Manca una parte nello spot contro l'evasione fiscale: quella dei parassiti dello Stato che dormono sui banchi e giocano con iPad a spese dei cittadini contribuenti, che al ristorante del Senato della Repubblica pagano il carpaccio di filetto con salsa al limone 2,76 euro. Quella degli indagati e condannati, di chi intasca soldi a palate da anni e ha provocato una voragine nei conti statali per indigesta incapacità e risibile menefreghismo.
Proprio per questo motivo, oggi lo Stato è percepito in maniera satrapica come impietoso con chi non ha più nulla e impotente con chi ha tutto. Purtroppo, il libero arbitrio è ancora monopolio di pochi, di quei pochi membri dell’oligarchia imperante che oramai domina da parecchi decenni lo Stato, in pratica tutti noi. Un corollario non secondario. L’ingiustificabile consuetudine della dura inflessibilità con i tanti e dell’impotenza con i pochi non è stata ancora sovvertita dal governo Monti.
Un magistrato, la dott.ssa Paola Belsito, giudice a Firenze, come vedremo, ha, però, scombinato un po’ le carte nel rispetto dell’etica e della morale, principi ormai rari nel corpo decrepito dello Stato italiano che continua a perdere pezzi di cute e brandelli di carne rancida. Ha, infatti, sancito un principio a dir poco rivoluzionario: ha chiarito quando l’evasione è legittima o meno, sciogliendo anche il dubbio più recondito che assilla non pochi italiani.
Un dubbio amletico che sicuramente ha assillato tanti magistrati nel giudizio di vicende al limite estremo tra diritto, etica e coscienza personale. Non sono pochi gli imprenditori che per non essere strozzati da tasse, imposte e balzelli di ogni sorta sono costretti a non saldare il conto con l’erario statale. Tra l’altro, non sono pochi i cittadini che per mera sopravvivenza sono costretti a non pagare tributi, tasse, sopratasse varie e interessi moratori a tasso usuraio: in questo caso il rischio non sarebbe penale, bensì materiale (il recapito delle famigerate cartelle di Equitalia che raddoppiano e triplicano l’imponibile non versato, senza sconti eccetto i debiti di parecchie vagonate di milioni di euro dei soliti vips).
A Firenze un imprenditore aretino ha dichiarato di non aver pagato 150mila euro di Iva non per evadere, ma perché costretto dalle difficoltà economiche in cui versava la sua ditta edile per colpa di un importante lavoro non pagato. Equitalia aveva raddoppiato da 150mila a 300mila euro le somme che l’imprenditore doveva all’erario, inducendo la Procura a emettere un decreto penale di condanna per 7.500 euro: l’omesso versamento dell’Iva nel 2007era palese e la sanzione già definita.
L’imprenditore, finito sotto processo, durante il rito abbreviato, al Gup ha presentato i documenti e i conti per spiegarle che la sua azienda era in difficoltà economiche con un ammanco di quasi 800mila euro (era stata pagata soltanto la metà di un lavoro da 1,5milioni di euro non ancora terminato). Proprio per questo motivo, l’imprenditore aretino aveva usato tutti i suoi risparmi per pagare i fornitori e i dipendenti, estinguere un mutuo e indebitarsi ulteriormente con le banche per ultimare i lavori che, se non consegnati in tempo, gli sarebbero costati pure una penale. Lo stesso PM chiedeva l’assoluzione.
È evidente la presenza della cosiddetta “causa di forza maggiore” che ha escluso di conseguenza la punibilità: «manca l’elemento soggettivo del reato» per il PM dott. Sandro Curinielli, che ne ha chiesta l’assoluzione. In sostanza, l’imprenditore non poteva essere condannato perché non sono state riscontrate la volontà e la coscienza di compiere il reato.
La decisione del Gip è un raro caso di giustizia dal volto umano perché, in un momento come questo, molti sono gli imprenditori, i commercianti e i cittadini in difficoltà. Nell’ultimo anno la cronaca ha raccontato di imprenditori che, a causa di una pressione fiscale sempre più opprimente e insostenibile, hanno deciso per sopravvivere di non pagare l’Iva. Anzi, secondo recenti dati Istat, l’evasione fiscale (18% del PIL, quindi circa 270 miliardi di euro di reddito imponibile sottratto annualmente all’imposizione), oltre che da una cattiva consuetudine italiana, è determinata da una pressione fiscale arrivata quasi al 44% (+4% rispetto al 2000), concentrata soprattutto per le piccole e medie imprese.
Ora è possibile che le proprie ragioni siano riconosciute, confidando un po’ di più nell’unico potere che oggi ha ancora in Italia una residua credibilità: la Magistratura, soprattutto quella penale (in ambito civilista, invece, la situazione è paradossalmente più intricata e congestionata).
L’opposizione al decreto penale di condanna e la richiesta di rito abbreviato, condizionato alla testimonianza davanti al Gip, ha generato forse il primo e più importante principio giurisprudenziale in materia: chi evade il fisco non commette automaticamente reato. È questo un precedente che farà molto discutere. Un primo importante segnale da parte della magistratura illuminata in un Paese di “cialtroni” dove ci sono gioiellieri poveri, tassisti indigenti, politici di dubbia cultura e moralità, pagati come dei nababbi che, in nome del buonismo all'italiana, continuano a pontificare per i vari studi televisivi sull'equità e sulle liberalizzazioni che non hanno mai voluto.
Indescrivibile lo spot sugli "evasori fiscali". Sarà uno strano caso, l'immagine scelta non è quella di un cravattato che veste firmato, ben lucidato e sbarbato o di una befana in pelliccia tutta ingioiellata, ma quella di un povero cristo. Nello spot compaiono in serie il parassita dei ruminanti, il parassita del cane, quello intestinale e così via: purtroppo, la foto del parassita o evasore fiscale è quella del disoccupato, dell’operaio, del meccanico, del tornitore, del pescatore e del cassintegrato, con la barba e lo sguardo perso. Perché non la faccia di uno stilista o di un motociclista di fama internazionale che ha evaso centinaia di milioni di euro?
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