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La segnaletica dell'educatore". Convegno pastorale diocesano Lunedì 19 e martedì 20 settembre alle ore 19,00 presso l'Auditorium "Regina Pacis" di Molfetta
17 settembre 2011

MOLFETTA - Sarà presente, come cita un comunicato, S.E. Mons. Gualtiero Sigismondi, vescovo di Foligno  Lunedì e martedì prossimi, come consuetudine all'inizio dell'anno pastorale, la comunità diocesana si incontra con il Vescovo Mons. Martella per un appuntamento di formazione e di condivisione delle linee programmatiche pastorali.
La riflessione non potrà che inserirsi sulla scia degli Orientamenti pastorali della Chiesa italiana per il decennio Educare alla vita buona del Vangelo, che la diocesi sta declinando in precise scelte progettuali. A giugno scorso, infatti, la comunità diocesana si è coinvolta in un ampio esercizio di discernimento comunitario, a tutti i livelli, che ha prodotto precise prospettive e proposte pastorali la cui elaborazione porterà a breve alla redazione del progetto pastorale per i prossimi anni. Nella prima serata, lunedì 19 alle 19,00, S.E. Mons. Gualtiero Sigismondi, vescovo di Foligno, parlerà sul tema: "La sfida educativa: la segnaletica dell'educatore"; egli offrirà quindi spunti di riflessione sull'identità e gli strumenti che devono caratterizzare coloro che rivestono un ruolo educativo nella chiesa e non solo in essa. Martedì 20, sempre alle ore 19, S.E. Mons. Luigi Martella, vescovo, presenterà le linee pastorali per l'anno appena cominciato.
L'appuntamento è rivolto a tutti gli Operatori pastorali della diocesi, clero, religiosi, laici, docenti di Religione Cattolica; ma per le questioni educative poste a tema può costituire una valida opportunità formativa anche per genitori, insegnanti e quanti a vario titolo rivestono compiti educativi. 

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Sull'uguaglianza e sulla libertà sono nati comunismo e capitalismo, sulla fraternità non è nato ancora un bel niente. Ma senza fraternità il capitalismo non può che ritornare a essere selvaggio, e il comunismo non può trovare altra espressione di quello che storicamente ha avuto. Per la cultura della fraternità, le religioni non servono granchè. Per quanto amore del prossimo esse predichino, non riescono mai a essere credibili, perché chi ritiene di possedere la verità assoluta non può considerare gli altri diversamente che come erranti. Le varie encicliche dei pontefici che si succedono non fanno che ribadire questo concetto. La scuola è affidata alla sensibilità degli insegnanti, ma molto più di frequente alla loro sensibilità, che non è cattiveria ma scarsa percezione degli indizi di episodi di intolleranza che a me paiono di enorme rilevanza, perché le convinzioni che si radicano nei bambini, prima che la coscienza intervenga a elaborarle, diventano radicati pregiudizi che non si lasciano facilmente estirpare. La famiglia è quella che è e, anche se aperta, è una struttura fondamentalmente chiusa, perché ha come suo vincolo unificante il sangue, non la cultura. Ogni porta che chiude un appartamento fa di ogni casa un piccolo recinto da cui un bambino apprende, prima ancora di pensare, la distinzione tra dentro e fuori, dove fuori ci sono tutti gli altri di cui non ci si può molto fidare. E tra gli altri ci sono anche gli ebrei, con gli albanesi, i serbi, i marocchini, i curdi, i filippini, gli armeni, e quei disperati del Bangladesh. Tra religione, famiglia e scuola, una lezione sulla “fraternità” può venire solo dalla scuola. E quando dico “scuola” intendo la “scuola pubblica” che, per il solo fatto di accogliere sia gli italiani sia quelli proveniente da altri paesi, i ricchi e insieme i poveri, i bianchi e quelli di colore, gli abili e i disabili, è la più idonea a diventare quel “laboratorio” in cui può nascere e fiorire quella “cultura della fraternità” a cui solamente gli uomini possono riferirsi, non solo per un loro salto di qualità nel regime della convivenza, ma addirittura per scorgere la condizione stessa della loro convivenza, in un mondo che i mezzi di comunicazione e di trasporto hanno trasformato in un unico vicinato. (Umberto Galimberti . - I miti del nostro tempo)
Jonathan e Greatest hanno ben presentato e considerato due poteri: quello dell'autorità e quello dell'educazione impartita nei primi anni, i quali operano sulle credenze, sui sentimenti e sui desideri degli uomini, e che la religione ha finora sostenuto essere sua prerogativa quasi esclusiva. Consideriamo ora un terzo potere, il quale opera direttamente sulle loro azioni, sia che implichi o no i loro sentimenti involontari. E' questo il potere dell'opinione pubblica, della lode o del biasimo, del favore o del disfavore da parte dei propri simili; ed esso è una sorgente di forza inerente a qualsiasi sistema di fede morale, purchè adottato da tutti, sia esso o no associato alla religione. Gli uomini sono talmente abituati a dare ai motivi che decidono le loro azioni nomi assai più lusinghieri di quanto giustamente loro comporterebbe, che generalmente non si rendono conto di quanto la loro condotta (sia in ciò di cui vanno orgogliosi che in ciò di cui si vergognano) sia determinata dalla pubblica opinione. Naturalmente la pubblica opinione impone in massima parte le stesse cose prescritte dalla morale sociale in vigore; tale morale essendo, per vero, il riassunto della condotta che ogni individuo (la osservi egli stesso rigidamente o no) desidera che gli altri osservino nei suoi confronti. E' dunque facile che le persone siano portate a illudersi di agire per motivi di coscienza quando compiono azioni che la loro coscienza approva obbedendo invece a motivi inferiori. Vediamo continuamente quanto grande sia il potere dell'opinione in contrasto con la coscienza, e come gli uomini “seguano la moltitudine per compiere il male”: quanto spesso l'opinione pubblica li induca a fare ciò che la loro coscienza disapprova, ed ancora più spesso impedisca loro di fare quanto la loro coscienza ordina. In tutte le attività umane, il rispetto per i sentimenti dei nostri simili costituisce, in una forma o nell'altra, per quasi tutti i caratteri, il motivo predominante....... Quanto sia vasto il suo potere è dimostrato da esperienze fin troppo comuni per richiedere altre prove o illustrazioni. Una volte ottenuti i mezzi per vivere, la parte di gran lunga maggiore di lavoro o di sforzi, che si compiono sulla terra, ha per scopo di conquistare il rispetto o la favorevole considerazione dell'umanità; per essere guardati dal basso in alto, o per lo meno, non essere guardati dall'alto in basso. L'attività industriale e commerciale che fa progredire la civiltà, la frivolezza, la prodigalità e la sete egoistica di grandezze provengono del pari da questa fonte. Sappiamo viceversa, per dare un esempio del potere esercitato dal terrore che si ha della pubblica opinione, quanti assassini sono stati commessi semplicemente per eliminare un testimone che era a conoscenza e poteva rivelare qualche segreto che avrebbe potuto disonorare l'assassino. La religione è stata potente non per sua forza intrinseca, ma perché essa ha avuto nelle sue mani questo ulteriore e più efficace potere. L'effetto della religione è stato immenso nell'imprimere direzione nell'opinione pubblica, la quale ne è stata sotto molti importantissimi aspetti, completamente determinata.........
Guardiamo la realtà della vita e la “strada” innanzi a noi: possiamo affermare, senza ombra di dubbio, che le religioni hanno fallito in quello che era il compito educativo civico e morale del popolo, tutto il popolo. Non nascondiamoci dietro gli innumerevoli travestimenti dell'ipocrisia. Il potere dell'educazione è pressoché illimitato: non esistono inclinazioni naturali che essa non sia in grado di domare, e, se necessario, di distruggerle col farle cadere in disuso. La vittoria più notevole che si ricordi, riportata dall'educazione sul complesso delle inclinazioni naturali di un intero popolo, fu dovuta in minima parte, se pur lo fu, alla religione: giacchè gli Dei degli Spartani erano gli stessi degli altri paesi greci, e pur credendo, indubbiamente, ogni Stato greco che la sua particolare costituzione poggiasse inizialmente su qualche sanzione divina (il più delle volte si tratta vasi dell'oracolo di Delfo), non sorgevano quasi mai difficoltà per ottenere la stessa sanzione, od un altrettanto potente, se si facevano dei cambiamenti. Non fu la religione che diede forza alle istituzioni spartane: alla radice del sistema vi era la devozione di Sparta all'ideale della Patria o dello Stato; il che trasformato in devozione ideale a un paese più grande, il mondo, potrebbe produrre simili risultati ed anzi assai più nobili. Per i Greci in generale, la moralità sociale era assolutamente indipendente dalla religione. Anzi era piuttosto il contrario: il culto degli Dei veniva inculcato principalmente come dovere sociale, in quantochè, se essi venivano trascurati o insultati, si credeva che la loro ira non si scagliasse maggiormente contro il singolo offensore che non contro lo Stato o la comunità che lo aveva allevato e tollerato. L'insegnamento morale esistente in Grecia aveva ben poco a che fare con la religione. Non si riteneva che gli Dei si occupassero molto della condotta degli uomini l'un verso l'altro, salvo quando gli uomini costringevano gli Dei ad essere parte in causa col porre un'asserzione od un impegno sotto la sanzione di un solenne appello a loro, mediante voto o giuramento. Si faceva quasi esclusivamente ricorso a moventi civili per esigere la moralità umana. Il caso della Grecia è l'unico, in cui un qualsiasi insegnamento diverso da quello religioso, abbia goduto l'indicibile vantaggio di formare le basi dell'educazione: e sebbene molto possa venir detto contro la qualità di qualche parte di questo insegnamento, ben poco si può dire contro la sua efficacia. L'esempio più memorabile del potere dell'educazione sulla condotta ci è offerto da questo caso eccezionale; il che fa fortemente presumere che, negli altri casi, l'insegnamento religioso impartito nei primi anni debba il suo potere sugli uomini non tanto all'essere religioso quanto all'essere impartito nei primi anni.

Jus Naturale, “quod natura omnia docuit”, come Giustiniano dichiara nelle Istituzioni; e poiché i moderni scrittori di sistematica hanno generalmente preso a modello, non soltanto per il diritto, ma per la filosofia morale, i giuristi romani, sono stati numerosissimi i trattati sul così detto Diritto Naturale, e i riferimenti ad esso considerato come regole suprema e modello definitivo, hanno pervaso la letteratura. Ancora maggiore è stata l'opera degli scrittori di diritto internazionale al fine di mettere in circolazione questo stile di speculazione etica; non avendo infatti alcuna legge positiva intorno a cui scrivere, ed essendo nondimeno ansiosi di investire con quanta maggiore autorità di legge fosse possibile le opinioni più largamente approvate riguardanti la moralità internazionale, essi si sforzarono di scoprire siffatta autorità nell'immaginario codice della natura. La teologia cristiana, durante il suo periodo in cui fu maggiore il suo ascendente, oppose qualche ostacolo, sebbene incompleto agli indirizzi di pensiero che erigevano la Natura a criterio morale, in quanto che, secondo il credo di diverse sette cristiane (non certamente secondo il credo di Cristo), l'uomo per natura è malvagio. Le dottrine del Cristianesimo si sono in tutte le epoche adattate largamente alla filosofia in quel momento predominante, e il cristianesimo dei nostri giorni ha preso una parte considerevole del proprio colore e sapore dal deismo sentimentale. Al giorno d'oggi non possiamo dire che si faccia ricorso, come si era soliti fare, alla Natura, od a qualsiasi altro modello, per dedurne regole di azione con precisione giuridica, e con il tentativo di renderle applicabili ad ogni umano intervento. Le persone di questa generazione non sono solite applicare alcun principio con siffatta diligente esattezza, nè nutrono una fedeltà così impegnativa verso un qualsiasi modello, ma vivono in una specie di confusione di molte regole: condizione questa non propizia alla formazione di convinzioni morali solide, abbastanza comoda invece per tutti coloro che prendono un po' alla leggera le opinioni morali, offrendo loro una quantità molto maggiore di argomenti per sostenere la dottrina del giorno. Sebbene non si possa forse trovare alcuno, oggi, il quale, come gli scrittori istituzionali dei secoli passati, adotti il cosiddetto Diritto Naturale quale fondamento dell'etica, e si sforzi in modo conseguente di ragionare a partire da esso, tale parola e quelle affini vanno annoverate ancora oggi fra i termini che hanno un gran peso nelle argomentazione morali. Il fatto che un qualsiasi modo di pensare, di sentire o di agire sia “secondo natura”, è abitualmente considerato come un solido argomento a favore di esso. Se si può dire in maniera abbastanza plausibile che la “natura ingiunge” alcunché, la maggior parte delle persone considererà giustificato il farlo; e viceversa si ritiene sufficiente l'accusa che un'azione sia contraria alla natura per toglierle qualsiasi pretesa di essere tollerata o scusata; e il termine “contro natura” non ha cessato di essere uno degli epiteti più ingiuriosi. Molte sono le pretese di superstizione e pregiudizio che creano una “sorda sfiducia nella ragione” e intralciano tanto la libertà della ricerca quanto la varietà degli stili di vita.

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