolo scorso, usava dire che il potere corrompe, e di ciò ormai, siamo perfettamente convinti. Meno consapevoli siamo del fatto che esso alimenta la follia, che la facoltà di comandare spesso ostacola e toglie lucidità alla facoltà di pensare. La perseveranza nell'errore, ecco dove sta il problema. I governanti giustificano con l'impossibilità di fare altrimenti decisioni infelici o sbagliate. Domanda: può un paese scongiurare una simile “stupidità difensiva” come la definì George Orwell, nel fare politica? Altra domanda, conseguente alla prima: è possibile insegnare il mestiere ai governanti? I burocrati sognano promozioni, i loro superiori vogliono un più vasto campo d'azione, i legislatori desiderano essere riconfermati nella carica. Sapendo che ambizione, corruzione e uso delle emozioni sono altrettanto forze di controllo, dovremmo forse, nella nostra ricerca di governanti migliori, sottoporre prima di tutto i candidati a un esame di carattere per controllarne il contenuto di coraggio morale, ovvero, per dirla con Montaigne, di “fermezza e coraggio, due virtù che non l'ambizione ma il discernimento e la ragione possono far germogliare in uno spirito equilibrato.” Forse per avere governi migliori bisogna creare una società dinamica invece che frastornata. Se John Adams aveva ragione, se veramente l'arte di governare “ha fatto pochissimi progressi rispetto a 3000 o 4000 anni fa” non possiamo aspettarci grandi miglioramenti. Possiamo soltanto tirare avanti alla men peggio, come abbiamo fatto finora, attraverso zone di luce vivida e di decadenza, di grandi tentativi e d'ombra. (fine)

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