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“Maralditium dilectum et fidelem” INEDITI - Un molfettese tra gli ammiragli degli Angioini (II parte)
15 luglio 2005

Nella prima parte di questa ricerca abbiamo lasciato Maraldizio, Protontino di Molfetta, sovrintendere nel porto di Marsiglia alla riparazione e custodia di alcuni vascelli della flotta angioina. Siamo nel 1293, e il Nostro è ormai tra i più apprezzati comandanti della marina regia. Prima di narrare quello che probabilmente fu l'incarico più delicato ed importante della sua carriera, riportiamo brevemente due notizie che lo riguardano, relativamente alla sua città d'origine. Il 10 luglio 1294, a Molfetta, Urso de Pasca restituisce delle terre a frate Guglielmo: l'atto notarile è rogato dal notaio Angelo, e tra i fondi confinanti risulta un oliveto “Maralditii prothontini”. Il 19 settembre dell'anno dopo, un secondo atto, dello stesso notaio, documenta un'altra restituzione di terre a frate Guglielmo: di nuovo viene citato il campo “Maralditii prothontini Melficte”. I due documenti si leggono nel volume settimo, “Le carte di Molfetta”, del Codice Diplomatico Barese, lavoro postumo di Francesco Carabellese, edito nel 1912, e confermano la sua identità, la sua carica, ed il suo status di possidente. Ma veniamo alla spedizione d'Albania, che richiede una breve contestualizzazione storica. La dinastia francese insediatasi nell'Italia meridionale ed in Sicilia dopo la sconfitta sveva, si caratterizza immediatamente per il suo espansionismo orientale, volto alla riconquista dell'Impero Latino d'Oriente, ed alla riproposizione, fortemente caldeggiata dal Papato, dell'ideale crociato, infranto dalla caduta di Baldovino di Courtenay, ultimo imperatore Latino di Costantinopoli, detronizzato da Michele Paleologo. Per la realizzazione di questo ambizioso disegno, era indispensabile assicurarsi il dominio della penisola balcanica sud-occidentale e della Grecia meridionale, dove i principati franchi, da soli, non reggevano all'urto dei bizantini, divisi tra loro, ma decisi a farla finita con i latini. Nel 1267 con il Trattato di Viterbo, Guglielmo di Villehardouin, previo assenso pontificio, cede a Carlo I d'Angiò il Principato di Acaia, o Morea, che comprendeva il Peloponneso, l'Eubea, le Cicladi, le isole Ionie, il ducato di Atene e Nasso, e la contea di Cefalonia. Due clausole prevedono l'assenso preventivo di Baldovino, che aveva precedentemente investito Guglielmo dei possessi, ed il matrimonio di un figlio di Carlo, scelto dal Pontefice, con Isabella, figlia di Guglielmo. E' bene sottolineare che le mire espansionistiche angioine, con le relative, complicate strategie matrimoniali, ebbero sempre in Oriente un carattere prettamente feudale. Nel febbraio del 1272 il re di Napoli fondò un piccolo regno in Albania, (che all'epoca era detta Romania), con le terre che avevano costituito la dote di Elena, moglie di Manfredi di Svevia, e fortificò i presidi ed i forti di Durazzo e Valona. Nel 1273 Beatrice, una figlia di Carlo,avrebbe sposato Filippo di Courtenay, figlio dell'ex imperatore Baldovino. Nel 1277 Maria d'Antiochia vendette al re di Napoli i suoi diritti ereditari sul Regno di Gerusalemme. Il titolo, come tanti altri, fu adottato dal re e dai suoi discendenti nella intitolazione dei diplomi, ma restò in realtà puramente nominale: evidenzia tuttavia qual'era l'obiettivo principale della politica orientale angioina: ripristinare a Costantinopoli l'Impero Latino, e farne il trampolino di lancio per l'impresa finale: la riconquista di Gerusalemme. Questo grandioso disegno comportò un enorme dispendio di risorse umane, economiche e militari, ma fallì in gran parte per la presenza di due formidabili ostacoli: l'espansione commerciale catalana nel Mediterraneo orientale, sostenuta dagli Aragonesi, e una grande figura di sovrano bizantino: Michele VIII Paleologo. Catalani e bizantini tramarono insieme contro l'angioino, favorirono e finanziarono la grande insurrezione siciliana dei Vespri, e distolsero per sempre i re di Napoli dai loro sogni orientali. Allo scoppio della rivolta siciliana, per evidenti necessità strategiche, Carlo si preoccupò di conservare comunque il possesso della sponda adriatica che fronteggiava la Puglia, e delle regioni retrostanti. Dopo la sua morte, l'omonimo successore proseguì la politica paterna di mantenimento e consolidamento delle posizioni acquisite in Albania ed in Epiro, compatibilmente con il salasso di uomini e mezzi impostogli dalla disastrosa guerra del Vespro. Nel 1291 Carlo II ordinò che si iniziassero le trattative per il matrimonio di suo figlio Filippo con Ithamar, figlia del Despota di Epiro Niceforo Comneno. Nel 1204, dopo la conquista di Costantinopoli da parte dei Crociati, gli imperatori greci spodestati, e membri di altre famiglie principesche, avevano fondato piccoli regni, detti in oriente Despotati, che lottarono contro gli stati latini per la riconquista della capitale bizantina e, naturalmente, fra di loro. Sulle rive dell'Adriatico sud-orientale si instaurò il Despotato d'Epiro, che comprendeva l'attuale Albania, la Tessaglia, il Montenegro meridionale, e parte della Macedonia. Fondato da Michele Angelo I, che si intitolava anche Comneno dalla famiglia della nonna paterna, dovette difendersi, con sottili giochi diplomatici, ed accorte strategie matrimoniali, dalla pressione bulgara a nord, dai potentati bizantini rivali di Tessalonica e Nicea, e dalle mire espansionistiche occidentali, sveve, e poi angioine. Niceforo I, nipote di Michele, salito al potere nel 1271, subì per alcuni anni le aggressioni di Carlo I e del successore,ed infine, acconsentendo al matrimonio della figlia Ithamar con Filippo d'Angiò, sperava di preservare, almeno ad occidente, la sicurezza del despotato. Come vedremo, la vicenda di questa sfortunata principessa di lingua e cultura greco-ortodossa, s'intreccia, almeno all'inizio, con quella del nostro Maraldizio. Nel giugno del 1291 Carlo II invia in Epiro Fiorenzo d'Hainaut e Pietro dell'Isola a saggiare la disponibilità di Niceforo riguardo alla figlia. Nel maggio del 1292 Guglielmo de Ponciaco, regio consigliere, e Gentile da Catanzaro, giureconsulto, si recano a loro volta ad Arta, presso il Despota, per definire e siglare le clausole diplomatiche, territoriali, feudali e successorie del matrimonio. Nella primavera del 1294 il re di Napoli, per accrescerne il prestigio, concede a Filippo il Principato di Taranto, che comprendeva il Salento, la Lucania orientale, parte della costa albanese, e l'isola di Corfù. Al principio dell'estate dello stesso anno, Ruggero, arcivescovo di Santa Severina, e Berardo di Saint-Georges, in qualità di procuratori, celebrano in Epiro il matrimonio in assenza di Filippo. Ithamar porta in dote le fortezze di Lepanto, Argirocastro, Vracori, Vonitza e Butrinto, che andranno a formare il Despotato di Romania. Infine nell'autunno del 1294 un'imponente spedizione, dopo lunga preparazione, parte da Brindisi per prelevare Ithamar e condurla solennemente in Puglia dal marito Filippo. Il re affida tutta l'organizzazione finanziaria e logistica, ed il comando navale, a Maraldizio, Protontino di Molfetta. Questo delicatissimo incarico viene dettagliatamente descritto nel primo dei cinque documenti angioini che lo storico Francesco Cerone pubblicò a Napoli nel 1911, in un opuscolo edito dal tipografo Tocco, in occasione delle nozze Franco-Salvio. Tutte le cinque carte sono estremamente interessanti per la storia della marina angioina, per l'armamento e struttura dei suoi vascelli, e per il reclutamento,entità e dislocazione degli equipaggi. La prima è un'Apodissa, vale a dire una specie di quietanza liberatoria, con la quale i Maestri Razionali della Gran Curia Regia di Napoli, il massimo organo finanziario del Regno,dichiarano che i conti presentati da Maraldizio, e descritti in dettaglio in un quaderno da lui consegnato, sono a posto, e cioè che le spese sostenute poco più di un anno prima per la spedizione in Albania corrispondono al denaro anticipatogli. Pubblichiamo in italiano le parti più salienti del primo documento del Cerone, consapevoli ovviamente che la traduzione dal latino medievale cancelleresco non è possibile alla lettera, e che in un certo qual modo, snatura l'originale, ma altrettanto convinti che la maggior parte dei lettori ha il diritto di comprendere di che si parla. Qualche parola ancora per il nostro Protontino. Egli comanda una flottiglia di sei galee, compresa la sua ammiraglia, una tarida da trasporto, e un barcone modificato nei ponti per i cavalli; dirige il servizio di fornitura e di cassa per tutta la spedizione; è in comunicazione diretta con il Re, con la corte, con Niceforo; manda e riceve ambasciatori; stipendia e controlla notai, mercanti, artigiani: insomma, esercita un'autorità che fa di lui il Comandante del ramo militare, di quello diplomatico, e, diremmo oggi, il responsabile dell'intendenza e del commissariato di tutta la spedizione. Viene molto ben pagato, ma l'impresa riesce, ed alla fine i conti tornano. Possiamo veramente andar fieri di questo nostro antenato, e perché no, dedicargli anche una via della nostra città. Molto triste fu invece il destino di Ithamar, la giovane principessa bizantina moglie di Filippo. Nella prima metà del 1308 si sparse la fama che fosse l'amante di Bartolomeo Siginulfo, conte di Caserta, Gran Camerario del Regno, uomo potentissimo a corte, caduto poi in disgrazia, processato per tradimento, spogliato dei suoi beni e bandito da Napoli. In realtà, pare che la condanna di Bartolomeo avesse motivazioni schiettamente politiche, e che la tresca con Ithamar fosse una montatura per giustificare il processo. Tra l'altro, buona parte delle terre d'Epiro rivenienti dalla dota della Comneno, per complicate vicende familiari, non erano state incamerate da Filippo, che cominciava a meditare ulteriori e più proficue nozze. Ithamar, ormai, era di troppo, e doveva, in qualche modo, “sparire”. Accusata di adulterio e ripudiata, nella prima metà del 1309 risultava morta. Il trenta luglio del 1913 il Principe di Taranto sposava Caterina di Valois, una bambina di 12 anni che aveva però il merito di vantare diritti, ovviamente nominali, nientedimeno che sull'impero Latino d'Oriente, perduto dai Franchi da oltre 70 anni! Finisce qui la seconda parte di questa nostra ricerca su Maraldizio. Da alcune notizie rinvenute in diversi volumi, riteniamo che egli dovette ricoprire altri incarichi di un certo rilievo. Il materiale eventualmente raccolto, se meritevole di pubblicazione, potrà costituire in futuro materia di una terza ed ultima parte della storia del nostro Protontino. Napoli, 26 febbraio 1296 Carlo Secondo ecc. In virtù della presente Apodissa dichiariamo pubblicamente per il presente e per il futuro che Maraldizio Protontino di Molfetta, nostro fedele familiare, essendosi presentato il 22 del corrente mese di febbraio in Napoli presso i Maestri Razionali della nostra Magna Curia per consegnare il dovuto rendiconto finale del denaro fornitogli l'anno scorso con ricevuta dalla nostra Curia, per riparare ed armare in Puglia alcuni vascelli, per condurre dalla Romania nel Regno la consorte del nostro carissimo figlio Filippo, principe di Taranto ha esibito un quaderno dal quale risulta che egli ha incassato l'anno scorso per conto della Curia, in diverse date in esso specificate, e siglate dai nostri funzionari e da quelli del Principe, numerose somme di denaro, così suddivise. Da Giacobino de Campaniola, all'epoca Giustiziere di Terra di Bari, e dall'Erario con lui deputato a riscuotere i donativi già promessi a noi da alcuni luoghi e città di Terra di Bari: 700 once d'oro; da Roberto de Croce, Tesoriere del predetto Principe: 171 once d'oro 2 tareni d'argento, e 10 grana, denaro della nostra Curia che era in suo possesso. Questo denaro fu dato allo stesso Protontino dai predetti funzionari per conto della Curia, per la somma totale di 871 once d'oro, 22 tareni e 10 grana. Di essa mostrò nel predetto quaderno diversi mandati del suddetto Principe, che agiva all'epoca nel Regno di Sicilia come nostro Vicario, e le ricevute relative alle somme che egli aveva per conto della Curia liquidato nel corso dello stesso anno alle sottoscritte persone per i seguenti servizi. 699 once d'oro a Nicola de Luparia, nostro fedele ed amato familiare, che faceva le veci di Rinaldo de Avellis, Ammiraglio del Regno di Sicilia, per la riparazione di sei galee, una tarida, ed un barcone, necessari al trasporto dalla Romania al Regno della predetta Principessa, per le paghe, panatica, e per le altre consuete necessità di chi naviga per un certo tempo, ed in luoghi diversi, come nel suddetto quaderno è distintamente specificato. A diversi artigiani e mercanti di Trani e Barletta che hanno venduto quanto era necessario all'allestimento della spedizione, le seguenti somme, così ripartite. 36 canne e sei palmi di panno scarlatto per fare la tenda nella quale doveva viaggiare la Principessa, al prezzo di un'oncia d'oro e due tareni a canna. 12 canne di tela celeste, tre canne di panno giallo, e 4 palmi di tela fine bianca per cucire sulla tenda gli scudi con gli stemmi del Principe, al prezzo di 18 tareni d'oro e 12 grana per canna. 99 canne di seta celeste dieci canne di seta rossa, e 27 di seta gialla, per fare 8 gonfaloni con i nostri stemmi, dieci bandiere, e 60 pennoni con gli stemmi del Principe necessari all'armata, al prezzo di 4 tareni e 15 grana a canna. 169 canne di lino celeste, rosso e giallo, per foderare la tenda, per fare 400 pennoni per le fodere dei gonfaloni e delle bandiere, al prezzo di un tareno e 10 grana a canna. Sei pezze e mezza di tela sottile per le fasce traverse, al prezzo di 10 tareni e 3 grana per ogni pezza. Per la confezione della tenda, dei gonfaloni, delle bandiere e dei pennoni, e per il filo di diversi colori per cucire la tenda, e per tutte le altre diverse cose necessarie per portare a termine l'operazione, come nel predetto quaderno è distintamente elencato e specificato, la spesa assomma a 87 once d'oro sette tareni e dieci grana. Il Protontino, per 55 giorni rimasto per le incombenze in terraferma a tre tareni d'oro al giorno, e per 81 giorni di navigazione, andando in Romania, sostandovi e ritornando per due volte al servizio del Principe a quattro tareni d'oro al giorno, trattenne per sé sedici once d'oro e 9 tareni, più quattro once d'oro per un suo cavallo questo denaro da lui incassato per le spese sostenute e per i suoi stipendi, compreso il cavallo, ammonta a 871 once d'oro, 14 tareni e 19 grana. Calcolata la differenza fra l'introito e le uscite, rimangono al Protontino 7 tareni ed 11 grana. Per garanzia sia della Curia che del Protontino e dei suoi eredi, abbiamo disposto la presente Apodissa, che, munita del Nostro sigillo, funge da definitiva e generale quietanza, e libera il Protontino ed i suoi eredi da ogni ulteriore rendiconto e responsabilità. Dato a Napoli dai Maestri Razionali Ignazio Pansini
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