L’acqua e i sogni nelle “Astrazioni dal mare”
La storia e le alterne vicende di una città come Molfetta non possono non apparire e non essere indissolubilmente legate all’Adriatico, mare che tanti pittori molfettesi hanno ritratto. Basti pensare alla forza e alla furia di certe marine di Antonio Nuovo, dove tutto è spuma, il cielo si fa rosso e l’acqua è oscura come le tensioni che vibrano al fondo di noi. È ormai un appuntamento fisso la mostra che ha per oggetto le astrazioni dal mare, come ama denominarle Natale Addamiano, anima della collettiva che ha avuto luogo presso la Sala dei Templari dal 1 al 16 agosto, con il patrocinio del Comune di Molfetta e, in particolare, dell’Assessore alla Cultura Sara Allegretta. La realizzazione ha visto collaborare con Addamiano all’allestimento i pittori Michele Paloscia, Paolo Lunanova, Paolo Sciancalepore e Vito Brattoli. Nel suo scritto L’Eau et les Rêves Gaston Bachelard individuava la presenza di molteplici categorie di acque nella rêverie dei letterati. Chiare, profonde, dormienti, morte, violente, esse risultavano in sostanza riconducibili a due macrocategorie: l’acqua della gioia e quella della pena. La prima è limpida, cristallina. In essa il mondo si riflette e, come in un miraggio, appare depurato dai tratti più meramente fenomenici. L’acqua della pena è oscura, profonda, dormiente o morente come l’Ofelia di Millais, bellezza sull’orlo della dissoluzione. La storia dell’arte ci ha abituati a rapportarci alle acque della gioia e del dolore. Tra le prime, quelle del fiume Senna nella Regata ad Argenteuil di Claude Monet, popolate di riflessi di vele luminose, di sogni di barche e rive in un orizzonte da cui si vorrebbe bandire il nero. Persino il mare-tappeto del Ritorno di Ulisse di de Chirico assume una connotazione quietante, se comparato al buio dell’ignoto che si intravede oltre la porta socchiusa del medesimo olio. Tra le seconde, l’acqua violenta di una tempesta marina (1842) di Turner evidenzia come anche la rappresentazione della turbolenza sia foriera di bellezza, perché vi è un sublime perfino nell’oscurità di una natura che pare voler inghiottire, attraverso il flutto, la presenza umana. Buona parte dell’immaginario legato alle acque rivive nella collettiva dei Templari che ha previsto, tra l’altro, un omaggio al compianto Franco d’Ingeo. Più volte egli aveva cantato il mare di Molfetta, ora come acqua dormiente, magari sognante, ora come maestoso scenario di bellezza. La collettiva presenta diciassette pittori, di varia provenienza, accomunati dalla tensione ad abs trahere muovendo dall’elemento marino. Alcuni di essi tendono a interrogare le profondità del mare, come Giusella Brenno con i suoi fondali carichi di vibrazioni che lo sguardo intuisce, o Roberto Goldoni, cui è cara la rappresentazione dell’acqua nei riflessi, nelle trasparenze e nei recessi inaccessibili allo sguardo. Pino Spadavecchia ha scelto una strada affine, esplorando idealmente acque che brulicano di vite indistinte, di palpiti inabissati eppure sempre vivi. Altri artisti mantengono un legame più evidente con la figurazione, senza cadere nelle trappole di un facile vedutismo. Vacchetti, nella solitudine di un notturno silente, dà voce al sogno dell’uomo di farsi gubernator di una natura con cui ricercare e forse ritrovare l’armonia. Il fronte del porto di Banchieri vive delle gamme di grigi, che contrappuntano il candore delle imbarcazioni e restituiscono un’immagine di periferia di sapore crepuscolare. De Cosmo punta invece su una siesta agostana di turisti in riva alla laguna veneziana, in un figurativismo radicato nella tradizione eppure moderno, in un’atmosfera di ovattata sospensione. Michele Paloscia dà vita a un’acqua luminosa, brulicante di cromie danzanti. Persino le sue rappresentazioni notturne, o quelle crucciose, restituiscono la sensazione di uno sguardo sereno che abbraccia ogni elemento della natura. Natura che a sua volta accoglie l’uomo, come nel caso della bella immagine del nuotatore adolescente, Andrea, in un’acqua dalle tonalità insolite e cangianti, le cui linee curve sembrano voler abbracciare l’efebo. Legami con il fenomenico, ma sua trasfigurazione in chiave surreale, connotano le opere di Sciancalepore e Corona. Il mare di Sciancalepore è figlio del cogitans fingo; è mare di spazi illusionisticamente disegnati dall’uomo e coesiste ora con un simbolo terreno di vita e morte come l’albero, ora con presenze care all’artista (i rimandi classici, il rovinismo) in una costruzione di stimolante sapore intellettuale. Corona sceglie la via dell’incubo in riva al mare, in coerenza con un percorso che lo porta a innestare un citazionismo colto, che può spaziare da Redon a Dalì a Buzzati, come ci sembra in questo caso, in un contesto straniante e vagamente perturbante. Decisamente espressionista la soluzione di Benati, in cui il mare è scenario di un’alienazione: lo sguardo dell’artista deforma i lineamenti di una creatura divenuta quasi un demone che langue presso le acque. La forza del segno che irrompe tra acque e rocce, dove il silenzio talora cede il posto a un tratto sicuro, caratterizza l’opera di Marchetti; l’espressività segnica connota anche la proposta di Franco Valente, col suo sguardo che sembra cogliere il lirismo della materia e degli elementi. L’espressionismo astratto di Paolo Amerini pennella spiagge in cui, se i segni dell’inquinamento marchiano il paesaggio e mirano a offuscarne lo splendore, l’insieme resta dominato dalla vigorosa bellezza di una natura possente. Astratto è il percorso di Paolo Lunanova, che arabesca sui cromi marini esplorandone l’inesauribile serbatoio espressivo, giocando con parole e visualizzazione grafica dei fonemi e suscitando, nel trionfo dell’essenzialità, un senso di profonda spazialità. L’artista vela la realtà, forte dell’intuizione che si possa così giungere a dar visibilità all’invisibile. Astratta è l’acqua di Brattoli, pullulante di riflessi e geometrie dell’anima. L’emozione restituisce un’acqua debordante, che invade in misura totale la superficie del dipinto; eppure si tratta della dolce invasione di un’acqua della gioia, in cui l’individuo possa specchiarsi alla ricerca di profondissima quiete. Non mancano declinazioni della reversibilità mare-cielo. È il caso di Vittorio Valente, in cui, in una profondità che è costruzione dell’intelletto, i due messaggeri dell’orizzonte si fondono e confondono. La mistica compenetrazione di mare e cielo è pienamente realizzata nell’opera di Natale Addamiano, dove il mare è maestoso scenario di una costellazione di riflessi. Un mare che anela a essere cielo o piuttosto un cielo che nel mare viene ad assumere coscienza della sua “grandiosa immagine”, per attenerci al ‘narcisismo cosmico’ di cui parlava Bachelard. Luci e riflessi ingemmano le acque persino quando sono incupite e allora le astrazioni dal mare divengono sorelle dei cieli stellati cari al pittore. E quando assistiamo al riflesso del sole morente nelle acque, ci tornano alla mente le parole di Jung: “Il mare, pur inghiottendo il sole, lo fa rinascere nelle sue profondità”. Così i pensieri, i sogni, i desideri, le astrazioni, le rêveries che dal mare nascono in noi e nel mare riponiamo con cura. © Riproduzione riservata
Autore: Gianni Antonio Palumbo