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La Porta dell'Inferno Il racconto
15 novembre 2004

Il guaio maggiore, oggi, è l'essersi abituati alla guerra. Eventi che un tempo ci facevano rabbrividire, oggi hanno perso spessore. Apriamo un giornale, accendiamo la TV e ci troviamo di fronte a una cascata di bombe e pallottole, a una messe di morti e di feriti. Ormai il sangue non ci fa lo steso senso di una volta. Enrico Di Stefano riesce, in questa dura indifferenza, a riproporci tutto l'orrore di una guerra con una prosa scorrevole, con un testo che inquieta, con un'idea che soffoca. E lo fa con l'abilità di uno scrittore esperto qual è. Siciliano, curatore di una fanzine di fantascienza, Fondazione, il nostro autore ha ottenuto lusinghieri successi in campo nazionale ed è una delle voci emergenti della fantascienza italiana. Il suo racconto affascina e sconvolge al contempo. E ci fa pensare. Il fiume scorre lentissimo sotto un cielo di piombo. Ricordo di averlo visto brillare dei riflessi del sole, ma deve essere successo tanto tempo fa. Adesso - cosa significa adesso? - è sempre grigio, quasi un tutt'uno con l'eterno crepuscolo che avvolge ogni rudere sbrecciato, ogni lamiera contorta, ogni rottame arrugginito. Non si avverte alcun suono naturale. Nessun cinguettio d'uccello o stormire di fronde, nemmeno il furtivo scalpiccio di un topo. Soltanto un lontano, persistente, sordo brontolio. Come la minaccia di un temporale in arrivo. O il martellare dell'artiglieria. Perché ho pensato all'artiglieria? Ho mai avuto a che fare con obici, cannoni, mortai? Forse si… Forse sono un soldato. Si, mi sembra di ricordare… Sono un soldato. Di quale esercito? Gli stracci grigi che indosso non mi dicono granché. Sono strappati in più punti. I pesanti pantaloni di panno sono bucati all'altezza delle ginocchia. La giacca, dello stesso tessuto, è lisa e scolorita. Sopra il taschino sinistro, però, è cucito un uccello dalle ali spiegate. Si direbbe un rapace… La fabbrica di trattori è al di là del fiume. Da questa sponda si vedono le bizzarre guglie, contorte e cadenti, che un tempo furono le sue alte ciminiere. Sembrano dita rivolte al cielo, congelate nel gesto di una mano che implora pietà a un dio sordo. Qualcosa mi dice che devo raggiungerla. Una forza inesorabile mi spinge nella sua direzione. Eppure, nel più profondo del mio essere qualcosa si ribella a questa pulsione. Si batte perché questo destino - cosa c'entra il mio destino con la fabbrica? - non si compia. Sono sempre solo, non so da quanto tempo. Vago in mezzo a questa desolazione, senza mai scorgere un'altra creatura vivente. Occasionalmente mi sembra di rivivere momenti di un'esistenza precedente, ma sono soltanto sprazzi di luce nelle tenebre, brevi istanti nei quali un ricordo accenna a formarsi per poi dissolversi immediatamente. A volte ho l'impressione di intravedere una città dagli edifici grigi, severi, monumentali; altre un fiume dorato, ben diverso da quello che mi trovo davanti. Mi è capitato, durante un delirante dormiveglia, di sognare (sognare?) una scena molto violenta: una moltitudine di uomini in divisa si avventa su un villaggio; lo mette a ferro e fuoco; uccide gli uomini e i bambini; sottopone le donne ad ogni genere di sevizie. Mi è sembrato - non potrei giurarci, però – di essere uno degli assassini. Le due sponde del fiume sono collegate da un ponte di barche. Alcune di queste, con lo scafo sfondato, sono ormai sotto il pelo dell'acqua. La struttura emerge appena, ma è transitabile. Sento che devo attraversare il Volga… Il Volga! E' questo il nome del fiume! In genere i miei pensieri sono confusi e non riesco a ricordare nulla, ma non ho dubbi: quest'acqua nera, insondabile, assolutamente morta, è quella del Volga! Perché le mie gambe sembrano muoversi da sole? La mia volontà è del tutto annullata. Cammino, cammino, cammino… verso i ruderi della fabbrica. I suoi immensi capannoni si fanno sempre più vicini. Le gigantesche finestre sono le orbite vuote di leviatani morti. La fabbrica è un cadavere e le sue ossa metalliche arrugginiscono in silenzio. Non è stata sempre così… Un tempo, mi pare, una moltitudine di giovani uomini ha lottato selvaggiamente tra le mura ormai diroccate. Karl… Karol… no, non mi sembra. Kurt! Kurt Bauer! Dev'essere il mio nome… Si, Kurt Bauer di Dresda, sergente della compagnia comando, battaglione pionieri, 71ª divisione di fanteria. Rammento tutto adesso. E' strano. Più mi avvicino alla fabbrica e più cose ricordo… Sono sull'altra sponda. Attraverso quello che un tempo, con ogni evidenza, era un largo viale. Adesso è ingombro di macerie e veicoli arrugginiti. Un grosso camion ha abbattuto un lampione e si è fermato a ridosso di un muro. Più in là una mole gigantesca è posta di traverso sulla strada. E' un KV2, un carro armato mostruoso, quasi invulnerabile. Noi (noi?) lo temevamo come la morte stessa. Adesso è soltanto un guscio vuoto, un inutile ammasso di lamiere fredde e inerti. Svolto un angolo e mi ritrovo di fronte a un monumento. Avverto, repentina, una strana contrazione dei visceri. Non per l'aspetto della scultura, raffigurante un gruppo di operai muscolosi e dalla faccia dura. No… è che sono già stato qui… E' stato qui! Ero rannicchiato dietro un pilastro quando un proiettile di mortaio è esploso… a due passi da me. Sono di fronte alla fabbrica. E' immensa. Vi si accede da un portone che sembra essere stato costruito dai titani. Assomiglia alla bocca di una vorace, insaziabile creatura d'incubo. Un nero orifizio dentro il quale mi portano le gambe. Non posso fare nulla per cambiare strada. Ma non vorrei entrare, ho sentore dell'atroce destino mi attende all'interno. Riesco, solo per un attimo, a distogliere lo sguardo dall'apertura e a fissare il muro di cinta. Sui mattoni è stata tracciata una scritta con la vernice rossa. E' scritta in cirillico, ma ho imparato a leggere quei bizzarri caratteri. СТАЛИНГРАДА Stalingrado. Adesso è tutto chiaro. Noi della 71ª avevamo ribattezzato a modo nostro questa maledetta città. La chiamavamo “La Porta dell'Inferno”. Enrico Di Stefano
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