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Lessico botanico molfettese Storia Tradizioni Etimologie” di Marco Ignazio de Santis e Vincenzo Valente
15 marzo 2015

Cari molfettesi, sapevate che “néërë” e “cittëcìttë” fossero piante? Beh, di sicuro tali parole si pronunciavano correntemente “nel tempo che fu”. Troverete la spiegazione alle parole succitate leggendo il volume “Lessico botanico molfettese. Storia Tradizioni Etimologie” di Marco Ignazio de Santis e Vincenzo Valente (scomparso il 26 gennaio del 2006), l’uno già docente di lettere, storico e giornalista (apprezzato collaboratore di Quindici), con notevoli competenze in ambito botanico, l’altro grande filologo e dialettologo di livello nazionale. Tale testo è stato presentato in un incontro organizzato presso il Museo Civico Archeologico del Pulo di Molfetta. “Questo volume ha lo scopo di rispondere a tutte quelle domande che riguardano il rapporto tra l’uomo e la flora spontanea in modo tale che la botanica possa diventare un argomento accessibile a tutti”: questo il messaggio che è stato trasmesso al pubblico presente dai professori Marco Ignazio de Santis e Rocco Chiapperini. Il Prof. de Santis ha esordito regalando all’uditorio qualche aneddoto della sua giovinezza che ha ispirato la realizzazione del suo libro. All’età di 18 anni, passeggiando tra le campagne molfettesi e guardando le diverse piante che ivi crescevano, cominciò a chiedersi quale nome potessero avere. Così pensò bene di portarsi a casa diversi esemplari da poter coltivare. Molto importante e decisivo in tale ambito è stato il suo incontro con il Prof. Valente, coautore del testo. Il volume presenta il nome dialettale delle varie piante e il loro corrispondente italiano; inoltre sono inclusi proverbi e giochi dialettali. È doveroso evidenziare che all’interno del libro sono presenti solo i nomi delle piante spontanee e selvatiche: ad esempio il nome “ulivo” e cioè “alàive” non si troverà, ma ci sarà “alìvë”, ovvero “ulivo spinoso inselvatichito”. Il Professore ha poi illustrato una serie di etimologie riguardanti piante che hanno nomi “curiosi” in vernacolo molfettese a cominciare dall’ “umbriachidd” che altro non è che il “corbezzolo” che cresce nella Macchia Mediterranea. Il suo nome, secondo Carlo Battisti (eminente glottologo e linguista italiano), deriverebbe dal latino ubriacus, mentre, secondo Valente, la cui proposta etimologica sembra essere più accettabile, sarebbe armoeniacus arbor. Altro nome simpatico è “l’amêrùëghë” che equivale in italiano alla “camomilla bastarda o falsa” (lat. amalocia) il cui nome, secondo il Prof. Valente, risalirebbe al latino amaluca. Non si poteva omettere il nome di un tubero che nella nostra regione è consumato nell’alimentazione: “u bêmbasciòëlë” ovvero il “lampascione” (lat. lampadio-onis) che è etimologicamente più vicino al toscano “lambascione”. Concludendo la carrellata etimologica, il Prof. de Santis ha menzionato due piante, “néërë” e “cittëcìttë” (citate nell’“incipit”), la cui genesi nominale si deve ad episodi accaduti in passato: il primo era un ciliegio che non produceva frutti, così il contadino che lo curava lo tagliò con la speranza che un santo gli concedesse la grazia di renderlo produttivo, ma, siccome non avvenne, pronunciò queste parole “T sacc néërë!”, ovvero “Ti conosco ciliegio!”. La seconda, invece, vede come protagoniste le donne molfettesi del 1600, le quali estraevano la radice della pianta dal terreno per ottenere un succo rosso che sarebbe servito per imbellettarsi le gote. Il nome della pianta deriva dal fatto che tutto questo avveniva all’insaputa degli uomini, quindi “cittëcìttë”. La parola è passata, poi, al Prof. Chiapperini, il quale, mediante l’ausilio di un Power Point, ha illustrato al pubblico presente le immagini riguardanti alcune piante che nascono nella zona del Pulo e delle Lame. Anche per questa spiegazione non sono mancate le curiosità circa sia il rapporto tra l’uomo e le piante selvatiche sia le caratteristiche di queste ultime. Particolare è l’origine del nome “sëlëfìzzë” che, nonostante sia una pianta immangiabile per via delle lunghe spine che possiede, è considerata una pianta alimentare, insieme al lampascione; si ricorda a Molfetta l’antico detto “ho mangiato “sëlëfìzzë”, cioè “non ho mangiato nulla”. Piante selvatiche con proprietà medicinali sono la “cedracca” o anche nota come “erba spaccapietre” che è un particolare tipo di felce. Di norma le felci hanno bisogno di un ambiente ricco d’acqua e di ombra, non certo conforme al nostro clima mediterraneo, ma le sue capacità di adattamento dovute all’evoluzione della stessa pianta sono sorprendenti: si richiude in se stessa nei mesi estivi per poi schiudersi in autunno, inoltre, “si è stanziata” accanto ai pozzi, alle cisterne e alle piscine proprio per trovarvi acqua. Le sue proprietà medicinali possono curare malattie renali e infezioni urinarie. Un’altra pianta dalle curiose caratteristiche è l’“erba dei lumini”, la cui fluorescenza serve per fabbricare lumini alimentati ad olio che di solito in passato venivano messi sotto le icone dei santi. Il “cocomero asinino” può essere considerata una pianta “esplosiva” poiché sparge i suoi semi esplodendo quasi fosse un tappo di spumante. Il liquido che fuoriesce è urticante. Una pianta “prestigiatrice” è la “barba di becco”, perché, se all’inizio si presenta come un bocciolo dalla punta viola, quando viene fecondata si richiude esattamente come all’origine con la sola differenza che ha in punta una sorta di peluria. Proprio da quest’ultima si genera il “soffione”, così delicato che basta un soffio di vento per spappolarlo. Un interessante aneddoto è stato raccontato a proposito dell’“acetosella”, pianta ornamentale molto richiesta di origine africana conosciuta da noi come “àcque e mìere”. Nel 1700 una signora inglese, durante un viaggio in Africa, “si innamorò” di questa pianta e decise di portarla con sé a Malta. Qui conobbe Padre Giacinto che decise di coltivarla, dato che era inesistente in Europa, nel suo orto botanico. Così iniziò un vero e proprio pellegrinaggio nel suo orto, poiché tutta la gente ne rimase affascinata. L’acetosella, però, da essere un esemplare unico, cominciò a riprodursi a gran velocità, tant’è vero che oggi è presente in Sicilia, in Puglia (infesta gli uliveti di Molfetta), nel Lazio, in Toscana e in Lombardia e anche all’estero come in Francia, in Spagna e addirittura ha raggiunto il Nord America e l’Australia! Il Prof. Chiapperini ha terminato il suo intervento con una “chicca” divertente che ha, poi, suscitato il riso degli astanti. Ha parlato dell’ “eulofide”, pianta che cresce nei terreni abbandonati verso Giovinazzo (lato mare) tra marzo e aprile, alta non più di 20 cm che ha la particolarità di assomigliare ad un insetto avente ali, testa e peluria. La sua caratteristica è quella di produrre un particolare profumo (ferormoni) non percepibile dall’uomo, bensì dal maschio dell’imenottero che, scambiando il fiore per la femmina della sua specie, si posa su di esso cercando di accoppiarsi ma… ne rimane a “bocca asciutta”! Il polline che gli si è attaccato addosso viene poi sparso dallo stesso quando si posa sul terreno favorendo così la riproduzione dell’“eulofide”. L’incontro si è concluso con i ringraziamenti all’assessore Betta Mongelli, alla Prof.ssa Giuliana Finzi, al Prof. Pasquale Modugno, all’Associazione Polje e alla Direttrice del Museo Civico archeologico del Pulo Rosaria Fontana. A questo punto è opportuno aggiungere il seguente consiglio di Romano Battaglia: “Nei momenti di scoraggiamento dovremmo pensare agli alberi e ai fiori che hanno tanta serenità, sanno attendere la loro ora per nascere, crescere, sbocciare e per dare frutti in abbondanza”.

Autore: Dora Adesso
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