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La sfida delle periferie, a partire da Parigi
07 dicembre 2015

I fatti di Parigi hanno scatenato reazioni scomposte, anche a Molfetta, da parte dei soliti che ogni giorno aspettano l’occasione per fomentare odio e razzismo. L’attacco all’occidente, i musulmani terroristi, ecc. Le misure prospettate: chiusura delle frontiere, sicurezza, espulsioni. Se fossero i soliti blog locali non ci sarebbero preoccupazioni.

Il problema è che si tratta di una narrazione molto in voga in questi giorni, fomentata dai Salvini e dalla Meloni di turno. Non mi avventurerò qui in analisi – che non sono assolutamente in grado di fare in questo momento – dello scacchiere internazionale. Vorrei invece soffermarmi sul tema delle periferie, che mi pare centrale e metterci di fronte a questioni in cui siamo tutti implicati.

E’ dalle periferie parigine che proveniva la maggior parte dei responsabili degli attentati, esattamente dieci anni dopo le rivolte delle Banlieue. Anche allora fu decretato lo stato d’emergenza, e la destra francese si scagliò contro l’islamizzazione delle periferie. Ben presto ci si rese conto che la religione aveva poco a che fare con quelle rivolte, che esprimevano invece il disagio degli immigrati di terza e quarta generazione, esclusi di fatto dai diritti di cittadinanza e dallo stile di vita della metropoli. Quello stile di vita incarnato dai luoghi che sono stati bersagliati qualche settimana fa.

Il punto è proprio questo. Se fino a dieci anni fa i giovani delle periferie bruciavano le macchine, contro i richiami all’ordine, rivendicando il diritto di vivere dignitosamente, oggi l’ISIS è riuscito ad imporsi, in molti casi, come valida alternativa alla narrazione occidentale. Gli autori degli attentati sono cittadini francesi, belgi, europei. La guerra che si è scatenata è una guerra contro la stessa Europa, e ciò lascia pensare che ci siano anche altri interessi.

Ora, come dicevo all’inizio, non entrerò nel merito dello scacchiere internazionale, e delle ragioni di una guerra in gran parte causata dall’occidente stesso. Mi sembra importante per tutti, invece, capire quanto importante sia il ruolo delle periferie, anche in Italia.

Nelle periferie – soprattutto delle metropoli – si raccolgono non solo migranti, ma tutta una fetta di società esclusa da un mercato del lavoro sempre meno legato alla produzione materiale e dal welfare classico. Per questi soggetti i diritti di cittadinanza non sono esigibili. Essere all’altezza dei bisogni urgenti che queste categorie pongono, attraverso sistemi di welfare e di inclusione sociale adeguati, politiche del lavoro ecc, significa far dominare un’idea di cittadinanza plurale ed inclusiva contro l’intolleranza e il fanatismo. E’ su questo terreno che l’Isis si impone e riempie un vuoto. Là dove domina l’esclusione sociale e la rabbia l’Isis raccoglie consensi.

Non è una guerra del mondo islamico contro quello occidentale. Nel mondo islamico tanti popoli sono in lotta contro l’Isis, ma anche contro politiche imperialiste, fomentate dall’occidente, che hanno avuto nell’Isis un valido alleato. Per questo la soluzione non è la chiusura delle frontiere e – di fatto – la condanna di tutte quelle persone in fuga dallo stesso odio che ha dato vita all’orrore di Parigi. La sfida è nel far vincere, anche nelle periferie, democrazia, solidarietà e diritti contro chiusura identitaria, fanatismo e odio razziale.

© Riproduzione riservata

Autore: Giacomo Pisani
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La guerra è un problema religioso, benchè la coscienza religiosa contemporanea si dichiari contraria alla guerra. In effetti, le prime obiezioni di coscienza al servizio militare moderno furono obiezioni religiose. Le dispute teologiche sorte nella Spagna del XVI secolo sulla giustificazione e la condanna della conquista dell'America sono un esempio notevole del problema teologico connesso alla guerra. Esistono anche, com'è naturale, guerre etniche. Esse pure, però, sono molto spesso di ordine religioso in quanto una tribù giustifica le sue azioni belliche con motivi religiosi. Il carattere religioso della guerra è manifesto. La guerra è una situazione limite. L'uomo e la società umana si trovano a confrontarsi con i problemi ultimi della morte, della vita, della giustizia, della fedeltà, dell'obbedienza e altri ancora. In una parola: la guerra, da sempre, è stata un fenomeno religioso. Gli Dei facevano la guerra e quasi sempre gli uomini la facevano all'ombra di stendardi ed emblemi delle rispettive religioni. Bisognava consultare l'oracolo, i sacerdoti impartivano le benedizioni. Per secoli la Croce e La spada sono state unite. “Dieu le veut”, “Gott mit uns”, “In God we trust”, “Sancta Maria” sono state grida di guerra per giustificarla. Questa unione tra religione e politica si è verificata anche in Asia e in Africa anche se il fenomeno è più acuto nelle religioni abramiche per una maggiore distinzione tra sacro e profano. Quando si tratta di questioni di vita o di morte, l'autonomia del “braccio secolare” si rivolge per sostegno all'autorità religiosa. In altre parole: la guerra politica era anche, in fondo, guerra religiosa. Anche nelle guerre scatenate per motivi economici, nazionalisti o altro, il fulcro era sempre la religione. Nessun principe si sarebbe azzardato a dare inizio a una guerra senza prima aver consultato gli oracoli, i profeti, gli astrologi o i sacerdoti. In alcuni casi e nell'opinione di molti, la guerra assumeva il valore di atto rituale. La moderna “mistica” del corpo militare ancor viva ai nostri giorni con la sua musica, le sue uniformi, le sfilate, è un residuo di quell'ideale. Il potere al servizio dell'autorità. Autorità che veniva però da Dio. Questa convinzione che le forze armate di un paese siano garanzia di pace si può rintracciare tanto nei risvolti spirituali di coloro che avversano i pacifisti, quanti di coloro che chiedono l'abolizione dell'esercito come istituzione. Sin qui la tradizione. Oggi le cose sono cambiate?
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