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La figura di Don Grittani a cent'anni dalla nascita (II) L'unico amico di Spiridione
15 maggio 2007

Al termine della prima parte, abbiamo visto don Ambrogio Grittani coadiuvare nell'autunno del 1938 il prevosto don Giovanni Capursi presso la parrocchia del Sacro Cuore. Ma l'attività del giovane sacerdote spazia ben al di là della normale routine. Tutte le numerose realtà associative del laicato cattolico, maschile e femminile, sono pervase dal suo infaticabile attivismo. A sue spese prende in fitto una casa nei pressi della chiesa, ottiene il permesso di celebrarvi la messa, e di accogliervi le periodiche riunioni delle varie associazioni. Con lo pseudonimo di “Don Curioso” tiene una rubrica sul periodico diocesano “Luce e Vita”, intitolata “Al canto dei perché”. Prosegue naturalmente il suo insegnamento presso il Seminario Regionale. L'operato del Nostro, ispirato ad una concezione della pastorale fortemente innovativa ed adeguata ai tempi, malgrado fosse incoraggiata dallo stesso vescovo, mons. Achille Salvucci, finisce per suscitare invidia in parte del clero locale, che mal sopporta la crescente popolarità ed il seguito che don Ambrogio ha saputo conquistarsi in diversi ambienti e strati sociali. E' anche probabile che la crescente adesione ottenuta abbia suscitato il malumore delle locali autorità fasciste, sempre attente a vigilare su tutte le aggregazioni, a organizzare in maniere totalitaria il consenso, e non disposte a tollerare in questo campo concorrenze di sorta. Di fatto, don Grittani viene “invitato” con il dovuto riserbo e sia pure con l'attestazione di perdurante stima, a limitare la sua attività, e a privilegiare i settori tradizionali del sacerdozio compreso l'insegnamento. E' un momento di crisi e, come vedremo, anche di svolta. Finora aveva dedicato il suo tempo e le sue energie all'organizzazione e cura spirituale di fedeli appartenenti in genere alle classi medie. Costoro avevano gli strumenti culturali ed economici che consentivano di partecipare alla vita parrocchiale: necessitavano soltanto di costanti sollecitazioni e di un periodico scossone alla loro naturale tendenza alla routine ed alla superficialità. Ma proprio presso questo “milieu” sociale aveva sperimentato incomprensioni e ostilità. Matura allora nel suo animo una consapevolezza, quasi una rivelazione, che imprimerà un corso completamente diverso alla sua vita di sacerdote. Nella Molfetta degli ultimi anni '30, alla vigilia del disastro, con 15.000 persone censite in situazione di povertà, vi erano uomini, donne e bambini che vivevano in miseria, al di sotto della soglia di sopravvivenza, respinti non solo ai margini, ma al di fuori del consesso civile. La loro esclusione, almeno in origine, non era volontaria ma derivava ovviamente da note dinamiche socio-economiche. Successivamente, la totale impossibilità di riscatto li aveva quasi integrati nella loro condizione, al punto che rifiutavano persino l'offerta, peraltro alquanto aleatoria, di reinserirsi nella società. Al difficile recupero di questa umanità dolente, decide don Ambrogio di dedicare il resto della sua vita. Coadiuvato da uno sparuto gruppo di volontari, comincia ad individuare gli accattoni che stazionano numerosi in determinati angoli della città. Bisogna convincerli a ripulirsi, ad accettare una sorta di controllo almeno settimanale del loro stato igienico ed alimentare e, soprattutto, nelle intenzioni del Nostro, a ritornare all'osservanza dei precetti religiosi. E' bene infatti sottolineare che per lui il recupero morale di questi derelitti deve accompagnarsi strettamente a quello materiale, dove la connotazione morale è indistinta da quella religiosa. A scorrere gli scritti di quel periodo, apparsi su “Luce e Vita” nella sua nuova rubrica intitolata significativamente “Oportet Illum regnare”, e poi sul periodico “Amare”, da lui diretto, sembra addirittura che il recupero materiale del misero non sia tanto importante di per sé, quanto piuttosto per evitare l'irrimediabile perdita di un'anima. E' un dato che indubbiamente può suscitare perplessità in un laico, ed anche in un credente contemporaneo, ma che va inquadrato da una parte nella particolare personalità di don Ambrogio, dall'altra in quella turbinosa temperie storica, con una Chiesa timorosa dell'espandersi del comunismo, minacciata dal totalitarismo ateo nazista, e costretta a ribadire e blindare la Dottrina in ogni settore della sua attività. Intanto lo scoppio della guerra, la recessione economica, la disoccupazione, l'aumento generale dei generi di prima necessità, aggravano a Molfetta la dimensione sociale della povertà. Istituzioni pubbliche e religiose collaborano per contrastare la deriva pauperistica di larghe fasce della popolazione già a rischio. Don Ambrogio è in prima linea: si adopera per ampliare l'accoglienza nei locali annessi alla Parrocchia del Sacro Cuore; invoca la collaborazione dei laici; struttura la sua organizzazione. Mons. Salvucci lo incoraggia e lo sostiene insieme a non pochi vescovi pugliesi. Il primo marzo del 1943 l'Opera viene istituita canonicamente sotto la protezione e vigilanza del Vescovo, come “Opera Pia S. Benedetto Giuseppe Labre”. Ormai la coabitazione col Sacro Cuore non è più possibile sia per motivi di spazio, che per la natura diversa delle due istituzioni. Vengono allora individuati, acquistati e allestiti alcuni locali al numero 12 di via Tommaso Grossi. Ci sarà un refettorio, un dormitorio, adeguati servizi igienici, e naturalmente una chiesa, che verrà consacrata dal Vescovo il 7 ottobre dello stesso anno. Don Ambrogio che ha dovuto, e voluto vendere alcune sue proprietà, ha finalmente la “sua” Opera.
Autore: Ignazio Pansini
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