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Iscrizioni e secolo dei lumi
15 marzo 2005

Il secolo dei lumi ebbe tra i suoi maggiori impegni la rivendicazione dei diritti dello Stato rispetto alle prevaricazioni della Chiesa. Ebbe precursori nel Seicento e nel primo Settecento all'interno della Chiesa: fra' Paolo Sarpi e Ludovico Antonio Muratori sostennero contro le pretese della Chiesa i diritti dei propri governi (senato veneziano, duca di Ferrara). Ma fu il garganico Pietro Giannone a sostenere una lotta ad oltranza sulla questione delle giurisdizioni: ricercato dalla Chiesa, accolto e poi allontanato da vari sovrani, tesi ai concordati con la Chiesa, egli pagò il suo coraggio con la proditoria cessione della sua persona alla Chiesa da parte d'un sovrano sabaudo e finì in carcere la sua vita. Non trovò neppure il sostegno dei Borboni, un cui membro, Carlo III, era allora pervenuto al regno di Napoli con volontà di lumi. A questo primo re borbonico nel sud d'Italia si riferisce la prima delle iscrizioni, che intendo esaminare in questo scritto. A Casale Navarino sulla residenza padronale era ancora nel 12 agosto 1993 al di sopra della porta principale affissa una lapide (scomparsa in un paio d'anni). Essa commemorava un atto di giustizia, reso ai proprietari del casale dal neo-sovrano, rimasto poco a Napoli, lasciandovi una discendenza di Ferdinandi e Franceschi (e Franceschielli) e partito con il suo illuminismo per altro trono europeo. La giustizia di Carlo ebbe l'efficienza cercata dai sovrani “illuminati”, fu rapida e insieme crudele. Mancavano quindici anni al libro di Cesare Beccaria (Dei delitti e delle pene). Questo era il testo dell'epigrafe: D O M C A R O L O R E G I B O R B O N I O Q V O D DIROS LATRONVM AVSVS HEIC ABERINI IN LOCO PATRATI SCELERIS ET ILLATÆ INIURIÆ VINDICAVERIT ATQ: AD PVB LICAM SECVRITATEM M:CARIATI: A: ARCIERI ET C:PITVRRO RESTE AC LAQVEO SVSPENSOS MORI IVSERIT IISDEMQ: IN FRVSTA DISCERPTIS MISERVM ATQ: ACERBVM VIGILIIS TO TIQ: VICINIÆ SPECTACULVM DEDERIT IV NONAS IVLIAS  ANNO CHRISTOGONIAS 1749  FRATRES DE GADALETA MAIESTATI EIVUS DEVOTISSIM VT NE FACTI MEMORIA PEREAT POSTRIDIE EIUS DIE  POSVERVNT  Ne do un'interpretazione dissona in un luogo da quella mediata da Corrado Pappagallo nel libro sulle torri molfettesi. “Ad onore di Dio Ottimo massimo. Al re Carlo di Borbone, perché qui ad Aberino (=Navarino), nel luogo (stesso) in cui fu perpetrato il delitto ed inferto il danno, ha punito il perverso ardire di rapinatori e per la sicurezza pubblica ha fatto (legare) con fune ed appendere con cappio e morire M.Cariati, A.Arcieri e C. Piturro e li ha lasciati, dopo che erano stati lacerati in pezzi, per miserevole ed impressionante spettacolo alle guardie (campestri) e all'intera comunità vicinale il 4 luglio dell'anno 1749 della nascita di Cristo. I fratelli (de) Gadaleta, molto riconoscenti e ligi alla sua sovranità, il dì successivo a tal (=così importante) giorno hanno affisso (questa lapide), perché non si perda la memoria del fatto”. Vorrei rilevare il linguaggio classicistico, in cui, oltre il grecismo Christogonias, spicca l'aggettivo dirus (“diros ausus”), che nel latino classico solitamente accompagna atti esecrabili e sortilegi spaventosi e spesso caratterizza cose e divinità degl'Inferi, al punto che le Furie furono dette anche semplicemente Dirae. “Diros ausus” sono perciò “ardiri infernali”, nella visione cristiana “diabolici”. Perché non fu scritto diabolicos ausus? Per due motivi, penso: per purezza di linguaggio classicistico e per ossequio alla temperie culturale avversa all'impero della Chiesa romana, senza tuttavia mettere in discussione il fondamento cristiano (Cristogonìa) della storia. Alla contesa giurisdizionalistica sono collegabili le due altre iscrizioni, di cui scrivo. Dei due sacelli in contrada Pettine il più antico risale al secolo 1700, ma la data non è più accertabile de visu, perché furono espiantati dopo l'agosto 1993 l'elegante fregio a vela che sormontava la trave della porta e la trave stessa con le incisioni alfanumeriche. Il secondo sacello ha subito danni dalle devastazioni, ma solo nell'interno, in particolare nel bell'altare dai marmi policromi, cui è stata rotta la mensa. Ma è ancora visibile la trave di porta ed è integra l'epigrafe interna. Sulla trave di porta si legge bene il nome del committente, un Nicola Monda, che volle il sacello nel 1807, e un monito a grandi lettere: QUI NON SI GODE ASILO. E' un proclama di laicismo politico, scritto in italiano, perché fosse comprensibile ai più. L'edicola infatti è un cappella missale, dotata d'altare e di minuscola sagrestia dietro esso. Come luogo propriamente sacro, poteva sottrarre alla giustizia dello Stato e ai suoi esecutori un rifugiato, colpevole di qualsivoglia delitto. Il proprietario successivo, Francesco Capocchiani, che nella lapide interna si attribuisce il merito, comprati il fondo e le edificazioni, d'aver abbellito il sacello, non ritenne, pur essendo passati l'illuminismo e il murattismo, di dover mutare opinione circa i rapporti tra Stato e Chiesa. Era il 1879, l'Italia era stata fatta, ma i rapporti con la Chiesa erano tempestosi per la politica ispirata al principio di Cavour: Libera Chiesa in libero Stato. La terza iscrizione appartiene ad un sacello in via Antica (forse Entica) delle Camere, chiuso per sua buona sorte ed adiacente all'attuale villa Introna. Il testo dell'epigrafe sulla porta della cappella è: D.O.M. DIVAE HELENAE CRUCIS INVENTRICI NON PROPTER ASYLUM QUOD REX ET IURA VETANT SED DEVOTIONIS ERGO ET UT MYSTES OPERETUR AD ARAM EMMANUEL RIBERA SACELLUM HOC AER.PR. EREXIT AN.DNI. 1769. Cioè: Nell'anno del Signore 1769 Emanuele Ribera fece elevare a proprie spese (aere proprio) questo sacello in onore di sant'Elena, che ritrovò la croce (di Cristo), non con il fine di (dare) asilo, cosa che il re e il diritto vietano, ma per motivo di devozione e affinché un sacerdote offici all'altare. Anche sulla lapide di sant'Elena si può fare un riflessione linguistica: vi leggiamo non cristianamente “sanctae Helenae”, bensì “divae Helenae”, un attributo classico (“divus”) degl'imperatori (Elena fu moglie d'un imperatore della tetrarchia dioclezianea e madre di Costantino), impresso sulla lapide per ragioni linguistiche e politiche. Onestà vuole che al motivo detto (ossequio alla volontà giurisdizionalistica dei sovrani) s'aggiunga un altro probabile: la distinzione delle cappelle private dalle ecclesiastiche, ricetto queste di rei politici e criminali e perciò esposte a contese giurisdizionali. Antonio Balsamo
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