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Le nostre radici attraverso i documenti degli archivi scolastici
15 ottobre 2008

Gentilissimo direttore, vorrei segnalare una carenza d'attenzione e di cura per gli archivi scolastici, all'origine d'una mia “disavventura” di ricerca. Essa è stata duplice a distanza di dieci anni una dall'altra per la vana richiesta di consultarli nella scuola “madre” delle elementari: la prima volta, nel 1994, anche con domanda scritta al provveditore per prescrizione del direttore didattico. Tornato più volte a postulare una risposta, capii in fine che “non si muove foglia (o foglio), che il direttore non voglia”. Dopo poco tempo per altra ricerca ebbi lo stesso risultato nel Liceo. Mi chiesi: i capi d'istituto si credono padroni delle rispettive scuole? ed esistono gli archivi nelle scuole? Avevo intanto appreso che una scuola, passando in una sua nuova ed appropriata sede, aveva distrutto fascicoli, pacchi e faldoni, cancellando così la storia della scuola, da cui essa era nata. Interpellato l'Ufficio scolastico provinciale, ottenni che una circolare alle scuole molfettesi (grazie dott. Saponara) m'aprisse l'archivio del liceo. Erano quattro erti muri di registri e faldoni e pacchi ed altro, affastellati su étages addossati fin al soffitto alle pareti d'uno sgabuzzino: occasione d'alpinismo cartario s'una tentennante scala metallica. Non mancavano registri parzialmente bruciati da fuoco. Questo fatto rende evidente la necessità di conservazione informatica. Dedussi che chiudere le porte degli archivi potesse essere anche un atto di pudore dei capi d'istituto. I quali non vi pensano e forse non v'entrano affatto o per un assiduo impegno direttivo o per il disinteresse ad altro che non sia la “carriera” in sé e per sé. Ma non è immune da biasimi l'organizzazione centrale, provinciale e comunale della scuola. La precarietà d'allogazione di scolari e studenti, malattia degli anni pre-repubblicani, non è stata completamente rimossa dalla scuola “democratica”. Non si contano i soldi, che dall'unità d'Italia il comune ha sprecato, alimentando la rendita privata ed ecclesiastica e non costruendo scuole o non dotandole degli spazi necessari. Possiamo capire l'inizio dello stato unitario, che estendeva al regno d'Italia una scuola pensata per il regno di Sardegna. Ma la scuola, che doveva formare la nuova classe dirigente e l'intellettualità pensante, neanche in seguito riscosse grande considerazione. Come si pone l'incuria degli archivi nel nostro tempo, in cui la perorazione per le radici è quasi un collutorio o per spocchia di modernità o per recondite operazioni bigotte, anche laiche? Le radici non sono solo i dialetti e le processioni. Ma chi sa che il nostro dialetto storico è morto con le ultime propaggini del ceto agricolo, quand'io, or sessantaseienne, ero fanciullo, e che l'attuale è adulterato, falso? E di quel dialetto nessuno ha mai fatto oggetto d'indagine, di serio, metodico studio ed insegnamento. Lo gestiscono senza studio, ma per udito questa o quella compagnia d'attori dilettanti. Nessuna amministrazione ha designato una commissione di studiosi, che tratti in una pubblicazione la materia e la metta a disposizione di docenti e scolaresche, che vogliano studiarla. Le radici sono anche nelle scelte culturali delle generazioni passate da secoli: i giovani, che, formati Molfetta, andavano a perfezionarsi a Napoli alle scuole di Francesco De Sanctis e di (è il caso di Fornari) Basilio Puoti. Quei giovani che Giovanni de Gennaro ha affidato alla memoria nostra nel libro, per citare uno solo, “La città di Salvemini”. Delle radici fan parte anche quelle persone insigni, cui le varie amministrazioni comunali hanno dedicato vie cittadine. Quanti sanno che Giovene, Giuseppe Saverio Poli, Fornari, Sergio Pansini sono interregionali glorie molfettesi e che sono molfettesi i giovani dedicatari delle vie ad est della via Baccarini? O per altro aspetto chi deduce dalla dedica d'una via a Giordano Bruno un'esperienza politico/amministrativa a Molfetta nel concerto d'una battaglia anticlericale dei primi decenni postunitari? Sono radici i toponimi rustici, ancora tali o compresi nella città. Tutte conoscenze, cha esigono studi storici e sistemazioni scritte, perché si possa fruirne. Anche gli archivi sono depositi di storia e di radici: delle nostre istituzioni, del nostro popolo, di noi stessi. Il liceo di Molfetta, per esempio, ha una storia illustrissima. Donde ricavarla se non dagli archivi, sì, comunali, ma anche ed oltremodo scolastico? Se non provvedono i governi e i funzionari d'ambito sovracomunale, un'amministrazione comunale può e deve adibirvi professionisti della funzione, che escano preparati dall'università e sappiano ordinare gli archivi, ammassi informi, nella fattispecie liceale, bisognosi d'una cura energica simile a quella cui il drappelletto della dottoressa Rosanna Salvemini ha conferito dignità (informatizzata!) ad una biblioteca di quartiere, già deposito/macero di libri d'ogni specie, secolari alcuni, piccole chicche locali altri, inutili altri ancora (come i troppi testi scolastici “per natura” di breve utilità e che possono essere per poco tempo adibiti ad assistenza pubblica o parrocchiale agl'indigenti). Ecco una via per l'occupazione di giovani preparati. La Salvemini, per esempio, è una garanzia per competenza, metodo ed etica del lavoro. Non acquisire queste qualità ad una funzione pubblica locale (perché vederle emigrare?) è grave colpa sia verso chi le detiene sia verso enti, che possano avvantaggiarsene; Molfetta prima di tutti. Ma occorrerà anche dare spazio, fisico, agli archivi. E le scuole ne facciano uso, vi si accompagni scolaresche ad apprendere una ricerca. Gli studenti potrebbero trarne indicazioni di lavoro per il loro futuro, sulla cui prospettiva “ha da passà 'a nuttata”, se una nazione non è suicida.
Autore: Antonio Balsamo
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