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Le opere di Francesco Mezzina alla mostra Paravents photographiques
15 luglio 2006

Si muove tra raffinati ammiccamenti a un caposaldo dell'arte giapponese e dissacrazione dell'eleganza di un arredo ormai deprivato della pristina funzionalità la mostra dell'Artoteca Alliance barese, “Paravents photographiques”. Sulla scorta di una sfida lanciata da Domenico D'Oria a cinque artisti della fotografia (tra cui il molfettese Francesco Mezzina, prezioso collaboratore di “Quindici”), cinque paraventi in legno divengono la materia grezza su cui la creatività può intarsiare liberi arabeschi. Filo rosso dell'allestimento è la leggibilità recto-verso delle opere esposte, con frequenti accostamenti stranianti a produrre dittici di intrigante modernità. Beppe Gernone ci regala sul fronte anteriore particolari di dipinti e statue (spesso soggetti religiosi), per poi fugarne la sacralità in un'irriverente rappresentazione della perdita d'aura della nostra epoca. Sul retro campeggiano trasgressioni estetiche, etiche, persino sessuali, di occhi e occhiali, che guardano il mondo con aria sbarazzina o che magari hanno perduto la facoltà di scrutarlo e si sono reificati al pari di lenti da sole. Ninni Pepe gioca sulla dialettica passato-presente, da un virtuosismo di violini al progresso (?) incarnato dalla musica sintetica. Filo conduttore sembra essere una solitudine di strumenti musicali, nelle vecchie botteghe come nelle sale di registrazione. Franco Giacopino in “Diario 1986-2006” trasforma il suo paravento in un fertile connubio di lapidaria scrittura diaristica e scampoli di incontri, paesaggi, strade, ricorrenze, volti preservati alla memoria grazie all'obiettivo fotografico. Grate, porte, battenti, dettagli di muro immersi in un biancore da cui talora si stagliano ombre (forse estremi barlumi di una vitalità antica che anche il mondo della pietra può serbare) costituiscono la cifra delle poetiche creazioni di Nicola Amato. L'identità recto-verso non si traduce in mera riproposizione di motivi tematici e iconici ma si fa potenziamento della percezione e accresce l'incanto. Felicissima l'idea alla base dell'opera di Francesco Mezzina, “Qui lo dico e qui lo nego”. Una prima sensazione perturbante, dovuta alla congerie di occhi che ti fissano, alcuni spalancati e indagatori, magari corrucciati, spesso ridotti, in un aggrottarsi di sopracciglia, a quasi-fessure, senza che il fare inquisitorio paia per questo scemare. Sul verso, non senza un pizzico di sforzo, gli occhi si chiudono e consentono all'utente del separé di riacquistare quell'intimità, che sarà preservata dagli sguardi-guardiani del recto, incorruttibili (o forse no?) castigatori di qualsiasi minaccia voyeuristica proveniente dall'esterno. Il paravento riacquista così quell'aura vagamente sensuale di mondo segreto, a suggello di un'esposizione che non manca di eleganza anche quando imbocca volutamente i sentieri del kitsch e mantiene un retrogusto démodé, che resta la chiave di volta del suo singolare fascino.
Autore: Gianni Antonio Palumbo
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