La Baronessa dell'Olivento
La metafora di una vita/gioco dell'oca, dove basta un tiro di dadi a far sorgere nuove occasioni e sovvertire antichi percorsi, assurge a simbolo della vicenda di Vlaika Brentano, focomelica protagonista della «Baronessa dell'Olivento» di Raffaele Nigro, da cui è stato liberamente tratto lo spettacolo di teatro-danza «Scarsa la creta che mi impastò», rappresentato nuovamente dagli studenti dell'Ipssar, presso la palestra dell'istituto, nell'ambito delle manifestazioni della sesta edizione della «Giornata dell'Arte e della Creatività Studentesca». A curare la regia e le coreografie del suggestivo allestimento Maria Spadavecchia, anche sceneggiatrice insieme ad altre due docenti dell'Ipssar, Adelaide Altamura e Teresa de Leo. I costumi sono stati realizzati dalla professoressa Rosa de Carolis, le scenografie da Skenè, Art Design 30.
È un apologo di delicata bellezza quello che rivive grazie ad allievi e insegnanti dell'istituto alberghiero. Una vicenda popolata di personaggi strambi, che dalla Terra delle Aquile ci catapulta in una Napoli che sa «di mare, di fogna e di cucina». Ricettacolo di contraddizioni, insite già nella sua origine, frutto del felice connubio di un santo e una “diavola” e di un'inusuale “spartizione di signoria”. L'Albania di Scanderbeg (Raffaele Vacca) e la Napoli di don Ferrante si incuneano nelle vicende dei fratelli Brentano, Vlaika e Stanislao. I loro genitori, Alessio e Polesella, si erano sposati «con la cerimonia degli alberi» e il senso di peccato insinuatosi nella donna per via di un'unione non proprio ortodossa l'aveva indotta a considerare l'handicap di Vlaika, nata senza braccia e senza gambe, come un castigo divino.
Saranno l'amore del tenero e svagato fratello Stanislao (esortato da Scanderbeg a consacrare la propria vita alla «macchina della dottrina», la stampa) e un sapere dapprima rifiutato come vessillifero di un mondo di «fantasmi incorporei» a consentire a Vlaika, simbolo dell'umanità stessa, di superare i limiti imposti dalla natura e di diventare «una donna di cultura e potere: la baronessa dell'Olivento». Bravissimi gli interpreti: protagoniste assolute del gioco scenico le due proiezioni del personaggio di Vlaika.
Loredana Altamura incarna la parte attiva di Vlaika, quella che dalla cesta di salici fabbricata da Stanislao muove ad esplorare il mondo: con l'espressività nella danza l'Altamura coniuga la capacità di variare i registri del recitato, facendo della sua Vlaika un femminino allo stesso tempo energico e fragile, che alterna momenti di squisito infantilismo al retaggio di una saggezza millenaria.
Antonella Ruggiero è la Vlaika portata all'astrazione, quella che dalla specola di una sedia a rotelle interpreta il mondo, scorge il pesco perdere i fiori, s'interroga sul senso della vita e, quasi personificazione dell'arcangelo della morte, evocato nel libro «con gli occhi vuoti e i capelli al vento», si riunisce, quando il gioco volge al termine, alla Vlaika-vita per intraprendere un nuovo viaggio.
La Ruggiero conferma le doti recitative palesate nella precedente performance (quella dello scorso anno) e domina la scena con notevole carisma. Spontaneo ed efficace lo Stanislao dolce e sognatore di Corrado Lioce; onore al merito ai comprimari: Daniele de Bari (Antonello Petrucci, incarnazione dell'anelito all'amore soffocato dalla Brentano, e Murhad Han Pascià), Raffaele Vacca (nel doppio ruolo di Scanderbeg don Fontanelli) e Isabella Sgroni (Giosaria) riescono apprezzabili soprattutto nei momenti in cui lo spettacolo si avvale delle arti della danza e dell'espressività corporea. Ricordiamo infine Dario Vacca nel ruolo del silenzioso e paziente Pasquale.
Una vicenda dolce-amara quella di Vlaika, cresciuta «supina e carponi» per poi divenire compagna delle falene e degli arcangeli.
Autore: Gianni Antonio Palumbo