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Lo Stabat Mater di Palestrina nella Cattedrale
15 aprile 2019

Alla cultura della nostra postmodernità, archetipicamente distopica, appare inattuale ed antiquato scrivere di un brano di musica sacra composto attorno al 1590 e che è uno degli apici della produzione polifonica a cappella del Rinascimento, lo Stabat Mater di Palestrina. Ancor più inattuale potrebbe sembrare, inoltre, la sua esecuzione da parte di una cappella musicale, quale è la Cappella Musicale Corradiana diretta dal maestro Antonio Magarelli. Tuttavia, a chi scrive è sembrato opportuno porre alcuni spunti di riflessione al maestro, realizzando una breve intervista sulla musica antica e su questo capolavoro della musica occidentale, sconosciuto ai più, adombrato da altri Stabat quali quello di Rossini e forse quello di Verdi. Lo Stabat di Palestrina fu composto intorno al 1589-90, forse per Papa Gregorio XIV, che regnò dal 1590 al 1592. È stato per lungo tempo conservato gelosamente negli archivi della cappella papale, che lo cantava ogni anno solo in parte, all’offertorio nella Messa della Domenica delle Palme. La prima edizione fu opera di Charles Burney, che riuscì a ottenere una copia nel 1770; in seguito ebbe notevole credito l’edizione realizzata da Richard Wagner. «L’intonazione dello Stabat non è solo uno dei suoi lavori più grandi in assoluto, ma è pure una delle conquiste più alte del tardo Rinascimento musicale » (Peter Phillips). A Molfetta lo Stabat palestriniano non è mai stato eseguito, per cui l’occasione di ascoltarlo quest’anno nella liturgia del Venerdì Santo rappresenta veramente una circostanza rilevante. Il mito di Palestrina, la sua auctoritas di princeps musicae, incomincia quando era ancora in vita, nel 1592 con la pubblicazione di una ossequiosa raccolta di salmi per i vespri voluta dal musico Giovanni Matteo Asola, insieme ad altri grandi del suo tempo. Cercare di avvicinarsi il più possibile al suono antico originario del Rinascimento è una delle difficoltà maggiori per un interprete; la ricerca dell’inattuale, del tenue splendore della polifonia, della preziosità e della sapienza compositiva del grande Palestrina assurgono ad inderogabili canoni estetici del paradigma interpretativo della cappella musicale diretta da Magarelli. Ha scritto Peter Phillips (direttore dei Tallis Scholars) che la ricerca dell’autenticitàà non può veramente trovare applicazione nel caso della musica vocale del Rinascimento, anche perché non c’è modo di sapere come fosse effettivamente eseguita all’epoca. Che ne pensi? «L’affermazione è vera in parte; lo si apprende da numerose testimonianze documentarie che si riferiscono a quella che era la pratica del canto all’epoca. Potremmo anche dire che non abbiamo testimonianze dirette ed esplicite fino a quando non è stata inventata l’incisione discografica, ma ciò che ci induce a pensare come potesse essere eseguita questa musica, dal punto di vista vocale, è proprio la musica stessa. Spesso dimentichiamo il connubio perfetto che c’è tra testo e musica ed il modo in cui la linea melodica si intreccia con l’armonia: da questi e da altri elementi deduciamo quale potesse essere la vocalità dei cantori, fin dove potessero spingersi; la corretta interpretazione per esempio della scrittura in chiavette, differentemente da quella con le chiavi naturali, oppure la disposizione delle parti. Analizzando a fondo il range vocale di queste parti si può dedurre quali potessero essere le caratteristiche vocali dei cantori». Un problema, nella prassi esecutiva della musica antica, è quello dell’impiego delle donne al posto dei bambini o dell’uso dei falsettisti per la parte del cantus e dell’altus; che cosa pensi di questa vexata quaestio? «Penso che una voce di donna curata sia adatta per eseguire il repertorio rinascimentale e di gran lunga da preferirsi rispetto a una voce bianca non curata e trascurata; si tenga presente che in Italia (principalmente in Italia) non esiste una vera e propria scuola per i pueri cantores. Abbiamo un unico esempio in Italia, quello della Cappella Sistina da prendere con le pinze per il semplice motivo che non c’è una tradizione diffusa come all’epoca. Nessuno si immaginerebbe oggi di far studiare dei bambini circa otto ore al giorno canto e musica per poter ottenere risultati efficaci. In Inghilterra, come in altri paesi europei e del mondo, invece, la situazione appare completamente diversa: i bambini seguono un percorso sin da tenera età che porta loro ad essere da adulti quello che noi oggi ascoltiamo, anche se la questione legata alla prassi esecutiva della polifonia rinascimentale ancora oggi evidenzia un velo di mistero: mi chiedo spesso il motivo per cui nelle loro esecuzioni ricerchino così tanto la purezza del suono più che la dinamica». Come intendi il tactus in un brano di Palestrina o di de Victoria: se si debba inseguire un rigoroso ideale archetipico di proporzionalità, lasciando il tactus invariato, oppure se lo si debba variare a seconda degli affetti nascosti nel testo. «Partiamo dal presupposto che il concetto di tactus è legato a quello di pulsus cordis, la pulsazione del corpo umano, che varia da persona a persona. Credo che in virtù anche del concetto dell’inscindibile connubio che c’è tra il testo e la musica e quindi nel rispetto del metro testuale rispetto a quello musicale, si debba parlare di un tactus mobile rispetto al testo poetico affinché possa essere da sostegno al testo e non da ostacolo; accanirsi nel portare il tactus sempre uguale non assecondando quello che il pathos del testo in quel dato momento ci suggerisce, blocchi la musica. Non deve pensarsi che solo perchéé si tratti di musica rinascimentale, essa sia asettica, anzi è musica molto viva che comprende non solo piccole frasi o parole ma anche fraseggi molto ampi, alla stregua della musica più tarda». Il musicologo inglese Howard Mayer Brown, nel 1976, sostenne che Palestrina evita di disturbare il flusso continuo della musica in maniera drammatica a differenza di de Victoria; hai avuto riscontri pratici di questa affermazione? «Sì, ho avuto riscontri pratici perchéé proprio con la Cappella Musicale Corradiana, che dirigo, ho studiato ed eseguito il Vespro della Beata Vergine di de Victoria, assemblato da noi perchéé de Victoria non ha composto esattamente un Vespro. Nell’eseguire il Vespro, sia io che i cantori, abbiamo riscontrato una enorme differenza di linguaggio tra Palestrina e de Victoria, laddove quest’ultimo preferisce appunto un’interruzione quasi costante della frase musicale per esaltare con l’armonia il testo poetico a differenza di Palestrina che invece esalta un flusso continuo, sfruttando il concatenamento derivante dal contrappunto». Veniamo quindi allo Stabat Mater di Palestrina a otto voci; sicuramente è una prima esecuzione assoluta in tempi moderni, a Molfetta. Sai benissimo che ci sono poche fonti antiche, manca l’autografo e poi vi è una marea di edizioni. Le prime battute dello Stabat rappresentano un inizio paradigmatico, un essenziale archetipo, la “cifra” del Palestrina difronte al dolore della Madre ai piedi della Croce. Cominciamo dallo stacco dei tempi, problema molto complesso da affrontare per un brano rinascimentale: quali criteri hai seguito? «Partendo dal presupposto che l’edizione che abbiamo utilizzato è un’edizione fondamentalmente attendibile (edizione curata da Ben Byram-Wigfield condotta su due fonti della British Library), per quanto riguarda la questione del tempo mi sono basato soprattutto sull’analisi che ho fatto a priori del testo poetico e sulla successione di terzine nelle strofe e del concatenamento tra una frase e l’altra; in secondo luogo ho cercato nella maniera più stretta possibile di rispettare il tactus del tempus imperfectum diminutum in cui la composizione è strutturata. Un problema importante è legato al fatto che, seguendo un metro testuale oltre che musicale, si capisce chiaramente come Palestrina nello scrivere in tempo binario abbia conservato una divisio all’interno delle parti di tipo ternario; se si analizzano le prime battute lo si constata immediatamente, soprattutto quando la figura nera è abbinata a quella bianca, laddove vediamo che Mater per esempio e dolorosa hanno questo tipo di struttura, il che lascia largamente pensare ad un andamento di tipo ternario che va assolutamente assecondato non solo per un fatto metrico ma anche per un fatto di correttezza di pronuncia del testo. Credo che il tipo di scrittura adottato da Palestrina in questo Stabat Mater sia da riferirsi ad un voler attingere alla tradizione popolare dello Stabat. Ha cercato di elevare il popolo all’altezza di un pensiero divino, lasciando intatto il sentimento della Madre ferma lì, statuaria sotto la Croce e sotto il pondus del suo dolore incommensurabile. Credo che Palestrina abbia voluto conservare questo significato nella scrittura: vi sono pochi esempi nel repertorio palestriniano simili allo Stabat, ad esempio il Gloria della Missa Papae Marcelli e il Popule meus dove c’è la stessa semplicitàà sconvolgente, dovuta al fatto che egli vuole rappresentare dal punto di vista figurativo esattamente “quella” scena e non vuole disturbarla con il contrappunto, con la sua interpretazione non vuole che l’uomo tocchi quelle immagini. Nello Stabat vi è una successione di noemi distribuiti tra le varie parti; non è vero che il primato sulla policoralità sia da attribuirsi esclusivamente alla scuola veneziana, infatti la scuola romana può insegnare tanto da questo punto di vista: lo stesso Palestrina, tra gli anni ’70 e gli anni ‘90 del ‘500 scrive molte composizioni policorali, spesso preoccupandosi di riordinare e di mettere per iscritto la pratica del falsobordone, usata per le celebrazioni papali per dare maggiore dignità al canto gregoriano. Hai notato che c’è una dimensione arcaica, un ritorno alle origini voluta da Palestrina. Lo si avverte specialmente nella concatenazione degli accordi. «La composizione sembra essere una serie di falsibordoni concepiti quasi a non voler disturbare ciò che sta avvenendo; ascoltando la composizione, unicamente alla strofa Eia Mater fons amoris con il tempo perfetto, cambia completamente idea e lascia che la mano dell’uomo vada a metterci qualcosa di suo. Viene fuori l’aspetto umano e adombrato quello divino, quindi si nota anche un cambio repentino del tempo». Hai preferito affidare a solisti alcuni passaggi dello Stabat? Perchéé? «Ho lasciato un ottetto nel “primo coro” e la parte restante del coro a cantare il “secondo coro” per voler quasi sottolineare la prassi antica del concerto e del concertino; non è sconosciuto a molti che spesso si raddoppiavano (e si ornavano) le parti dei mottetti con strumenti a fiato. Nel punto in cui il testo recita Iuxta crucem tecum stare, dove traspare il desiderio precipuo dell’Uomo che dice io voglio partecipare al tuo dolore, lì ho lasciato a parti reali 4 voci che cantano in modo rarefatto fino al fac me tecum plangere». Per quanto riguarda la vocalità, annoso problema, quali sono state le tue scelte stilistiche? Hai rispettato l’estetica di Palestrina? «Ho cercato di dare al coro una vocalità differenziata tra primo e secondo coro, nel rispetto dell’idea di cui parlavo prima nel senso che il secondo coro, essendo in numero maggiore, si esprime con una gamma dinamica più ampia e quindi adotta una vocalità più spinta, mentre il primo coro ha una vocalità molto più contenuta quasi a voler imitare i pueri cantores: due Soprani scelti per interpretare la parte del superius tengono voce ferma e lasciano che la voce vibri, ma in maniera naturale, sulle figure più grandi in virtù delle messe di voce. Il tempo è abbastanza “camminato”, ma non è mai uguale a se stesso: dipende dal testo, si rilassa un attimo e diventa più ampio quando la frase volge al termine come per esempio in corrispondenza delle parole moriendo desolatum dum emisit spiritum dove (sappiamo tutti che era diffuso a quel tempo anche il teatro sacro) l’autore nella sua sapienza artigianale ha voluto sottolineare il testo, per cui la musica si lascia un attimo allargare per dare maggiore spazio al pathos del momento». ©

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