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La gabbia
15 febbraio 2009

Quante volte l'avevo odiata, quante volte la mia mano si era chiusa a pugno stringendosi sino a far quasi sbiancare le nocche, quante volte ero stato costretto a girare il capo per non fare ciò che il mio cuore mi ordinava. La gabbia era lì, che troneggiava su un mobile antipatico quanto lei stessa. Scuro, pesante, vecchio e non antico. Parevano entrambi prendersi gioco di me, della mia angoscia nel vedere quei piccoli esseri viventi costretti a passare tutta la loro vita rinchiusi in una stretta prigione. Sì, dorata quanto lo si vuole, accuditi, puliti, sfamati sino all'ingordigia. Ma pur sempre prigionieri. La casa di mia madre era in un paesino tranquillo del sud d'Italia e quella casa era tutto per lei. Per noi. Da quando mio padre era morto andando giù col suo peschereccio la nostra vita era mutata, drasticamente. E quella gabbia ne era il simbolo e, in qualche modo, la ragione. Era stato l'ultimo regalo di mio padre. Da allora era diventata oggetto di culto per mia madre. Per lei lì dentro c'era l'anima di mio padre, la sua presenza irrinunciabile, oserei dire, la sua immanenza. Ma io non sopportavo vedere nessuno costretto in gabbia. Fossero bestie, uomini o uccelli. Nessuno, perché la libertà è il più sacro dei doni che Iddio ci ha fatto. La libertà di muoversi, di andare in qualsiasi posto, fare quello che si vuole, sempre senza intaccare la libertà degli altri. E questo forse perché io stesso mi sentivo in gabbia. Gabbia era l'amore di mia madre che aveva riversato su di me tutte le sue attenzioni. Mi sentivo in gabbia a scuola, dove le sbarre erano gli sguardi dei mie professori che dicevano: devi fare quello che dico io, gabbia erano le mie tasche sempre senza un centesimo e i tentativi spesso patetici di mia madre di farmi credere che non avessimo problemi economici. Gabbia era stata per un certo tempo Stefania, quella ragazzina viziosa che passava da un letto all'altro soltanto per dimostrare che era ormai una donna. Il mio mondo era fatto di sbarre. Così passavo ore e ore a guardare quelle che troneggiavamo sul vecchio tavolino di mia nonna inventando mille modi per piegarle, per far fuggire via quegli esserini che mi fissavano con gli occhioni dolci e immaginando i loro sorrisi all'aria aperta mentre la libertà tornava nel loro patrimonio genetico. Il problema è che non avevo il coraggio di farlo. Poi, una notte… C'era vento forte che mi aveva impedito di dormire. Continuavo a girarmi e rigirarmi nel letto in una insonnia che si ingigantiva di attimo in attimo. E la mia mente fu nuovamente catturata dalla gabbia. Pensai di tutto, che mio padre, se fosse stato ancora in vita, avrebbe fatto quello che io sognavo di fare, che quel gesto di libertà sarebbe stato di grande aiuto anche a mia madre liberandola dal legame con l'al di là per quell'ultimo regalo, quell'ultimo ricordo. E avrei liberato finalmente la mia mente da quella ossessione che mi impediva di condurre una vita normale. L'alba avanzò spinta dal vento impetuoso e giunse prima del solito. Di colpo mi resi conto che avevo deciso, che in quegli ultimi pensieri avevo trovato una ragione sufficiente a darmi tutto il coraggio di cui avevo bisogno per sconvolgere nuovamente la vita di mia madre. Mi alzai muovendomi come un gatto. I miei piedi scalzi sfioravano il pavimento. In quel momento ero tanto teso che sarei riuscito persino a camminare sull'acqua. Raggiunsi la stanza da letto di mia madre. Socchiusi piano la porta. Prima entrò il mio ciuffo ribelle di capelli, poi la mia fronte, infine i miei occhi. Lei dormiva pesantemente. Certo aveva ingoiato i soliti tranquillanti dopo inutili tentativi di prender sonno. Non sarebbe stata svegliata neanche da un martello pneumatico. Chiusi la porta, sempre con calma, e andai nella stanza che una volta era stato un salottino. La gabbia continuava a imporsi orrenda. La finestra era vicinissima. Oltre, c'era il cielo. Spalancai la finestra e la persiana. Una zaffata di aria fresca mi convinse che stavo facendo la cosa giusta, che bisognava dare una scossa violenta alla mia… nostra vita. E quello era l'unico modo. Il modo giusto. In alto alcune rondini garrirono il loro richiamo. Presi la gabbia generando sorpresa e un piccolo trambusto al suo interno. Tra un attimo riavrete la libertà pensai la libertà… Posai la gabbia sul davanzale ed emisi un profondo sospiro. L'alba parve fermarsi per un infinito istante a osservarmi. Sollevai la mano che tremava un po'. E aprii la porticina. “Andate… andate via… fuori…” Esclamai a bassa voce. Ma non accadde nulla. “Ho detto che potete andare… possibile che non lo capite? Potrete rincorrervi tra gli alberi dalle frondose chiome sotto il cielo d'azzurro cristallo, potrete decidere se dormire o no, se mangiare o no, potrete decidere della vostra vita, della vostra libertà. Via… su… andate via…” Nulla. Scossi la gabbia, l'agitai sperando di scuotere anche loro. Sventagliai le mani cercando di far paura, tolsi addirittura tutta la parte superiore della gabbia. Invano. Restavano lì a fissarmi quasi con curiosità. Mi venne da piangere. Tanto coraggio sprecato per nulla. Nulla… Poi sollevai le spalle. Rimisi la gabbia a posto e tornai a letto. Del resto cosa potevi aspettarti da delle tartarughe!
Autore: Donato Altomare
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