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Metamorfosi del rapporto medico paziente
24 settembre 2019
Il progresso della medicina è stato tortuoso, ricco di imprevisti, casualità e colpi di genio. La spiegazione dei fenomeni naturali si è trasformata da interpretazioni mitico-teurgiche a descrizioni razionali. Il paziente vedeva nel suo medico non solo il professionista cui rivolgersi per le sofferenze fisiche ma anche il consigliere idoneo a curare le sofferenze morali.
Il medico era una specie di sacerdote laico. Questo atteggiamento compensava l’efficienza terapeutica. I medici non esponevano sull’uscio del proprio ambulatorio l’orario di lavoro come avviene oggi, le chiamate notturne erano norma e non eccezione e normali erano le visite domiciliari per pazienti gravi anche nei giorni festivi. Il “tempo” della visita medica comprendeva la parte prettamente professionale che si integrava e completava con un lungo colloquio con il paziente ed i suoi familiari sulle problematiche più diverse. Il tempo dedicato alla visita è importante per il paziente. Il tempo assume significati diversi e non scorre nello stesso modo, per il medico è inteso in senso cronologico, per il paziente è il tempo vissuto, quello che percorre la sua storia. Chi era il medico? Nel concetto antico, la persona alla quale ci si rivolgeva nel momento della malattia con la speranza di riceverne guarigione. Chi è il medico oggi? Oggi si tende a credere che i medici siano coloro ai quali la società affida il compito di preservare e/o ripristinare la salute. Che cosa è la salute? Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità uno “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non soltanto l’assenza di infermità”. Gli obiettivi della medicina sono stati storicamente, e lo sono ancora oggi, la sfida alle leggi del tempo, alla realtà biologica dell'invecchiamento e della morte. Il concetto di salute vede prevalere l'accezione limitativa dell’ "assenza di malattia”. L’intenso allungamento della vita ha determinato una profonda trasformazione demografica della società. Nel 1900 i sessantacinquenni (anziani) erano l’1% della popolazione. Oggi in Italia il dato rilevante, per le importanti implicazioni economiche e socio-sanitarie, è l’incremento dei soggetti oldest old (2.3 milioni) con età superiore agli 80 anni, fragili, in quanto affetti da patologie multiple. Il progresso tecnologico e scientifico ha determinato un aumento dell’aspettativa di vita consentendo a molti soggetti di raggiungere l’età avanzata in discreto benessere creando tuttavia una nuova categoria di malati, una “sfida” non solo per la classe medica ma anche per l’intero sistema socio-sanitario. La malattia che forse più di ogni altra esprime in maniera paradigmatica le problematiche legate all’invecchiamento dagli elevati costi socio-assistenziali è la demenza. Contributo dei determinanti sulla speranza di vita: Patrimonio genetico 20-30% Ecosistema 20% Settore sanitario 10-15% Fattori socio-economici 40-50% Ineguaglianza socio-economica crea un’ineguaglianza sanitaria. In questo contesto la medicina è anche un mito? “Il mito è una serie coerente di fantasie che gli uomini creano per rassicurare se stessi e placare le proprie paure.” Da sempre il medico decideva in piena autonomia secondo scienza e coscienza. Negli ultimi 20-25 anni si è inserito un terzo criterio, l’economicità che ha cambiato le priorità condizionate da parametri scientifico-economici che pongono il medico di fronte a decisioni spesso contrastanti con la propria coscienza facendoli perdere l’aura di rispetto e “sacralità” e la fiducia che decresce in contrasto con l’accresciuta fiducia nella medicina. Il rapporto tra medici e pazienti è entrato in fibrillazione, si è sfaldato, e le difficoltà attuali non autorizzano una idealizzazione del passato. Le colpe non sono né dei medici né dei pazienti ma di forze storiche che hanno prodotto traslocazioni del potere in medicina, la metamorfosi del concetto di responsabilità e la trasformazione dei modelli organizzativi della sanità. L’esercizio della medicina riconosce al medico il potere di curare. Nel modello tradizionale, chiamato ippocratico, il medico esercita un potere esplicito con il solo affidamento fiduciale, senza complessi di colpa e giustificazioni. Questo modello è stato in vigore in Occidente per venticinque secoli. La modernizzazione della medicina ha favorito la rivendicazione da parte dell’individuo sulle decisioni che riguardano il suo corpo e l’opposizione al paternalismo medico. Le professioni liberali sono caratterizzate da conoscenze scientifiche ma soprattutto da un ideale di servizio che giustifica quella specie di extraterritorialità affinché la professione possa svolgere la propria funzione sociale. Questi valori etici devono confrontarsi con una società che non riconosce più una persona che in forza della sua dedizione è vincolata al bene del malato visto unicamente sotto l’aspetto del suo stato fragile e di bisogno. Il sanitario oggi ha di fronte un altro individuo (il paziente), con il quale entra in un rapporto di responsabilità condivisa ma giuridica. Nel 1978 nasce in Italia il Sistema Sanitario Nazionale a copertura universalistica, i professionisti diventano dipendenti ed i malati, titolari di un diritto a ricevere dei servizi. Un ulteriore giro di vite nei primi anni Novanta istituisce le aziende sanitarie che introducono logiche di tipo amministrativo e contabile inusuali in medicina ed il malato, da utente diventa un cliente da soddisfare, secondo logiche di mercato. L’accountability indica il dovere di documentare, di rendicontare a chi ci ha dato l’incarico e ci paga lo stipendio e il malato diventa un problema contabile (tanto più rischioso da gestire quanto più la sua patologia è complessa e costosa). La salute rientra nei meccanismi nell'apparato statale. Il medico viene gravato di compiti burocratici e tra lui e il cittadino si frappone uno Stato, spesso non all'altezza dei compiti che dovrebbe affrontare e l’ "utente” sedotto dal mercato della salute, avido consumatore di servizi e prestazioni che spesso coincidono con capricciose pretese. Nasce la medicina centrata sul paziente, che antepone gli interessi del paziente a quelli del medico. La malattia ha sempre due facce: la prima corrisponde a ciò che il medico può diagnosticare in modo oggettivo e impersonale che rende ogni paziente “un caso clinico”, una componente della statistica medica, un’occasione per l’esercizio dell’arte” medica. L’altra faccia è quella del vissuto del malato, laddove la malattia è un nuovo modo di esistere, una spiacevole percezione della propria identità, fisica e psichica. Regole della comunicazione: Non esprimere mai troppi concetti contemporaneamente, parlare direttamente al paziente, coinvolgere anche i familiari, ripetere l’informazione specie se chi ascolta possiede un basso grado d’istruzione, i punti più importanti dell’informazione vengano dati sia all’inizio che alla fine, per essere più chiari, ricorrere ad esempi, usare qualche termine più colloquiale, popolare talvolta anche dialettale, accertarsi che il paziente abbia capito ed esprimere sempre ottimismo. L’uomo ammalato cerca un significato di ciò che gli sta accadendo trovandosi in una posizione di inferiorità rispetto a chi sta bene. Gli impegni, gli interessi, le abitudini vengono improvvisamente abbandonati per entrare in un quotidiano diverso che coinvolge anche l’ambiente familiare e sociale in cui è inserito. La verità medica, quella che si dice al paziente, non deve corrispondere necessariamente con la verità scientifica, richiede una minima diagnosi psicologica, per capire quanta verità scientifica egli sia in grado di accettare e quanta disponibilità mostra nel ricercarla. Comunicare la malattia: molte persone di fronte alla malattia preferiscono l’ignoranza ed alla possibilità di scelta preferiscono la delega. Inappropriato decidere unilateralmente che al malato vada detto tutto o che è meglio che il malato non sappia, il massimo morale richiede che venga ascoltato nel rispettato dei valori della persona. Dire la verità al paziente è: un atto morale obiettivamente positivo, un diritto fondamentale del paziente ed un dovere dell’operatore sanitario. Le cinque tipologie di reazione psicologica sono il fatalismo, lo spirito combattivo, la disperazione o depressione, la preoccupazione ansiosa e l’evitamento o minimizzazione. Il rapporto tra medico e paziente è cambiato per il tumultuoso progresso delle biotecnologie e della farmacoterapia, con speranze e paure non necessariamente fondate, la diffusione, anche mediatica, del concetto di prevenzione, la maggior attenzione ai segnali che provengono dall’organismo e l’atteggiamento consumistico del paziente nei confronti della salute. L’avvento dell’ecografia, TC e della RM hanno contribuito ad incrementare significativamente le possibilità diagnostiche, creando una progressiva atrofia della valutazione clinica a favore dell’ipertrofia delle tecniche strumentali. Si accusa la moderna medicina tecnologica di avere disumanizzato la pratica clinica e di avere indotto i medici a trattare i pazienti come oggetti. Visitare gli ammalati non è una pratica obsoleta, ma sempre utile anche per una corretta diagnosi e la preparazione dei medici deve prevedere non solo “buoni medici” ma anche “medici buoni”. E’ necessario «educare» il paziente-cliente, costruendo una concreta alleanza fondata sulla condivisione della verità dei fatti. La classe medica deve riscoprire il rapporto tradizionale, tristemente trasformatosi da relazione «inter-personale» a relazione «im-personale». Il malato, dal canto suo, deve imparare quella che Bernard Lown, cardiologo e premio Nobel nel 1985, chiamava «arte di essere Pazienti». Il paziente consapevole delle potenzialità e dei limiti della scienza deve contribuire a rifondare il rapporto col medico. Chi garantisce la salute sono i medici ma il paziente garantisce sé stesso nel momento in cui, attraverso un affidamento consapevole, critico ma sereno, recupera la fiducia. Oggi il medico perseguendo i principi dell’efficienza, dell’efficacia ed accuratezza, recuperando i valori etici e deontologici deve preoccuparsi del modo di essere e di porsi oltre che del contenuto tecnico della sua professione perché il paziente sia destinatario di una medicina il cui fine scientifico è la cura della malattia ed il cui fine antropologico è la cura della persona.
Alberto Maggialetti
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