La comunità non è un soggetto strumentale
I riti quaresimali riconosciuti come patrimonio collettivo a Molfetta
Com’è noto, il consiglio comunale ha recentemente approvato una modifica dello Statuto del Comune di Molfetta, inserendo un paragrafo che riguarda i riti quaresimali. Questi vengono riconosciuti come “patrimonio culturale immateriale della Comunità cittadina”, essendo “parti integranti della identità popolare”. Si tratta di un evento che si inserisce all’interno di un acceso dibattito, se non in un campo di forze, che sta interessando i riti pasquali molfettesi da alcuni anni. Da alcuni anni le processioni sono al centro di una tensione: da un lato il vescovo, che ha avanzato una serie di proposte dirette alla riorganizzazione delle processioni e delle confraternite; dall’altro alcune amministrazioni delle confraternite che cercano di tutelare la propria sovranità su questi eventi. Si tratta di una discussione sicuramente intensa, ma di cui si sa ben poco al di fuori delle confraternite e dei circuiti che ruotano attorno a queste ultime: una disputa sicuramente poco trasparente, visto che la città ne sa ben poco. Quelle poche notizie note sono quelle che circolano per caso tra i vicoli della città, e per questo non possono che essere confuse. Sembra che da anni la curia voglia intervenire in questioni riguardanti la durata e l’orario delle processioni, i requisiti di accesso alle confraternite, i regolamenti ecc. Le processioni sono eventi religiosi, che fanno riferimento all’ordinamento ecclesiastico, quindi il vescovo ha piena voce in capitolo sulla regolamentazione di essi: le eventuali pretese del vescovo, dunque, sono assolutamente legittime. Dall’altra parte, le amministrazioni di alcune confraternite da anni oppongono a questi tentativi di regolamentazione l’idea che le processioni non siano di proprietà delle confraternite, ma patrimonio dell’intera comunità. Esse non sono eventi “privati”, ma esprimono un valore collettivo, essendo profondamente connesse con l’identità della città. Dunque, modificare lo statuto di tali eventi significa violare lo spirito di una comunità. Ora, io sono profondamente convinto che il legame fra i riti della Settimana Santa e la città di Molfetta tocchi le corde profonde dell’identità collettiva. L’ho anche scritto in numerosi articoli e sostenuto in quei confronti pubblici in cui sono stato invitato a parlare. Le processioni, le visite ai sepolcri il giovedì santo, le note delle marce funebri che risuonano nelle strade della città vecchia nel frattempo cosparse di cera, hanno scandito la nostra crescita. Ogni rito contiene mille storie, che ci legano ai nostri cari, alle case e alle strade, dando alla città in cui siamo cresciuti, Molfetta, quel “quid” che la renderà sempre diversa da qualsiasi altro posto che abiteremo. È il mistero della comunità, che sintetizza dimensione individuale e collettiva, rendendo la nostra identità un fatto aperto, sociale e storico, mai chiuso in se stesso. Allora, riconoscere i riti quaresimali come patrimonio collettivo ha senso: è vero che quei riti sono legati all’identità della città, oltre il dato meramente religioso. Eppure, resta il fatto che alcune cose, in questa contrapposizione che abbiamo brevemente – e forzosamente – riassunto, non tornano, e la formulazione inserita nello Statuto comunale non contribuisce a chiarirle. Riconoscere che i riti sono un patrimonio collettivo e non un affare esclusivo di qualcuno, affermare che sono un bene comune e non un bene privato appartenente alle confraternite, implica delle conseguenze. Assumere il valore collettivo delle processioni impone di disporre degli strumenti per cui la comunità possa esprimersi sulle questioni riguardanti la gestione e la piena valorizzazione delle processioni. Significa favorire delle forme di partecipazione, per cui la gente possa, ad esempio, dire la propria sulle modalità per una piena valorizzazione delle statue e del patrimonio artistico, sull’orario delle processioni, sui percorsi e altre questioni di questo genere: questi elementi, d’altronde, sono rimasti tutt’altro che immutati nella storia. Significa, inoltre, rendere trasparenti i modelli di gestione delle processioni e di quelle soggettività collettive che si fanno carico concretamente di realizzare questi eventi, facendosi portavoce di quel patrimonio immateriale collettivo oggi riconosciuto nello Statuto comunale. In breve, la comunità non può essere invocata come specchietto per le allodole: se un bene è comunitario, la comunità deve essere un soggetto attivo nella gestione e nella valorizzazione di quel bene. Eppure, non ci sembra che tutto questo sia stato mai oggetto di dibattito pubblico: l’opacità che ha caratterizzato, ad esempio, le questioni oggetto di negoziazione fra confraternite e curia è la testimonianza di un modello di gestione spesso privatistico, tutt’altro che inclusivo e “permeabile” rispetto alla comunità. Gestire un patrimonio di una comunità significa rendersi inclusivi, plurali – sin dalle modalità di accesso, per finire alle forme deliberative – rispetto alla comunità, alle sue istanze e alle sue tradizioni. Altrimenti l’affermazione del carattere collettivo di un bene (a maggior ragione se immateriale) rischia di essere puramente strumentale. Significa, in altri termini, utilizzare ingannevolmente la comunità per dare forza a delle posizioni “private” da sostenere contro l’ordinamento (quello ecclesiastico) da cui il proprio Statuto (quello di confraternite titolari della gestione di questi eventi) trae legittimità. Il vescovo sembra tenere bene a mente questi rischi e i confini fra i vari ambiti (religioso, identitario, comunitario, ecclesiastico) laddove afferma, nel suo recente comunicato (davvero ben scritto) di commento alla modifica dello statuto: “nello stesso tempo, mi auguro che nessuno, nemmeno all’interno delle aggregazioni ecclesiali, osi strumentalizzare questa scelta per una ingiustificata confusione tra l’aspetto culturale che questi Riti pur rivestono, e la preminente dimensione religiosa, di cui sono espressione. E meno ancora voglia operare una indebita trasposizione delle deliberazioni di questa assise consiliare nell’ordinamento ecclesiale a cui i Riti quaresimali, autentici atti di culto, appartengono”. Sarebbe stato bello, allora, che le confraternite, prima di formulare questa proposta, così velocemente approvata in consiglio comunale, avessero avviato un confronto plurale, aperto all’intera cittadinanza (e – perché no? – anche al vescovo), in cui tutte queste questioni potessero essere pienamente sviscerate. Il fatto che questo tentativo non ci sia stato lascia perplessi, avallando il timore che si possa utilizzare strumentalmente la dimensione collettiva per giustificare scopi privati, tutt’altro che “comunitari”. Mi auguro che questo timore sia infondato: una bella discussione può sempre iniziare adesso. Non è mai troppo tardi. © Riproduzione riservata
Autore: Giacomo Pisani