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La fuga dei giovani
30 settembre 2011

Lo scorso 27 settembre la Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) ha presentato e diffuso i risultati del “Rapporto 2011 sull’economia del Mezzogiorno”.
Il quadro che risulta dal rapporto è abbastanza desolante. Non che ci si aspettava dei risultati positivi ma, leggendo i numeri, l’entità dei problemi che le aree del meridione evidenziano sono rilevanti.

Il primo dato negativo è quello riferito alle stime sul PIL 2011. A fronte di una previsione di crescita a livello nazionale dello 0,6%, il Mezzogiorno dovrebbe registrare un +0,1%, che indica tuttora la presenza della stagnazione, contro un Centro-Nord che si attesterebbe al +0.8%. Nel dato che riguarda il Sud, osservando le singole regioni, la Puglia, prevista al +0,3%, si colloca quasi a metà strada tra la prima posizione della Basilicata (5%) e l’ultima ricoperta dalla Calabria (-0,1%). Numeri sconfortanti che dimostrano come in realtà il percorso verso un rilancio dell’economia sia ben lungi dal suo avvio.
Tuttavia il dato che pesa maggiormente è quello della fuga dei giovani. L’assenza di nuove generazioni è un problema che porta a diverse conseguenze. La loro mancanza si riflette in un invecchiamento della popolazione, nello scarso ricambio generazionale per la classe dirigente e soprattutto nella perdita dei valori e delle tradizioni di un territorio che, con il procedere del tempo, si depaupera. Aspetti che convergono verso il sentiero del declino.
Dal Sud sono emigrati, in cerca di lavoro, all’incirca 600 mila giovani negli ultimi dieci anni. Di questi 600 mila, 15 mila provengono dal Barese e quasi il 25% è laureato. Un’emorragia che non tende a fermarsi e che vede l’emigrazione delle nuove leve non solo verso Lombardia e Lazio, principali poli di attrazione con Roma e Milano, ma anche verso l’estero. Il nostro territorio soffre da anni la scarsa presenza di infrastrutture, di politiche attive e di tutto quanto può determinare una reale prospettiva di crescita ma, tra i vari “fattori produttivi”, non si può perdere la “risorsa umana” sicuramente più importante e determinante del capitale.
Da risorse umane competenti e professionali deriva la generazione di quelle idee in grado di garantire innovazione, sviluppo tecnologico, valorizzazione delle ricchezze locali e tutto quanto può generare competitività e crescita. Il quadro raffigurato nel rapporto non potrà mutuarsi nel breve periodo poiché un radicale cambio di tendenza sarebbe abbastanza complesso, soprattutto in un momento di crisi come quello attuale.
Tuttavia è proprio nei momenti di difficoltà che bisogna investire, con il coraggio di scelte forti e decisive, tutto quello che forse è venuto a mancare nel corso degli ultimi anni. Non si può continuare a rimanere impotenti di fronte ad una ferita i cui effetti saranno, se non si pone rimedio al più breve, irreversibili. È importante concentrarsi su quelle valenze che, fortunatamente e senza investimenti, il nostro territorio è già in grado di offrire. La possibilità di un’offerta turistica maggiormente strutturata e organizzata, la rivalutazione del patrimonio artistico culturale, la promozione delle produzioni agroalimentari e tanto altro ancora sono le strade da percorrere.
Fin qui nulla di nuovo ma perché tale virtuosismo stenta a decollare? Forse il motivo sarebbe da ricollocarsi in quelle stesse aree in cui i giovani emigrano. Infatti a volte ciò che manca è una scarsa propensione all’innovazione e all’internazionalizzazione, non cogliendo quelle opportunità che provengono dagli altri territori, intendendo per tali sia le regioni sviluppate che quelle in via di sviluppo. A proposito di innovazione, in Puglia oltre la metà delle famiglie non possiede Internet. Oggi non possiamo non affacciarci su quel panorama mondiale che è divenuto un unico luogo comune di scambio e relazione.
Le incognite per rimanere a galla sono sicuramente maggiori e complesse ma bisogna avere il coraggio di rischiare in proprio e allargare le vedute. Se il Sole 24 Ore, con un articolo del 26 settembre, evidenzia come in Brianza, tra le aree maggiormente rivolte all’export, ci siano preoccupazioni in quanto l’internazionalizzazione non riveste, nel campione delle imprese considerate, un elemento strategico, possiamo ben comprendere quanto cammino abbia da compiere la nostra imprenditoria. 
Pertanto ben vengano i rapporti con l’esterno ma, più che per collocare in un processo unilaterale la nostra forza lavoro, per le possibilità di crescita e di confronto che ne possono derivare. Di per se non è sbagliato che i giovani pugliesi intraprendano dei percorsi lavorativi fuori regione, ma bisogna che tali esperienze siano invece quel patrimonio di competenze e conoscenze da capitalizzare successivamente nella terra d’origine. 
Autore: Domenico Morrone
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Così scriveva Samuel Ullman: “ La gioventù non è un periodo della vita, è uno stato d'animo; non è una questione di guance rosee, labbra rosse e ginocchia agili; è un fatto di volontà, forza di fantasia, vigore di emozioni, è la freschezza delle sorgenti profonde della vita. Gioventù significa istintivo dominio del coraggio sulla paura, del desiderio d'avventura sull'amore per gli agi. E spesso se ne trova di più in un uomo di 60 anni che in un giovane di 20. Nessuno invecchia semplicemente perché gli anni passano. Si invecchia quando si tradiscono i propri ideali. Gli anni possono far venire le rughe alla pelle, ma la rinuncia agli entusiasmi riempie di rughe l'anima. Le preoccupazioni, la paura, la sfiducia in se stessi fanno mancare il cuore e piombare lo spirito nella polvere. A 60 anni o a 16, c'è sempre nel cuore di ogni essere umano il desiderio di essere meravigliati, l'immancabile infantile curiosità di sapere cosa succederà ancora, e la gioia di partecipare al grande gioco della vita. Al centro del vostro cuore e del mio cuore c'è una stazione del telegrafo senza fili: finchè riceverà messaggi di bellezza, speranza, gioia, coraggio e forza dagli uomini e dell'Infinito, resterete giovani. Quando le antenne riceventi sono abbassate, e il vostro spirito è coperto dalla neve del cinismo e dal ghiaccio del pessimismo, allora siete vecchi, anche a 20 anni, ma finchè le vostre antenne saranno alzate, per captare le onde dell'ottimismo, c'è speranza che possiate morire giovani a 80 anni.”
Vari fattori, tra cui l'entrata in scena di nuove tecnologie e l'aver privilegiato i servizi rispetto all'industria tradizionale, hanno drasticamente ridotto i posti di lavoro nel mondo occidentale. L'alternativa a contromisure pronte ed efficaci è un ristagno di decenni dell'economia planetaria. Una tromba d'aria economica ha investito il pianeta, spazzando via milioni di posti di lavoro nei paesi industrializzati e trasferendoli in quelli del Terzo Mondo. L'origine di questa grave turbolenza è da far risalire ai primi anni Sessanta, quando un certo numero di paesi emergenti abbattè le barriere commerciali e chiese all'estero aiuti per costruire e gestire impianti industriali che producessero, oltre che per loro, anche per il resto del mondo. I sindacati indipendenti furono fatti sparire, e per il modo in cui fu formulata la relativa legge, scioperare diventò praticamente impossibile. L'ingresso del capitale straniero venne incoraggiato in tutti i modi: i profitti degli investitori al riparo delle tasse per un periodo da cinque a dieci anni; un'imposta del 4 per cento appena, invece del normale 40 per cento, sui profitti derivanti dalle esportazioni; libertà di fatto dall'osservanza delle norme antimonopolistiche, nonché di quelle in materia di autorizzazioni e registrazioni; e, per quel che concerneva il trasferimento all'estero, unico linite il cielo. Gli investitori stranieri si precipitarono come mosche sul miele. Le prime a presentarsi furono le industrie che occupavano le ultime posizioni nella scala dei livelli di salario, è cioè quelle tessili, di giocattoli e dell'abbigliamento. Seguirono a ruota i fabbricanti di apparecchiature stereofoniche, baracchini per radioamatori e computer tascabili. Mentre nei paesi emergenti si registrava questa significativa inversione di tendenza, un fenomeno altrettanto rilevante interessava il mondo occidentale. Nel 1973 soltanto il 3,5 per cento dei 320 milioni di persone dei paesi dell'OCDE (Organizzazione di cooperazione e di sviluppo economico, un gruppo di paesi industrializzati che abbraccia Europa, America settentrionale, Australia e Giappone) era disoccupato. Due anni dopo si era passati a più del 5 per cento, con 17,4 milioni di senza lavoro. Nella CEE l'aumento è stato più massiccio: dai 2,6 milioni del 1973 ai 5,2 del 1976. I tassi di disoccupazione sono via via aumentati, fino al 1983. “Quella che ci troviamo a fronteggiare – rivela uno studio compiuto nel 1983 dal Consiglio d'Europa, composto dai rappresentanti di 23 paesi – non è più la disoccupazione a tempo determinato, ma di lunga durata e per giunta di massa. E inoltre probabile che il fenomeno si aggravi e investa settori della popolazione tradizionalmente meno vulnerabili”. E tutto quello che è successo in questi anni. Chi ha dormito e sonnecchiato?



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